13
apr

Quei migranti li conoscevo bene

Uno dei barconi di migranti in arrivo a Lampedusa.
Uno dei barconi di migranti in arrivo a Lampedusa.

Sentendo nei giorni scorsi la notizia terribile del naufragio di un’imbarcazione di migranti partita dalla Libia, con oltre duecento morti nelle acque del nostro Mediterraneo, non ho potuto che provare sconcerto e cordoglio. Mi ha colpito molto sapere che tra di loro c’era anche una donna somala incinta di otto mesi che si è salvata miracolosamente.

     Donne, uomini, ragazzi come questi, che hanno perso la vita mentre ne cercavano una migliore, li avevo conosciuti, poco più di un anno fa, proprio in Libia. E in particolare nelle prigioni di questo Paese, dove ha incontrato molti migranti subsahariani. Quando hanno sentito parlare dell’Italia si sono illuminati. Per loro il nostro Paese, o l’Europa più in generale, rappresentano la terra promessa, un sogno di libertà, emancipazione, progresso. Il sogno di una vita diversa.

     È un grande miraggio: non si rendono conto esattamente dei contorni e del caro prezzo che devono pagare. E che stanno già pagando. Spesso sono i trafficanti di esseri umani o altri migranti che, tornando in patria, esibiscono soldi, potere, ricchezza e contribuiscono ad alimentare questo sogno. Un sogno che coltivano anche all’interno di quelle prigioni, nonostante le orribili condizioni in cui sono costretti a vivere. Ma forse è proprio quel sogno che li aiuta a non lasciarsi andare e a non perdere la speranza in una vita diversa. La nostra rete di religiose che è presente anche in Libia, sta cercando offrire assistenza e accompagnamento specialmente alle donne che arrivano in questo Paese attraverso il deserto del Sahara, molte delle quali in stato di gravidanza e bisognose di tutto, dall’alloggio all’assistenza sanitaria, o per aiutarle, in alcuni casi, a tornare indietro, a casa loro.

     Ma anche qui in Italia dobbiamo ancora lavorare molto per una cultura dell’accoglienza. E ancor prima per cambiare lo sguardo rispetto a queste persone: affinché non siano guardate e giudicate in prima istanza come “invasori”, clandestini, criminali o peggio ancora. Ma, appunto, come persone, esseri umani con la loro dignità.    

Pubblicato il 13 aprile 2011 - Commenti (0)
19
feb

Dare voce a chi non ce l'ha

Suor Eugenia con una ragazza nigeriana.
Suor Eugenia con una ragazza nigeriana.

Mi scrive una signora, all’indomani della manifestazione del 13 febbraio a Roma: «Ho ascoltato il suo intervento a favore delle donne, in piazza del Popolo. Mi ha colpito molto! Non credevo che una suora potesse avere tanto coraggio e coerenza; indubbiamente il suo intervento ha fatto cambiare opinione a molti. A me personalmente di sicuro: miscredente, ex comunista, senza più fede politica, mai creduto in quella religiosa; tuttavia, oggi  il suo coraggio mi ha fatto nascere il desiderio di saperne di più. […] Ma lo sa che con il suo intervento ha aperto gli occhi, il cervello e il cuore a tanti di noi? Mi creda, ha seminato il bene meglio di tanti inascoltati, ripetitivi e pomposi sermoni cardinalizi. […] Lei ha parlato a migliaia di persone, di sinistra, politicizzate e sicuramente non di chiesa come mai nessun aveva fatto in passato».

     Sono moltissime le reazioni come questa, di persone lontane dalla Chiesa, che mi comunicano la loro vicinanza e la loro condivisione di quanto ho detto domenica scorsa. Così come sono moltissime le reazioni di amici, conoscenti, suore e tanti sconosciuti più vicini alla Chiesa. Gli uni e gli altri mi confermano che il senso della mia presenza e del mio intervento è stato capito, nonostante alcune critiche.

     Io, come tante altre religiose, cerco di attingere la genuinità della mia parola non dai teoremi astratti, ma dal vivere quotidianamente un impegno, a contatto con donne ferite, abusate e sminuite nella loro umanità. Noi religiose, che lavoriamo nel difficile e delicato settore della tratta di esseri umani per lo sfruttamento sessuale, non abbiamo mai voluto salire in cattedra per dare lezioni o fare proclami. Né tantomeno per fare politica o anche solo del semplice moralismo. Ma sempre, ovunque ce lo abbiano permesso, abbiamo cercato di far sentire la nostra voce, per denunciare questo vergognoso traffico e le condizioni di sfruttamento che rendono schiave migliaia di donne nel nostro Paese. E per dire che qualcosa si può e si deve fare per combatterlo e per dare una speranza di vita nuova alle vittime.

     L’occasione che mi è stata offerta domenica mi ha permesso di portare nuovamente la mia testimonianza, anche se in un contesto forse inconsueto. Ma il mio atteggiamento è stato quello di sempre: ovvero quello di chi si fa, con umiltà ma anche con determinazione, voce di chi non ce l’ha, cercando di rompere almeno un poco il muro dell’indifferenza.

Pubblicato il 19 febbraio 2011 - Commenti (2)

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Autore del blog

Noi donne oggi

Suor Eugenia Bonetti

Missionaria della Consolata, è stata per 24 anni in Kenya. Al ritorno comincia a lavorare in un Centro d’ascolto e accoglienza della Caritas di Torino, con donne immigrate, molte delle quali nigeriane, vittime di tratta. Dal 2000 è responsabile dell’Ufficio tratta dell’Unione superiori maggiori italiane (Usmi). Coordina una rete di 250 suore di 70 diverse congregazioni, che operano in più di cento case di accoglienza. Il presidente Ciampi l’ha nominata nel 2004 Commendatore della Repubblica italiana.
Ha scritto con Anna Pozzi il libro "Schiave" (Edizioni San Paolo).

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