03
mag

«Chi sono i miei fratelli?»

Marco Basaiti (1470 ca-1530 ca), Vocazione dei figli di Zebedeo. Venezia, Accademia.
Marco Basaiti (1470 ca-1530 ca), Vocazione dei figli di Zebedeo. Venezia, Accademia.

"Ecco, tua madre
e i tuoi fratelli
stanno fuori e cercano
di parlarti».
«Chi è mia madre
e chi sono i miei fratelli?»
".

(Matteo 12,47-48)

Antica questione dibattuta è questa sui “fratelli e sorelle” di Gesù. Nel Vangelo di Matteo si legge questa domanda ironica dei Nazaretani: «Non è costui il figlio del falegname? E sua madre non si chiama Maria? E i suoi fratelli Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? E le sue sorelle non stanno tutte tra noi?» (13,55-56). Abbiamo, quindi, anche i dati anagrafici di alcuni di loro, e una fonte esterna com’è l’opera Antichità giudaiche dello storico ebreo contemporaneo Giuseppe Flavio menziona Giacomo, «fratello di Gesù, detto il Cristo» (XX, 200). Lasciamo da parte le questioni strettamente teologiche sulla verginità di Maria.

Atteniamoci solo alla dimensione storica del problema. Il vocabolo greco usato dagli evangelisti è adelphós e di per sé indica il “fratello di sangue”, anche se poi dalla prima cristianità verrà applicato ai credenti in Cristo, sulla scia delle stesse parole di Gesù presenti nel nostro brano: «Chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, egli è per me fratello, sorella e madre» (Matteo 12,50). Tuttavia, è necessario risalire al mondo semitico e al fondo linguistico e sociale sotteso ai Vangeli, in particolare a quello di Matteo. Ora, in aramaico – così come in ebraico – c’è un termine (’aha’/’ah) che designa sia il fratello, sia il cugino, sia il nipote, sia l’alleato. In questa luce si comprende perché Abramo chiami suo nipote Lot “fratello” (Genesi 13,8), come fa Labano nei confronti del nipote Giacobbe (29,15).

Nel contesto socio-culturale giudaico di Gesù il termine “fratello” non ha, quindi, un senso univoco come nel greco, ove si ha un altro vocabolo per indicare il “cugino” (anepsiós). Ora, un antico apocrifo come il Protovangelo di Giacomo (II secolo) ha considerato questi “fratelli” in realtà come “fratellastri” perché in quello scritto, al momento del matrimonio con Maria, Giuseppe confessa: «Ho figli e sono vecchio » (9,2). C’è, però, un’altra considerazione più significativa e fondata. L’espressione “fratelli del Signore” nel Nuovo Testamento (Atti 1,14; 1Corinzi 9,5) designa in realtà un gruppo specifico, quello dei giudeo-cristiani legati al clan parentale nazaretano di Gesù. Essi costituirono una sorta di comunità a sé stante, dotata di una tale autorevolezza da imporre come primo “vescovo” di Gerusalemme proprio quel “fratello di Gesù” Giacomo citato anche dallo storico Giuseppe Flavio.

Ora, nel nostro brano matteano, Cristo sembra ridimensionare i loro privilegi, riducendoli all’ambito più generale, meno “carnale” e più spirituale, della fedeltà alla volontà del Signore. Peraltro, essi non sono mai chiamati, come Gesù, “figli di Maria”. In questa luce, più che a una classificazione “genealogica”, l’espressione «fratelli e sorelle di Gesù» mirerebbe a designare un gruppo della Chiesa delle origini, che si faceva forte del suo legame parentale- clanico con Gesù di Nazaret, come spesso accadeva (e accade) nel Vicino Oriente (e non solo). Il loro rilievo emergerà indirettamente nella controversia con san Paolo riguardo al cosiddetto “giudeo-cristianesimo”, che voleva imporre ai convertiti pagani un passaggio previo attraverso il giudaismo e, quindi, la circoncisione prima di approdare al cristianesimo.

