01 apr
Il tempo di primavera corrisponde sempre alla santa Quaresima, ma mentre cristianamente si cerca di utilizzare questo periodo per digiuni e astinenze utili al corpo e all’anima, laicamente ci si sottopone a maratone alimentari stressanti, col solo scopo di guadagnare la linea, in vista dell’estate. Un conto è eseguire un digiuno anche rigido, tipo pane e acqua, un giorno alla settimana, il venerdì, un altro è digiunare per tanti giorni consecutivamente, solo per dimagrire, senza controllo medico.
Il digiuno mobilizza tutti i grassi, sia viscerali sia sottocutanei, e li trasforma in zuccheri che poi vengono bruciati e utilizzati come energia. Io consiglierei, a chi non è in grado di eseguire il digiuno spirituale: gravide, bambini, anziani, ammalati, di fare piccole e salutari rinunce, come ai dolci, che non sono essenziali tutti i giorni, oppure ai manicaretti particolarmente conditi e quindi troppo ricchi di grassi. La semplicità della tavola può essere un modo per ricordarsi di essere cristiani e in cambio se ne otterrà salute del corpo e dell’anima. Ma il digiuno disintossica? Se si esegue al modo cristiano sopradescritto, che ha un tempo ridotto, sostanzialmente si salta un pasto principale e si ottiene effettivamente un regime di compenso contro gli eccessi alimentari; il fegato gradisce e partecipa con piacere a questa azione di pulizia metabolica. Le diete digiuno/dimagranti se sono esasperate portano a stati di acetonemia, per la carenza di zuccheri che fa soffrire sia il cervello sia i muscoli che gradiscono miele, riso, pasta, pane, patate e legumi.
Il digiuno prolungato è sempre deleterio perché porta in sé un’azione negativa, cioè, si perde peso abbastanza rapidamente ma quando si smette la dieta si ingrassa altrettanto velocemente, anzi, talvolta di più di quanto si sia dimagrito.
Pubblicato il 01 aprile 2011 - Commenti (0)
01 apr
Dal 1˚ aprile sarà molto più difficile (ma non impossibile!) taroccare l’olio extravergine di oliva, grazie all’entrata in vigore del nuovo Regolamento europeo 61/2011 che introduce nuovi parametri chimici che ci permetteranno di scoprire se quell’olio è stato ottenuto da olive di scarsa qualità. L’elemento che aiuterà i consumatori nella scelta del migliore olio extravergine è la concentrazione degli alchil-esteri (etil e metil esteri da acidi grassi). L’Europa ha fissato delle soglie massime di queste sostanze, al di sopra delle quali un olio non potrà più essere etichettato come extravergine, e chi lo farà sarà denunciato per frode in commercio.
Un vero olio extravergine non dovrà superare il limite di 75 milligrammi per chilo della somma di esteri etilici e metilici. Se questa somma però è compresa tra 75 e 150 milligrammi, allora scatta un secondo parametro con cui si potrà definire come extravergine
quell’olio: si tratta del rapporto tra esteri etilici e metilici, purché questi non superino i 150 milligrammi. Si poteva essere più rigorosi e utilizzare solo la prima misurazione come valore massimo, perché in effetti un grande olio extravergine di oliva è tale se non supera i 30 milligrammi.
Come è stato possibile fino a oggi taroccare un cattivo olio d’oliva e farlo diventare un buon extravergine? I furbi ricorrono alla deodorazione di olive di scarsa qualità e con un’alta acidità, che emanano odori cattivi. Con questa tecnica si superano i panel-test. Grazie alle nuove norme, i ricercatori possono scoprire l’inganno. Purtroppo, però, l’olio che è stato imbottigliato prima del 1˚ aprile, potrà essere venduto fino a esaurimento delle scorte!
