10
ott

Hanno ancora senso i Cie in Italia?

Dall’1 all’8 ottobre una speciale delegazione delle Nazioni Unite per la salvaguardia della dignità e dei diritti umani degli immigrati ha visitato diverse realtà esistenti nel nostro Paese, incontrando personalità di governo e operatori sociali che gestiscono vari progetti per immigrati, quali i Centri di accoglienza richiedenti asilo (Cara) e i Centri di identificazione ed espulsione (Cie). Lo speciale Rapporteur dell’ONU François Crépeau ha voluto incontrare anche un ristretto numero di persone, una quindicina in tutto, appartenenti ad alcune organizzazioni non governative che si occupano in modi diversi di immigrati.
Alcune Congregazioni religiose internazionali maschili e femminili, appartenenti al gruppo “Vivat International” che si occupano di progetti di giustizia, pace, sviluppo ed ecologia e che hanno rappresentanze presso l’ONU, mi hanno chiesto di partecipare all’incontro di Roma nella sede dell’Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim). Volentieri ho condiviso l’esperienza di molte religiose che operano a contatto con tanti immigrati in situazioni di disagio e discriminazione nelle nostre città. La nostra presenza e le nostre  esperienze di religiose sono particolarmente significative e preziose, in particolare perché vissute a contatto con moltissime donne trattenute nel Cie di Ponte Galeria di Roma. Lo speciale Rapporteur era particolarmente interessato a conoscere la complessità dei nostri sistemi legislativi riguardanti il settore dell’immigrazione, con particolare attenzione alla protezione degli immigrati e richiedenti asilo che entrano in Europa attraverso le nostre frontiere, via terra e soprattutto via mare.

Il punto cruciale sul quale eravamo tutti in piena sintonia riguardava la situazione dei richiedenti asilo e più ancora di coloro che sono trattenuti nei Cie in attesa di identificazione ed espulsione. Realtà ormai diventata insostenibile, dopo che sono stati prolungati i tempi di reclusione fino a 18 mesi. Tutto questo crea sofferenza inutile, reazioni di disperazione e tanta violenza a volte non più contenibile e giustificata. La permanenza nei Cie è di gran lunga peggiore di quella nelle carceri, perché non ci sono progettualità e attività per impegnare le energie fisiche e mentali. Tutto questo distrugge la persona. Tutti sono concordi nell’affermare l’inutilità di tali misure punitive e restrittive sia da un punto di vista umano ma anche da un punto di vista economico. E allora ci domandiamo: a che cosa servono questi Centri?

Quanto personale viene impiegato per garantire sbarre di ferro e porte ermeticamente chiuse perché nessuno scappi da un simile inferno? È ingiusto e inumano costringere persone giovani a vivere le loro lunghe giornate senza uno scopo, assicurando loro solo il cibo e un letto, dove trascorrono molte ore del giorno e della notte, perché non hanno altra scelta.
Noi, con il nostro gruppo di 15 religiose di diverse nazionalità e congregazioni visitiamo, dal 2003, ogni sabato, la sezione femminile del Cie di Ponte Galeria (Roma). E possiamo confermare e denunciare con forza la triste realtà di questo luogo e l’inumanità del trattamento riservato agli immigrati. Giovani donne, piene di voglia di vivere e di aiutare le famiglie lontane, sono costrette a rimanere rinchiuse in una stanza tutto il giorno, sul loro misero letto senza potersi impegnare in una minima attività educativa, ricreativa o lavorativa. E questo per lunghi mesi, nell’incertezza totale circa la loro sorte.

Molte di loro, specialmente le nigeriane, nella speranza di poter trovare una via d’uscita si affidano ad avvocati senza scrupoli, che promettono loro di aiutarle (certamente in cambio di notevoli somme di denaro) facendo richiesta di asilo politico. Una richiesta che rarissimamente andrà a buon fine.
Nei primi anni della nostra presenza a Ponte Galeria, in sintonia con chi operava nel Cie e attraverso i nostri contatti con le detenute, riuscivano a far uscire alcune di queste giovani vittime di tratta per iniziare un progetto di reintegrazione e legalizzazione, ridonando loro dignità, libertà e legalità.