Pubblicato il 03 maggio 2012 - Commenti (0)
26
apr

Lo spirito impuro

Teschio di capra, 1957, di Georgia O’Keeffe (1887-1986). San Antonio, Texas, McNay Art Museum.
Teschio di capra, 1957, di Georgia O’Keeffe (1887-1986). San Antonio, Texas, McNay Art Museum.

"Quando lo spirito impuro esce dall’uomo,
si aggira per luoghi deserti
cercando sollievo, ma non ne trova. Allora dice: «Ritornerò nella mia casa, da cui sono uscito»
".

(Matteo 12,43-44)

Gesù con queste parole sembra “sceneggiare” una storia diabolica, introducendo elementi dal sapore mitico. Innanzitutto precisiamo subito chi sia il protagonista, denominato “spirito impuro” (o “immondo”). La locuzione ricorre spesso nei Vangeli (ad esempio, in Marco 11 volte) ed è l’equivalente del “demonio”. Alla base c’è il concetto biblico rituale della “purità” che riguardava il tempio e la vita religiosa: quanto vi si opponeva era ritenuto “impuro”, cioè profano, sottratto all’orizzonte divino e, quindi, in qualche modo ostile a Dio. L’apice supremo di questa “impurità” è ovviamente Satana.

Ora, lo “spirito impuro”, nel racconto di Gesù, è rappresentato mentre viene espulso da una “casa”, ossia dal cuore di una persona che l’ha scacciato attraverso la conversione. Eccolo, allora, vagare nel deserto. Questo tratto è per noi sorprendente perché ha il sapore di qualcosa di fiabesco e, appunto, di mitico. In realtà, c’è una spiegazione legata alla cultura dell’antichità biblica. Il deserto è, in pratica, un mare di sabbia e, come il mare è il simbolo del nulla, del caos, così anche le aree desertiche raffigurano l’assenza della vita, dell’esistenza, della fecondità. Nasce, così, l’idea che esse siano popolate di demoni.

Quando si celebra il grande rito dell’espiazione comunitaria nella solennità del Kippur, il capro che reca su di sé i peccati del popolo e che viene quindi detto “di Azazel”, nome di un demonio dell’antica tradizione popolare cananea ed ebraica, viene allontanato nel deserto. Là egli porta le colpe di Israele perché vi si estinguano (si legga, al riguardo, il complesso rituale del Kippur nel capitolo 16 del libro del Levitico). Inoltre, nella Bibbia si evocano talora i se‘irîm, di per sé “i capri”, ma in realtà si tratta dei “satiri”, ossia di misteriosi esseri o geni zoomorfi che si assembrano e vagano nei luoghi desertici o nelle città in rovina. Il profeta Isaia, quando maledice Babilonia, la città dell’oppressione, annunzia che essa sarà ridotta a un campo di rovine nel quale «si stabiliranno le bestie selvatiche, i gufi riempiranno i palazzi, vi dimoreranno gli struzzi e vi danzeranno i satiri» (13,21).

La stessa scena è ripetuta dal profeta per il tradizionale nemico di Israele, Edom, nelle cui città devastate «i satiri si chiameranno l’un l’altro; là si poserà anche Lilit» (34,14), un demone mitologico femminile, destinato a una certa popolarità nel folclore e nelle tradizioni giudaiche posteriori. Non dobbiamo, dunque, stupirci che la Bibbia, parola di Dio incarnata, cioè legata a una cultura e a coordinate storiche e sociali antiche, assuma anche elementi mitici.

Essi servono a dare vivacità al messaggio che si vuole comunicare sul mistero del male e di Satana, la cui opera è appunto quella di stimolare la libertà umana inclinandola contro Dio, il bene, la giustizia e la verità. Ecco, allora, il deserto come sua sede perché simbolo di caos, di morte e di male, ed ecco anche il desiderio del demonio di rientrare nella casa del cuore e della coscienza delle persone ove poter esercitare il suo influsso nefasto.

Pubblicato il 26 aprile 2012 - Commenti (2)
22
mar

Cristo e la spada

Cristo giudice, affresco. Cattedrale di Santa Maria, Anagni (Frosinone).
Cristo giudice, affresco. Cattedrale di Santa Maria, Anagni (Frosinone).