Pubblicato il 01 aprile 2011 - Commenti (0)
01 apr
È certamente necessario combattere l’obesità e prevenire il sovrappeso ma occorre evitare eccessi di dimagrimento che sarebbero altrettanto deleteri per la salute, specie della donna, soprattutto se in menopausa. Si può dire che c’è una taglia per ogni età. Infatti, a 20 anni si può tentare di rimanere in una taglia 42, a 30-35 anni, da mammina o
comunque da donna matura e bella, va bene anche la taglia 44 e, a seguire, si può immaginare una taglia 46 per una donna matura e anche per le nonne.
Questa forma fisica non è difficile da mantenere o da raggiungere, limitando o modificando
l’introito delle calorie. Per le donne, il problema è soprattutto di natura costituzionale, infatti la massa grassa femminile dovrebbe essere tra il 22 e il 25% mentre per i maschi intorno al 15%. Il tessuto adiposo ha una funzione di riserva.
La singola cellula adiposa è formata dal 90% di grassi trigliceridi, mentre il tessuto adiposo ne contiene solo il 65%. Per dimagrire occorre consumare le riserve di grasso, molto utile è l’esercizio fisico di tipo aerobico, cioè: lunghe camminate (almeno un’ora), cyclette, tapis roulant, nuoto… La seconda opzione è diminuire l’apporto calorico. È necessario, quindi, approfondire le qualità nutrizionali di ciò che mangiamo regolarmente. Variare molto e possibilmente frazionare il cibo quotidiano in cinque pasti, privilegiando verdure e frutta di stagione senza dimenticare di inserire i legumi, circa due volte la settimana in alternativa a pasti proteici come pesce, carni, formaggi, uova. È un errore eliminare la pasta ma è corretto diminuire la porzione.
Pubblicato il 01 aprile 2011 - Commenti (0)
16 feb
Il diabete è ormai una malattia endemica nel mondo e per mantenere sotto controllo i valori degli zuccheri nel sangue (glicemia) è importante seguire una dieta sana ed equilibrata.
Infatti, quando la glicemia diventa instabile è consigliabile alimentarsi con cibi che regolano il glucosio. Ci sono alimenti che aiutano a regolarizzare la glicemia e possono essere utili a livello mentale e muscolare.
Ad esempio, la farina d’avena: è un potente regolatore della glicemia perché, per essere digerita occorre molto tempo.
L’orzo spesso sostituisce il caffè a colazione ed è un altro alimento da abbinare all’avena. I broccoli e gli spinaci sono utili a chi soffre di irregolarità della glicemia, perché contribuiscono a mantenerne l’equilibrio.
Il salmone e le carni magre, sono ottimi. Il salmone perché contiene molti omega-3 e omega-6 e può contribuire a ridurre picchi e cali della glicemia. E la frutta? Si tratta di un dilemma che affligge i diabetici ma la frutta non è vietata, basta scegliere quella a basso indice glicemico (Ig) che ha maggiore fibra; questa aiuta a sentirsi più pieni e a prevenire rapide oscillazioni del livello di glucosio nel sangue: infatti, più fibra c’è, minore è il picco glicemico raggiunto dopo la digestione. Inoltre, gli alimenti che hanno alti livelli di Ig possono lasciare una sensazione di fame e una certa insoddisfazione, che potrebbe portare a mangiare troppo. Le mele hanno un Ig di 38 e 4 grammi di fibra. Una tazza di ciliegie ha un Ig di 41 e 2 grammi di fibra; le pere di tipo medio hanno un Ig di 38 e 4 grammi di fibra; le prugne, medio-grandi hanno un Ig di 39 e 4 grammi di fibra. Infine,
le fragole, circa mezza tazza, hanno un Ig di 41, e 2 grammi di fibra.
Pubblicato il 16 febbraio 2011 - Commenti (0)
09 feb
Il sushi è diventato un piatto quasi italiano, soprattutto per i giovani. Ma spesso, dopo averlo consumato, il nostro apparato digerente protesta. Perché? Perché per digerire il sushi ci vogliono i giusti geni. Infatti, secondo un recente studio, la flora intestinale dei giapponesi sarebbe in grado di produrre un enzima specifico per l’assimilazione del piatto nazionale. I giapponesi li hanno questi geni, fabbricati da intere generazioni, noi no! Un recente studio condotto in Francia ha infatti evidenziato come i batteri intestinali dei giapponesi siano in grado di produrre enzimi specifici per la digestione delle alghe utilizzate nella preparazione del sushi.