Oggi, invece, questo è molto più difficile perché i trafficanti e gli avvocati consigliano di far richiesta di asilo politico, anche se la nostra esperienza ci dice che nel 95 per cento dei casi questo status non sarà mai concesso. Intanto, si prolunga di qualche mese l’illusione di una legalità che non sarà mai ottenuta.
Il sottosegretario al ministero dell’Interno, Saverio Ruperto, ha recentemente dichiarato che entro la fine dell’anno i Cie avranno miglioramenti organizzativi e gestionali con l’obiettivo di «dare uniformità alle varie prassi che si sono stabilizzate» al loro interno. Personalmente non sono molto ottimista e penso che non cambierà nulla se non c’è la volontà di mettersi in ascolto anche di chi da anni conosce il problema e continua ad offrire la propria esperienza e presenza, mirando al vero bene delle persone.

Quante volte abbiamo chiesto alle autorità competenti di visitare con noi questi luoghi di disperazione e sofferenza; abbiamo fatto proposte per ottenere un locale che servisse per l’aggregazione dei gruppi e per attività formative e ricreative; abbiamo suggerito di poter costituire tavoli di riflessione e coordinamento dove discutere di queste situazioni e trovare insieme soluzioni degne di esseri umani, con diritti e doveri assunti da tutte le parti; abbiamo insistito perché queste persone vengano rimpatriate senza inutili ritardi e in modo dignitoso; abbiamo suggerito rimpatri assistiti che salvaguardino la dignità della persona che torna a casa a mani vuote dopo il fallimento del suo sogno migratorio...

Purtroppo, tutto questo non è ancora stato recepito, ma noi continuiamo a entrare ogni sabato al Cie di Ponte Galeria per essere almeno una presenza di ascolto, comprensione e consolazione di chi vive nella disperazione.

Il Rapporteur ha ringraziato e ha chiesto proposte concrete. Dal canto nostro, abbiamo di nuovo ribadito con forza alcuni punti: un’accoglienza nel nostro Paese fatta con progettualità e competenza in linea con le norme e gli standard internazionali; la chiusura dei Cie e la ristrutturazione dei Cara; la revisione delle procedure nelle nostre ambasciate all’estero per concedere i visti di ingresso regolari, quando ci sono tutti i presupposti per farlo, altrimenti si rischia di favorire l’immigrazione clandestina e il traffico di esseri umani; la creazione di tavoli di confronto e discussione con quanti sono particolarmente impegnati e senza interessi nel vasto mondo degli immigrati e del loro futuro di persone.
Solo lavorando in rete con tutte le forze che si occupano di questa emergenza e del vasto fenomeno dell’immigrazione si potranno trovare risposte adeguate per costruire insieme il futuro nuovo di una società multiculturale.

Pubblicato il 10 ottobre 2012 - Commenti (0)
08
apr

Quella veglia con Joy e papa Wojtyla

Quest’anno mi trovo a celebrare la veglia pasquale a Zagabria, in Croazia, ospite delle suore Ancelle di Gesù Bambino che si stanno preparando a celebrare il loro Capitolo generale. Mi hanno chiesto di condividere con loro l’esperienza della lotta contro le nuove schiavitù, che vedono coinvolte molte giovani dai Paesi dell’Est Europa.

Per la prima volta partecipo alla liturgia pasquale in un Paese che in pochi anni è passato dalla dittatura comunista a una democrazia, che permette ai tanti cristiani rimasti fedeli alle loro tradizioni di poter esprime la loro fede. Durante la celebrazione colgo ciò che significa per questi popoli il passaggio del Mar Rosso, l’attraversata del deserto per raggiungere la terra promessa e vivere in piena libertà anche le loro radici cristiane.