"Non crediate
che io sia venuto
 a portare
 pace sulla terra:
 sono venuto
 a portare non pace,
 ma spada!"
(Matteo 10,34)

Con una simile frase, come fa san Paolo a definire Cristo «nostra pace, colui che di due ha fatto una cosa sola, abbattendo il muro della separazione che li divideva» (Efesini 2,14)? Subito dopo quelle parole, Gesù continuava con la stessa durezza affermando di «essere venuto a separare l’uomo da suo padre e la figlia da sua madre e la nuora da sua suocera» (Matteo 10,35). Ma non è lo stesso Gesù che, al discepolo pronto a colpire con una spada un servo del sommo sacerdote nel Getsemani, dirà senza esitazione: «Rimetti la tua spada al suo posto, perché tutti quelli che prendono la spada, di spada periranno» (26,51-52)?

È, perciò, evidente che la dichiarazione posta all’interno del cosiddetto “Discorso missionario” di Gesù, il secondo dei cinque grandi discorsi incastonati nel Vangelo di Matteo, sia da interpretare in chiave metaforica e non letterale. Quest’ultima, tra l’altro, risulterebbe in palese contrasto con il messaggio costante di Cristo che invitava il suo discepolo persino a porgere l’altra guancia a chi lo schiaffeggiava (5,39). Nella stessa linea sarà da interpretare l’episodio riferito da Luca durante l’ultima cena quando, a sorpresa, Gesù inviterà i suoi discepoli a vendere il mantello per comperare una spada. Egli intendeva in questo modo metterli in tensione: l’impero delle tenebre stava per celebrare il suo trionfo, non si poteva rimanere inerti, era necessario ingaggiare una lotta con il Male. Che l’equivoco fosse, però, in agguato appariva già in quella sera. Subito si erano fatti avanti dei discepoli a dirgli: «Signore, ecco qui due spade!». Infatti, come è attestato dallo storico giudaico filoromano Giuseppe Flavio, contemporaneo di san Paolo, era concesso di girare armati per difesa personale in alcuni territori della Palestina e anche in occasione della festa di Pasqua a causa della folla che si accalcava a Gerusalemme (così nella sua opera Antichità Giudaiche XIV,4,2; XVIII,9,2). Gesù, però, di fronte a quella risposta aveva reagito con un amaro e sconsolato: «Basta!» (Luca 22,35-38).

Qual è, allora, il significato vero dell’evocazione della spada sulle labbra di Cristo? La risposta è semplice: la scelta per il Vangelo è costosa in termini di impegno nella vita. La definizione che il vecchio Simeone, stringendo tra le braccia il neonato Gesù, gli aveva assegnato era illuminante: «Egli sarà un segno di contraddizione» (Luca 2,34). La sua presenza nel mondo non sarà neutra e incolore, la sua parola sarà come «una spada a doppio taglio che penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito » (Ebrei 4,12), dall’incontro con lui non si potrà uscire indenni, la sua proposta morale sarà molto esigente e scardinerà tanti interessi privati.

Sono molti i passi evangelici che ribadiscono il valore metaforico, ma non per questo inoffensivo, sotteso all’immagine della spada qui usata da Gesù. È, poi, suggestiva la raffigurazione del Cristo che l’Apocalisse dipinge in apertura al libro. In essa si legge che «dalla sua bocca usciva una spada affilata, a doppio taglio» (1,16), attuazione del detto isaiano secondo il quale «il soffio delle labbra (del re Messia) ucciderà l’empio» (11,4), cancellando il Male. Ed è per questo che nell’armatura simbolica del cristiano descritta da Paolo nella Lettera agli Efesini (6,11-17) c’è anche «la spada dello Spirito, che è la parola di Dio» (6,17).

Pubblicato il 22 marzo 2012 - Commenti (0)
12
gen

Quattordici generazioni

Vergine e  bambino con San Giuseppe, pittore olandese del secolo XVI. New York, Metropolitan Museum of Art.
Vergine e bambino con San Giuseppe, pittore olandese del secolo XVI. New York, Metropolitan Museum of Art.