Uno di questi, la porfirinase, ha una caratteristica molto particolare: è in grado di rompere
le molecole di carboidrati contenuti nelle pareti cellulari della porfira (o nori), un’alga rossa
largamente utilizzata nella cucina nipponica per arrotolare i bocconcini di pesce crudo.
Questo enzima è stato trovato nella Zobellia galactanivorans, un batterio marino che si ciba dell’alga, ma anche nell’intestino di alcuni volontari giapponesi dopo uno studio sulle differenze tra le flore batteriche intestinali di popolazioni diverse. Grazie a questi batteri,
i giapponesi sarebbero quindi in grado di digerire la porfira assimilandone i carboidrati.
In tutti gli altri “intestini delmondo”, invece, l’alga transita così com’è.
Questa sorta di minestrone genetico può essere spiegato solo da una mutazione dei batteri intestinali dei giapponesi che si sarebbero mescolati con la Zobellia, mangiata in larga quantità dai loro ospiti insieme alle alghe.
Questo meccanismo, noto come trasferimento genetico orizzontale, è molto comune tra i
batteri, che mescolano il loro patrimonio genetico dando origine a forme con caratteristiche
sempre nuove, come la resistenza agli antibiotici.
Pubblicato il 09 febbraio 2011 - Commenti (0)
09 feb
Il cibo, quando arriva nell’intestino, continua il suo percorso grazie ai movimenti della muscolatura autonoma intestinale. In condizione normale, ciò permette di avere un ritmo quotidiano di evacuazione, ma esistono diversi fattori che rallentano la peristalsi, prolungando il tempo e provocando la stitichezza. Fra i fattori che possono favorire la stipsi intestinale ci sono la vita sedentaria, la dieta povera di fibre idrosolubili e quella povera di liquidi, lo stress emotivo e, infine, l’alterazione della flora batterica intestinale.
Se la modifica delle errate abitudini non dovesse risolvere il problema si può ricorrere (occasionalmente) ai lassativi, seguendo il consiglio del medico riguardo al tipo più adatto al proprio caso, alle dosi e ai tempi di somministrazione. I più indicati in questo caso sono i lassativi di massa che agiscono sulla composizione delle feci, che hanno bisogno di diventare morbide. Questi lassativi sono a base di fibre idrosolubili che hanno la capacità
di trattenere acqua nell’intestino, con un’azione simile a quella di una spugna che assorbendo l’acqua si gonfia. I cibi ideali sono i legumi, i cereali e soprattutto la frutta e la verdura di stagione, meglio se cotta. Bisogna assumere le cinque porzioni al giorno, favorendo comunque i legumi, come fagioli, ceci, lenticchie e piselli, di cui non siamo grandi
consumatori, specie i bambini e gli anziani, per la mancanza di tempo nel cucinarli.
Pubblicato il 09 febbraio 2011 - Commenti (0)
09 feb
Gli ospedali purtroppo sono sempre pieni di ammalati ricoverati che, oltre alle cure quotidiane, attendono di essere nutriti in modo adeguato, senza dimenticare che anche dal cibo può derivare un po’ di appagamento e di gioia.
Purtroppo le notizie che il ministero della Salute ha dato di recente non sono confortanti:
in ospedale, in genere, si mangia male, anzi molto male! La malnutrizione, che riguarda il 31 per cento dei pazienti ricoverati, rallenta la risposta alle cure e appesantisce molto la spesa sanitaria.