Ma come mi capita sempre in questi ultimi anni, il ricordo più forte è quello di una veglia vissuta nella basilica di San Pietro nel 2003, in cui ufficiava il Beato Giovanni Paolo II, già assai sofferente. In una basilica gremita di fedeli, oltre a ricordare il grande mistero della resurrezione di Cristo, abbiamo condiviso la gioia di accogliere nella comunità cristiana nuovi membri adulti, tra cui una giovane mamma africana. La sua storia ha un sapore tutto particolare. Quel battesimo, infatti, segnava il coronamento di un lungo cammino di morte e di vita, di sofferenza e di gioia, di fatica e di speranza.

Joy, assai emozionata, aveva un abito bianco, tipico del suo Paese, di quelli che le donne indossano per le grandi occasioni. Aveva un aspetto davvero regale. Ricordavo molto bene la prima volta che l’ho incontrata alla stazione Termini di Roma, per offrirle la possibilità di lasciare la vita di sfruttamento sulla strada, a cui era costretta ed entrare in una comunità di accoglienza. Joy era incinta. Doveva prendersi cura di sé e della creatura che sarebbe dovuta nascere di lì a tre mesi. Ricordo la sua disperazione e i suoi singhiozzi, i suoi alti e bassi, le paure e le attese, le lacrime e i sogni infranti, la rabbia e il silenzio, la lontananza della famiglia, ma anche la vergogna e la paura di non essere più accolta dai genitori se avessero saputo.

Ma poi, quasi per miracolo, ci fu il contatto telefonico con la madre, che non sentiva da moltissimo tempo, pochi giorni prima del parto. Da vera mamma africana, le disse di non aver paura, ma di accogliere la sua bambina con amore, perché ogni vita è sempre un dono di Dio. Quelle parole hanno trasformato l'atteggiamento di Joy giacché, nonostante il suo dramma, si è sentita ancora una volta capita e accolta. “Senza il vostro aiuto e la vostra accoglienza - mi disse al telefono - ora, non solo non sarebbe nata la mia bambina, ma non ci sarei stata più nemmeno io, giacché la vita per me non aveva più alcun senso”.

Come poi Joy sia giunta al Battesimo in San Pietro rimane un vero miracolo dell'amore traboccante di Dio, che ancora una volta si china sulle sue creature povere e insignificanti per renderle creature nuove e pasquali. La fantasia di Dio oltrepassa tutti i nostri sogni. Joy desiderava che, il giorno del suo battesimo, il Santo Padre benedicesse anche la sua bambina. E così, all'offertorio, le è stato concesso di offrire non solo la sua vita trasformata in Cristo, ma anche quella della sua creatura.

Joy è salita dignitosamente verso l’altare e si è avvicinata al Santo Padre, presentando la piccola Cristina tranquillamente addormentata tra le braccia della madre. Il Santo Padre ha accarezzato e benedetto entrambe, madre e figlia, segnate per sempre dalla Grazia e dall’amore infinito di Dio che si china con compassione sulle sue creature per imprimere il sigillo della sua Paternità e Maternità.

Pubblicato il 08 aprile 2012 - Commenti (0)

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Autore del blog

Noi donne oggi

Suor Eugenia Bonetti

Missionaria della Consolata, è stata per 24 anni in Kenya. Al ritorno comincia a lavorare in un Centro d’ascolto e accoglienza della Caritas di Torino, con donne immigrate, molte delle quali nigeriane, vittime di tratta. Dal 2000 è responsabile dell’Ufficio tratta dell’Unione superiori maggiori italiane (Usmi). Coordina una rete di 250 suore di 70 diverse congregazioni, che operano in più di cento case di accoglienza. Il presidente Ciampi l’ha nominata nel 2004 Commendatore della Repubblica italiana.
Ha scritto con Anna Pozzi il libro "Schiave" (Edizioni San Paolo).

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