"Tutte le generazioni da Abramo a
Davide sono quattordici; da Davide
alla deportazione in Babilonia
quattordici; dalla deportazione
in Babilonia a Cristo quattordici".
(Matteo 1,17)

Ènoto che, aprendo la prima pagina del Vangelo di Matteo, ci si imbatte in un arido elenco di nomi, una genealogia che era, però, un genere molto caro agli antichi abitanti del Vicino Oriente. Essi, infatti, in quella catena di nomi – non di rado fittizi o impropri – intuivano la propria storia e la grandezza delle loro origini. L’imbarazzo per noi lettori moderni, abituati al rigore documentario e storiografico, si materializza anche nel caso della genealogia di Gesù. Due sono i motivi di questa difficoltà. Il primo è proprio nel suggello che Matteo appone alla sua lista, marcando il numero “quattordici” come segnale numerico costante. Ora, se dovessimo ricostruire rigorosamente la sequenza della storia biblica di Israele, ci accorgeremmo che quel numero è improponibile.

Anzi, se si dovesse fare il confronto con l’analoga genealogia di Gesù stilata da Luca (3,23-38), rimarremmo ancor più sorpresi perché è totalmente diversa: anziché essere discendente, è ascendente (da Gesù risale fino alle origini dell’umanità), ha come radice non Abramo ma Adamo e ha in comune con quella di Matteo solo due nomi! Questo imbarazzo si può sciogliere tenendo conto proprio del valore simbolico, prima che storico, delle genealogie antiche. Matteo vuole dimostrare il legame intimo di Gesù con il popolo ebraico e il suo messianismo: allora ricorre alla linea dinastica davidica più che alla discendenza naturale, forse privilegiata da Luca che raccorda, invece, Cristo all’umanità intera, rappresentata appunto da Adamo. Spinto da un’esigenza che è più di indole teologica che storiografica, ecco che Matteo ordina la sequenza genealogica in una triade scandita dal settenario che, come si sa, è nella Bibbia uno dei numeri privilegiati per indicare pienezza e perfezione. Ecco, allora, il dominio del 7+7 che esalta il filo generazionale il quale si annoda alla figura gloriosa di Davide. Anzi, sempre per la mistica delle cifre bibliche e giudaiche e per il valore numerico assegnato alle lettere dell’alfabeto, secondo la tecnica detta della “gematria”, il 14 potrebbe ammiccare anche alla somma dei numeri legati alla base del nome Dawid, cioè alle tre consonanti ebraiche d-w-d che hanno il valore numerico di 4+6+4, cioè 14.

Ma al di là di simili speculazioni, rimane il significato ultimo del messaggio di Matteo: la storia della salvezza ha una sua perfezione profonda che si esprime attraverso l’armonia numerica settenaria e che crea un arco tra Davide e Gesù, al quale si può attribuire il titolo messianico di «Figlio di Davide», che risuona otto volte nel Vangelo di Matteo. Qui, però, scatta la seconda difficoltà. La lista genealogica è retta dal verbo “generò” che segna i vari anelli: esso ricorre 39 volte ma a sorpresa manca nell’anello fondamentale, l’ultimo, riguardante Gesù. Là, infatti, non si legge: «Giuseppe generò Gesù», come negli altri casi, bensì «Giacobbe generò Giuseppe, lo sposo di Maria, dalla quale è nato Gesù, chiamato Cristo» (1,16).

E allora come Gesù può essere discendente davidico se il legittimo davidide, Giuseppe, non lo genera? La risposta è nella pagina successiva (1,18-25) quando l’angelo si rivolge al futuro sposo di Maria invitandolo ad assumere la funzione di padre legale, anche se non naturale, del figlio che la sua fidanzata porta in grembo. Ora nell’antica legislazione la paternità legale (per adozione o per altra via) poteva legittimamente conferire i diritti ereditari. Giuseppe, discendente di Davide secondo la convinzione della sua genealogia tribale, rende così Gesù «Figlio di Davide» in senso autentico, introducendolo sulla ribalta della storia sotto l’egida messianica.