Il ministero ha pubblicato le “Linee di indirizzo nazionale per la ristorazione ospedaliera e assistenziale”, perché cattiva alimentazione, dovuta a cibo scadente, mancanza di screening nutrizionali e personale non sempre adeguato a questo ruolo fanno allungare del 55 per cento la durata dei singoli ricoveri. Si è fatto un calcolo: se si mangiasse adeguatamente si potrebbe diminuire, in un anno, circa l’8,5-9 per cento delle giornate di ricovero, con un risparmio che va da 1 a 3 milioni di euro. Cosa provoca il problema? Non tutti gli ospedali hanno un dipartimento di dietetica che sappia scegliere le materie prime alimentari di buona qualità, con una particolare attenzione ai cibi a filiera corta, cioè prodotti dai contadini locali, quindi a chilometri zero, come ormai si è soliti dire. Nel caso delle mense ospedaliere ma anche per le famiglie, la scelta di cibi ecosostenibili contribuisce alla difesa dell’ambiente e alla qualità della vita.
Il benessere alimentare diventerà sempre di più un valore assoluto per guarire meglio e più velocemente i pazienti ricoverati. A loro bisognerà garantire buoni standard, orari tradizionali dei pasti come quelli casalinghi e rispetto delle festività, anche durante un ricovero ospedaliero.
Pubblicato il 09 febbraio 2011 - Commenti (0)
09 feb
Qualche giorno fa, in Germania, l’industria Harles und Jentzsch, che produceva sia oli industriali sia acidi grassi recuperati da oli di scarto alimentare, da aggiungere ai mangimi, ha contaminato una parte degli alimenti che nutrono ogni giorno i consumatori tedeschi. I livelli di diossina ritrovati nei grassi animali prodotti da quell’azienda erano di molto superiori alla norma e sono state chiuse quasi cinquemila aziende del settore, ma ci sono altri allevamenti di polli e suini coinvolti anche in Olanda e in Gran Bretagna, dove sono arrivate le uova incriminate. Qualcosa è arrivato anche in Italia e, grazie ai Nas e al ministero della Salute, si sta provvedendo a isolare gli eventuali alimenti (uova, latte e grassi animali) che potrebbero essere contaminati.
Nel primo test tedesco la dose di diossina è 78 volte il limite concesso dalle autorità sanitarie, tenendo conto che il valore massimo di tossina tollerato dalla legge è di due soli picogrammi per grammo di grasso corporeo.
Che cos’è la diossina? In realtà non è una singola sostanza ma si tratta di oltre 200 composti diversi, 17 dei quali altamente tossici per l’uomo. Il più pericoloso è il tetraclorodibenzo-p-diossina (Tcdd), la cosiddetta “diossina Seveso”.
La diossina è contenuta in moltissimi prodottidi uso comune, come oli isolanti, additivi antimuffa, vernici e impregnanti per il legno. Può diffondersi nell’ambiente anche in seguito a processi di combustione, da quelli che avvengono nei motori agli incendi all’uso di stufe e caminetti. Se ingerita dai mammiferi, si accumula nei grassi e l’organismo
umano la elimina molto lentamente.
Se ingerita dall’uomo in quantità elevate, questa sostanza può provocare lesioni della pelle, calo della fertilità, ritardo della crescita, tumori. Perché ci siano danni alla salute è necessario che l’esposizione sia prolungata nel tempo. Un uomo può introdurre un massimo di 23 picogrammi al giorno dalla carne, 13 picogrammi dal latte, 5 da prodotti di altro genere e altrettanti dal pesce.
Pubblicato il 09 febbraio 2011 - Commenti (0)
12 gen
Per perdere i chili in eccesso guadagnati in poco tempo, molti pazienti, specie le donne, per paura dei classici farmaci anoressizzanti che sono droghe, cercano comunque una soluzione miracolosa, ma naturale. Ecco quindi che ci si affida ai farmaci dimagranti venduti in erboristeria, perché si pensa non abbiano controindicazioni per la salute. Ma non è così!