Pubblicato il 12 gennaio 2012 - Commenti (1)
28
apr

Le quattro colonne dei credenti

I quattro evangelisti, Jacob Jordaens (1593 - 1678), Parigi, Louvre.
I quattro evangelisti, Jacob Jordaens (1593 - 1678), Parigi, Louvre.

"Erano assidui nel seguire l’insegnamento degli apostoli, nella comunione fraterna, nello spezzare il pane e nelle preghiere. "
(Atti, 2,42)

San Girolamo, nella sua Lettera XIX, definiva gli Atti degli apostoli – la seconda opera dell’evangelista Luca, anch’essa dedicata a un misterioso personaggio di nome Teofilo – come frutto del lavoro di uno “storico” accurato e di un “artista” raffinato (il greco usato è uno dei più eleganti del Nuovo Testamento, inferiore forse solo a quello della Lettera agli Ebrei). Ed effettivamente questo libro – fatto di 18.374 parole greche, inferiore quantitativamente solo al Vangelo dello stesso autore (19.404 parole) – ci offre un vivace e documentato ritratto della Chiesa delle origini. La storia, infatti, s’intreccia sempre con la dimensione spirituale e teologica.

È il caso del versetto-sommario che vogliamo approfondire. In esso troviamo le quattro colonne che reggono l’architettura interiore della Chiesa di Gerusalemme. Il primo posto è riservato all’annunzio del Vangelo affidato agli apostoli: è la didaché e, come suggerisce questo vocabolo greco, riassume in sé i vari aspetti di quell’annunzio che è anche “insegnamento” didattico nella catechesi dei credenti e non solo la prima proclamazione ai non cristiani (quello che in greco è chiamato il kérygma, appunto il primo “annunzio”). Altrove (Atti 6,4) si parla della «diaconìa della parola», ossia di un servizio che esige un impegno totale e assoluto da parte degli apostoli, per cui la «diaconìa della carità» ai poveri verrà affidata a sette uomini “laici” che verranno poi chiamati “diaconi”.

Proprio in questa linea, ecco la seconda colonna, espressa in greco con un termine che è entrato anche nelle nostre comunità praticanti, la koinonía. Si tratta della «comunione fraterna » che fu vissuta con entusiasmo e in modo concreto in quei primi anni del cristianesimo, e ciò viene descritto con intensità da Luca: «La moltitudine dei credenti era un cuor solo e un’anima sola. Nessuno diceva sua proprietà quello che possedeva ma tutto era tra loro comune... Nessuno tra loro era bisognoso perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano il ricavato e lo deponevano ai piedi degli apostoli perché venisse distribuito secondo le necessità di ciascuno» (4,32-34). È quella sorta di “comunismo” religioso e ideale che rifletteva sia elementi biblici (in Deuteronomio 15,4 si legge: «Non vi sarà nessun bisognoso in mezzo a voi»), sia componenti giudaiche e persino di stampo greco pitagorico o stoico. Non dobbiamo dimenticare, però, che gli stessi Atti degli apostoli segnalano le prime difficoltà nell’applicazione di questa norma comunitaria: il caso di Anania e Saffira (capitolo 5) è emblematico.

La terza colonna è la “frazione del pane”, come si dice in greco, ossia il pane eucaristico spezzato nella celebrazione della comunità liturgica. E, quarta colonna, «le preghiere»: se l’Eucaristia era il peculiare rito cristiano, ciò non toglieva che i primi giudeo-cristiani frequentassero ancora il tempio di Gerusalemme, ritrovandosi in un’area specifica, «il portico di Salomone» (5,12), cantando i Salmi biblici e il repertorio delle benedizioni e preghiere giudaiche, dimostrando così un legame vivo con la propria matrice culturale e spirituale.

Pubblicato il 28 aprile 2011 - Commenti (0)
21
apr

La tenda d'argilla

Mattoni d'argilla al sole, fragile casa dell'uomo che ritorna polvere e sabbia
Mattoni d'argilla al sole, fragile casa dell'uomo che ritorna polvere e sabbia

"Quando verrà dissolta la nostra casa terrena, cioè la tenda del nostro corpo, avremo da Dio una dimora, sarà una casa eterna, non edificata da mani d’uomo, celeste."
(2Corinzi 5,1)

Siamo «abitatori di case d’argilla, cementate nella polvere, e che si sfasciano come carie... Le corde della tenda sono strappate e moriamo senza capire». Le parole amare e realistiche del libro di Giobbe (4,19.21) dipingono la radicale fragilità della creatura umana che un altro sapiente biblico, l’autore del libro della Sapienza, tratteggerà con un linguaggio desunto dalla cultura classica greca che marcava la tensione tra anima spirituale e corpo materiale: «Un corpo corruttibile appesantisce l’anima e la tenda d’argilla grava la mente dai molti pensieri » (9,15).

È, questa, un’esperienza che tutti proviamo quando, attraverso una malattia, sentiamo ramificarsi in noi la mano gelida della morte che crea un disfacimento della «tenda del nostro corpo» in cui sembra accampata la nostra anima. Questa immagine nomadica della tenda è cara naturalmente alla Bibbia che si rivolge a un popolo di pastori.

Ecco come il re di Giuda, Ezechia, contemporaneo di Isaia (VIII secolo a.C.), descriveva la sua situazione dimalato grave: «La mia tenda sta per essere divelta e scagliata lontano da me, come una tenda di pastori. Come un tessitore tu, o Dio, hai arrotolato la mia vita e stai per recidermi dall’ordito» (Isaia 38,12).

Anche san Paolo ricorre a queste immagini per descrivere la nostra morte: parla, infatti, di “tenda”, ma rimanda pure all’emblema del sedentario, l’oikía in greco, ossia la “casa”. Tuttavia, il suo sguardo va oltre questa dissoluzione che per molti è il tragico approdo ultimo e unico della nostra esistenza. E lo fa sulla base della fede nella risurrezione di Cristo. Nello sfacelo della morte è, infatti, passato lo stesso Figlio di Dio, che di sua natura è eterno: in quell’ammasso di argilla sfatta che è il cadavere ha deposto un germe di eternità, vi ha immesso il principio della nostra riedificazione gloriosa.

Ecco, allora, la nostra nuova dimora che, come il corpo risorto di Cristo, non è «edificata da mani d’uomo». Gesù stesso l’aveva indirettamente affermato per sé e annunciato davanti ai giudici del Sinedrio quando non aveva smentito l’accusa dei testimoni che affermavano: «Lo abbiamo udito dire: Io distruggerò questo tempio eretto da mani d’uomo e in tre giorni ne edificherò un altro non eretto da mani d’uomo» (Marco 14,58). Infatti, un giorno, dopo aver cacciato i mercanti dal tempio, aveva dichiarato: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere». E l’evangelista Giovanni aveva commentato: «Egli parlava del tempio del suo corpo» (2,19.21). L’apostolo Paolo agli stessi cristiani di Corinto aveva descritto così la risurrezione che ci attende: «Si semina un corpo corruttibile e risorge incorruttibile; si semina un corpo animato, risorge un corpo spirituale» (1Corinzi 15,42-44).

Significativa è l’ultima frase nell’originale greco: ciò che ora noi siamo è un «corpo animato », ossia congiunto e reso vivo e operante dalla psyché, l’“anima”; ma l’attesa è per un corpo animato dallo pneuma, cioè posseduto e trasformato dallo Spirito di Dio, «un corpo spirituale», pervaso dalla stessa vita divina, la «casa eterna, non edificata da mani d’uomo e celeste», di cui parla san Paolo nel nostro frammento. Come cantava la poetessa Margherita Guidacci (1921-1992), «quanto di te sopravvive / è in altro luogo, misterioso, / ed ormai reca un nome nuovo / che solo Dio conosce».

Pubblicato il 21 aprile 2011 - Commenti (0)
03
mar

Ascolta, Israele!

Guercino (1591 - 1666), Il Padre eterno, Torino, Galleria Sabauda.
Guercino (1591 - 1666), Il Padre eterno, Torino, Galleria Sabauda.