Tachicardia, ipertensione, allergie, orticaria e anche danni epatici, sono alcune delle reazioni avverse osservate dal sistema di sorveglianza dell’Istituto superiore di sanità per prodotti a base di piante officinali e integratori alimentari a scopo dimagrante. Un esempio
di effetto negativo è quello osservato dopo l’assunzione di un prodotto con arancio amaro, che contiene Sinefrina e può causare tachicardia o ipertensione. Altra sostanza a rischio è il Fucus che può stimolare la produzione di ormoni tiroidei. È rischioso anche assumere prodotti contenenti fibre.
Le fibre liquide hanno il compito, se assunte con l’acqua, di gonfiarsi nello stomaco e dare un sensazione di sazietà. È possibile che queste fibre possano portare anche a occlusioni intestinali e contemporaneamente possano alterare anche la funzionalità del fegato. È il caso della pianta Garcinia Cambogia, contenuta in un prodotto dimagrante, che ha causato una reazione letale in una donna provocandole una necrosi massiva del fegato. Effetti sul sistema nervoso sono stati rilevati per l’uso di un prodotto a base di Coleus Forskoli, una pianta risultata contaminata che ha dato luogo alla sindrome anticolinergica tipica dell’atropina, mentre reazioni avverse per la cute, come rossori, allergie e persino orticaria, sono state documentate in seguito all’impiego di prodotti contenenti Ginko Biloba. Attenzione, quindi: i miracoli non li fanno le piante. Dimagrire costa fatica ed èmeglio rivolgersi a un dietologo o almedico di famiglia.
Pubblicato il 12 gennaio 2011 - Commenti (0)
12 gen
Dopo le grandi abbuffate natalizie, purtroppo qualche chiletto è arrivato a marcare sempre di più il girovita e altri distretti corporei. Cosa fare allora per recuperare? I
nnanzitutto non ci si faccia assillare dal cibo e definiamo a priori quali alimenti e piatti ci converrà assumere e quali no. È importante mangiare lentamente e masticare a lungo: dà la sensazione di una maggiore sazietà.
Si raccomanda di evitare pasti ricchi, cercando di mangiare poco ma spesso, almeno cinque spuntini al giorno. È consigliabile diminuire il consumo di carboidrati mangiando un po’ meno pasta e pane; sostituire i cibi ricchi di grassi con alimenti più magri, come legumi, frutta e verdura.
Bere, inoltre, tanta acqua, almeno due litri al giorno, magari frazionandoli bevendo un bicchiere ogni ora della giornata. Mangiare ogni giorno almeno cinque porzioni di frutta fresca e verdura di stagione. Piano con i formaggi e i latticini; evitare bevande zuccherate, meglio l’acqua di rubinetto; ridurre al minimo il consumo di alcol; praticare almeno un’ora di palestra, con esercizi di tipo aerobico, come la cyclette o il tapis roulant o la camminata continuativa di circa un’ora, tre volte alla settimana per tonificare e rassodare il corpo. È sufficiente ridurre di un terzo le calorie che si è soliti assumere per riprendere forma.
Pubblicato il 12 gennaio 2011 - Commenti (0)
04 gen
Detto da un dietologo potrebbe sembrare un controsenso, ma a Natale una volta tanto è giusto far festa, accantonando i dettami dietetici, tranne che per coloro i quali hanno delle controindicazioni mediche. Un’unica raccomandazione riguarda le quantità: assaggiare tutto, senza abbuffarsi, per poter arrivare fino al dessert. A Natale sono irrinunciabili alcuni piatti caratteristici, come il cappone, il tacchino, la gallinella o altro e, soprattutto, il panettone, il pandoro, gli struffoli, il torrone... Resto sempre un dietologo, quindi raccomando almeno di non strafare col numero delle portate.
Antipasti, massimo uno o due, magari a base di verdure calde, ben aromatizzate. I classici primi piatti sono in genere paste ripiene come agnolotti, ravioli, tortellini in brodo oppure conditi con burro o salse tipiche regionali o locali. Meglio solamente un primo, ma se la tradizione ne vuole almeno due, per esempio anche un risotto, magari al tartufo, occorrono piccole porzioni sia dell’uno sia dell’altro. Se il secondo piatto è a base di pesce o di carne bianca, come il cappone, non c’è problema, perché fritture a parte, sono in genere abbastanza digeribili. Si arriva, così, al dessert e qui i buoni propositi vanno veramente a farsi benedire, perché non è possibile rinunciare ad alcunché; altrimenti che Natale sarebbe senza almeno una buona fetta di panettone o pandoro, o di torrone che ci fa ritornare bambini, e poi ancora cannoli, babà, pastiera, frutta secca e così via? Già solo a descriverli, si ingrassa! Il tutto naturalmente associato a del buon vino, rosso o bianco, e alla fine non possono mancare un moscato o uno spumante italiano.
L’indomani, se non fosse Santo Stefano, però, sarebbe obbligatorio seguire un menù di “scarico”, quindi ricco di minestroni e passati di verdura, oltre che di frutta fresca di stagione, in modo da riequilibrare l’eccesso delle calorie introdotte prima.
Pubblicato il 04 gennaio 2011 - Commenti (0)
04 gen
Il caffè può influenzare la digestione dei carboidrati? Pare proprio di sì! Da parecchio tempo, infatti, noi nutrizionisti abbiamo evidenziato il potere protettivo del caffè nei confronti del diabete di tipo 2. Ma quali sono i meccanismi che consentono di prevenire
questa patologia? Secondo una ricerca dell’Inran, il caffè pare sia proprio in grado di inibire uno degli enzimi intestinali deputati alla digestione dei carboidrati. Questa azione potrebbe determinare un rallentamento nell’assorbimento del glucosio e attenuare così
il picco glicemico che si osserva dopo il consumo di un pasto, contribuendo alla riduzione
del rischio di diabete di tipo 2.
Lo studio si è svolto con l’utilizzo di due approcci sperimentali: uno bioinformatico e uno in vitro. Mediante tecniche di simulazione al computer, è stata valutata la capacità dei composti fenolici presenti nel caffè di legare, e quindi, inibire, gli enzimi coinvolti nel metabolismo dei carboidrati. Le simulazioni sono state poi confermate dallo studio in vitro che però ha lasciato qualche dubbio nello studio sull’uomo, tant’è che la dottoressa Fausta Natella, ricercatrice Inran responsabile del progetto, ha dichiarato che, nonostante gli studi dimostrino che un consumo abituale e moderato di caffè riduca il rischio di diabete di tipo 2, non è ancora noto con quale meccanismo la bevanda possa agire.
Si è ipotizzato che il caffè interferisca con il processo di digestione dei carboidrati, ipotesi che è stata confermata dai dati sperimentali ottenuti in vitro, e vanno confermati da uno studio in vivo condotto sull’uomo. Se questo fosse il meccanismo con cui il caffè agisce, si dovrebbe consigliare di bere una tazzina subito dopo i pasti. Facendo attenzione, però, a non abusarne e a non superare le 4-5 tazzine al giorno.
Pubblicato il 04 gennaio 2011 - Commenti (0)
04 gen
Siamo cresciuti in Italia con la certezza che la prima colazione del mattino debba essere molto equilibrata. Però oggi dobbiamo fare i conti con un’americanizzazione della colazione, tanto che ora la chiamiamo breakfast! Facciamo allora un paragone calorico e nutrizionale per capire quali differenze ci sono e soprattutto chi sbaglia o indovina di più per la nostra salute.
Da sempre la nostra colazione vince il confronto con tutti gli altri tipi di colazione mondiali, a cominciare da quella tradizionale anglosassone composta da: un uovo con bacon (30 grammi), due fette di pancarrè tostato, un succo d’arancia non zuccherato (200 centilitri), un caffè, un cucchiaino di zucchero; e fornisce 382 Kcalorie con 17 grammi di grassi. Come si può intuire subito, questo tipo di menù fornisce purtroppo troppe proteine animali e acidi grassi saturi, ma anche poche fibre vegetali e poche vitamine. Quali sono le possibili conseguenze? Quelle di mettere su dei chili e, a lungo andare, anche un possibile aumento dei livelli di colesterolo e dei trigliceridi. Una classica colazione italiana composta da: una tazza di latte parzialmente scremato (200 centilitri); biscotti secchi (50 grammi), un cucchiaino di zucchero e una spremuta di arancia; fornisce 375 Kcalorie con 8 grammi di grassi di cui pochi di origine animale e molta energia pronta.