"Ascolta, Israele, il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo! Amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutte le forze".
(Deuteronomio 6,4-5)

Nel film Kapò (1960) di Gillo Pontecorvo, quando la protagonista che, per sopravvivere, ha scelto di espletare la funzione di sorvegliante dei suoi fratelli ebrei nel lager nazista, vede il loro terribile esito finale, non riesce più a trattenersi e pronuncia la sua professione di fede, quella che è quotidianamente sulle labbra di ogni israelita: Shema’ Jisra’el, «Ascolta, Israele!...».

Si colloca, così, di nuovo dalla parte delle vittime e si sacrifica per permettere al prigioniero russo di cui si è innamorata e ad altri ebrei di fuggire dal campo. Noi abbiamo ora proposto gli stessi versetti mirabili che costituiscono anche per Gesù «il più grande e il primo dei comandamenti» della Bibbia, quando risponde al «dottore della Legge che lo interroga per metterlo alla prova» (Matteo 22,35-38).

Tre sono le osservazioni di commento che ora vorremmo riservare a questo passo capitale nella spiritualità giudaica e cristiana. Innanzitutto ci soffermiamo sull’imperativo «Ascolta!», in ebraico Shema’. La Bibbia esalta questo verbo, tant’è vero che esso punteggia il Deuteronomio, il libro della Legge proclamata, e “ascoltare” è sinonimo di “obbedire”. Si tratta, quindi, di un’adesione intima e non di un mero sentire esterno, di un orecchio libero dalle “ortiche” delle chiacchiere (per usare l’espressione della poetessa ebrea Nelly Sachs). È il non essere «ascoltatore smemorato ma colui che mette in pratica», come scrive san Giacomo (1,25). «Ascolta» e «amerai» sono, infatti, nel nostro testo in parallelo tra loro.

La seconda considerazione tocca, invece, il cuore di quell’ascolto-obbedienza. È l’accoglienza ferma della professione di fede monoteista: «Il Signore è uno solo!». Dio non ha attorno a sé un pantheon,ma non è neppure l’ente supremo astratto, immobile e impassibile nella sua eternità e nella sua trascendenza. Infatti, si dice che egli «è il nostro Dio», ha cioè con noi un legame di alleanza. In questa luce si capisce anche perché la Bibbia non è un’asettica raccolta di teoremi teologici, ma è una storia viva e tormentata di relazione tra due soggetti personali, liberi e capaci di amore, Dio e l’umanità.

Proprio per questo, la fede biblica comprende tante dimensioni. Ed è ciò che è espresso nella nostra terza nota che mette l’accento sulle varie componenti dell’adesione umana. Nel testo ebraico sono implicati «il cuore, l’anima e le forze» nella loro totalità. Sappiamo che l’“anima” per la Bibbia è l’intero essere vivente, la persona nella sua capacità vitale e comunicativa, mentre il “cuore” è la coscienza e le “forze” rimandano a quell’energia che si esplica nell’agire. Siamo, quindi, in presenza di tutto l’essere umano che deve pensare, fremere, operare, scegliere, orientandosi sempre verso Dio.

È il ritratto di una fede che presenta la persona che si offre al suo Signore nella sua integralità. Sono, così, escluse certe pallide spiritualità fatte solo di vago sentimento, ma anche un impegno religioso solo esteriore e operativo. Lode e giustizia, adorazione e scelte
concrete si devono intrecciare.

A questo proposito va fatta un’osservazione finale. Quando Gesù cita il passo del Deuteronomio, introduce una variante suggestiva che alcuni studiosi ritengono legata all’orizzonte culturale del tempo, quando la civiltà greca aveva ottenuto una posizione di primato: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente». Sì, anche la ragione si deve associare alla fede perché esse sono «come le due ali» che ci conducono nel cielo della contemplazione e della verità (e l’immagine, come è noto, è dell’enciclica Fides et ratio, “fede e ragione” appunto, di Giovanni Paolo II).

Pubblicato il 03 marzo 2011 - Commenti (0)
17
feb

Amerai il tuo prossimo

Il tre maggio (1808 - 1814), opera di Francisco Goya, Madrid, Prado.
Il tre maggio (1808 - 1814), opera di Francisco Goya, Madrid, Prado.