Pubblicato il 04 gennaio 2011 - Commenti (0)
04 gen
I diverticoli sono delle piccole ernie che assomigliano a dei palloncini e si formano lungo tutto il tratto dell’intestino crasso (o grosso intestino). Prediligono, soprattutto, il colon
discendente e poi la flessura del sigma, che rappresentano l’ultima parte dell’intestino, prima di arrivare al retto. La loro sintomatologia è classica: dolori addominali, specie a
sinistra dell’addome, stitichezza e molto meteorismo.
Questa malattia è più diffusa nei Paesi connotati da benessere e sviluppo economico, dove è possibile un’alimentazione troppo raffinata. Come prevenirla, oppure curarla? Utilizzando un regime dietetico moltoricco di buona fibra vegetale. Infatti, i diverticoli si formano per un’eccessiva pressione all’interno dell’intestino, causata da feci troppo secche e dure. Una dieta ricca in fibra, quindi, aiuta a renderle molto più morbide. Combattendo la stitichezza, si previene, indirettamente, anche la formazione di diverticoli intestinali. La fibra, infatti, si divide in solubile e insolubile; la solubile ha la capacità nell’intestino di assorbire acqua; quella insolubile, invece, a contatto con l’acqua intestinale si trasforma in una specie di gel e non ha un’azione lassativa diretta ma favorisce la flora batterica e aiuta l’intestino a regolare le sue funzioni.
Al riguardo c’è una triade salutista da tenere presente: oltre alla fibra, va assunta tanta acqua e occorre fare tanto movimento. Bisogna muoversi almeno mezz’ora al giorno di seguito (con una camminata lenta, ma costante) e non a scatti, come pulendo la casa o facendo pesi in palestra.
Pubblicato il 04 gennaio 2011 - Commenti (0)
04 gen
L’acne è una dermatosi che colpisce soprattutto i giovani e in molti casi tende a scomparire da sola dopo un certo numero di anni; se non è curata, può lasciare profonde cicatrici sulla pelle e può anche provocare disturbi psicologici, in particolare nei giovani.
Uno studio condotto all’Università di Oslo ha dimostrato che esiste una certa associazione tra un’alimentazione ricca di zuccheri e l’insorgenza dell’acne nella pubertà, soprattutto per quanto riguarda l’indice glicemico dei cibi. Sicuramente la pelle sta bene quando l’intestino funziona bene e la flora intestinale è al meglio, perciò un’alimentazione ben equilibrata e ricca di cibi o bevande vegetali non può far altro che aiutare tutto l’organismo, pelle compresa. Nelle persone geneticamente predisposte, dice il dottor Vincenzo Bettoli, dell’Ambulatorio acne dell’Ospedale di Ferrara, un eccessivo consumo di cibi con alto indice glicemico, come pane bianco, patate, miele e ovviamente zucchero, può essere fattore di peggioramento dell’acne e bisogna tener conto anche della contemporanea presenza di proteine e grassi che fanno variare la velocità di assorbimento intestinale.
Tutto è legato alla presenza di una sostanza (Igf1) che ha recettori in tutto l’organismo che spesso scambia con l’insulina, prodotta proprio in risposta al cibo ingerito. La Igf1 nella pelle stimola la proliferazione di sebociti cheratinoici e genera grassi nonché alcuni ormoni androgeni. In particolare si è visto che la concentrazione di Igf1 è più alta nelle donne con l’acne. Per cui bisogna mangiare più cibi integrali, una giusta dose di proteine animali, ma soprattutto vegetali, e come condimento, meglio l’olio extravergine di oliva.
Pubblicato il 04 gennaio 2011 - Commenti (0)
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