"Non ti vendicherai né coverai rancore contro i figli del tuo popolo. Amerai, invece, il tuo prossimo come te stesso".
(Levitico 19,18)

«Si parla sempre del fuoco dell’inferno.L’inferno è freddo... L’inferno è non amare più». Ho intrecciato due frasi tratte da romanzi diversi dello scrittore cattolico francese Georges Bernanos (1888-1948) per introdurre uno degli appelli biblici più citati. Nella nostra ormai vasta raccolta di frammenti delle Sacre Scritture non poteva, infatti, mancare questo passo che nel suo apice – in ebraico we’ahavtà lere’akà kamôk, «amerai il prossimo tuo come te stesso» – era caro anche a Gesù che lo cita due volte (Matteo 5,48; 22,39), ricordando che è il «secondo comandamento, simile al primo», quello dell’amore per Dio, entrambi fondamento di «tutta la Legge e i Profeti». Su questa scia continuerà san Paolo quando ammonirà che tutti i comandamenti della Legge «si riassumono in queste parole: Amerai il prossimo tuo come te stesso» (Romani 13,9), dopo aver ribadito ai Galati che «tutta la Legge trova la sua pienezza in un solo precetto: Amerai il prossimo tuo come te stesso» (5,14).

Potremmo continuare a lungo nell’elencare quanti hanno trovato in questo precetto l’anima autentica della morale biblica e la sorgente della vera spiritualità. Per stare ancora alla Bibbia, ricorderò solo la dichiarazione lapidaria di san Giacomo: «Se adempite il più importante dei comandamenti secondo la Scrittura: Amerai il prossimo tuo come te stesso, fate bene» (2,8). Vorrei, invece, fare solo due note sul versetto del Levitico (ossia dei sacerdoti, i figli di Levi, il terzo libro della Bibbia). In esso, innanzitutto, si parla esplicitamente dei «figli del tuo popolo», cioè di Israele. L’impegno dell’amore è, quindi, circoscritto a un orizzonte preciso, quello della comunità ebraica.

Sappiamo, però, che già i profeti allargheranno questo spazio, invitando a condividere l’amore di Dio per tutte le sue creature: «Benedetto sia l’Egiziano mio popolo, l’Assiro opera delle mie mani e Israele mia eredità» (Isaia 19,25). E i sapienti biblici ricorderanno che il Signore «ha compassione di tutti… e ama tutte le cose esistenti e nulla disprezza di quanto ha creato perché, se avesse odiato qualcosa, non l’avrebbe neppure creata» (Sapienza 11,23-24). Le frontiere saranno abbattute ulteriormente nel cristianesimo allorché Gesù, commentando proprio il passo del Levitico, presenterà un’applicazione quasi provocatoria, introducendo anche l’amore per il nemico e giungendo così alla radice ultima del precetto anticotestamentario: «Amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori» (Matteo 5,44). Il “prossimo” ora è divenuto veramente l’altro, chiunque e comunque egli sia, un altro che tu trasformi in un “io” che è come te stesso. 

Una seconda nota sull’appello “levitico”. In apertura esso evoca due realtà antitetiche all’amore: la vendetta e il rancore. A incarnare nella sua forma estrema questo antipodo della carità è Lamek, il discendente di Caino che minaccia così: «Uccido un uomo per una mia scalfittura e un ragazzo per un mio livido. Sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamek settantasette» (Genesi 5,23-24). È il canto selvaggio della vendetta a spirale, della zampata bestiale che gode del sangue versato, della logica distruttrice della guerra che ignora ogni prossimo in un empito insaziabile di odio per il nemico. Risuona, allora, per contrasto l’ideale nuova applicazione del comandamento del Levitico nelle parole che Cristo rivolge a Pietro che chiedeva: «Quante volte devo perdonare al mio fratello, se pecca contro di me? Fino a sette volte?». E Gesù replica: «Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette!» (Matteo 18,21-22).

Pubblicato il 17 febbraio 2011 - Commenti (0)


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Autore del blog

Gianfranco Ravasi

Gianfranco Ravasi

Gianfranco Ravasi è un cardinale, arcivescovo cattolico e biblista italiano, teologo, ebraista ed archeologo.
Dal 2007 è presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, della Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa e presidente della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra.

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