22
mar

Cristo e la spada

Cristo giudice, affresco. Cattedrale di Santa Maria, Anagni (Frosinone).
Cristo giudice, affresco. Cattedrale di Santa Maria, Anagni (Frosinone).

"Non crediate
che io sia venuto
 a portare
 pace sulla terra:
 sono venuto
 a portare non pace,
 ma spada!"
(Matteo 10,34)

Con una simile frase, come fa san Paolo a definire Cristo «nostra pace, colui che di due ha fatto una cosa sola, abbattendo il muro della separazione che li divideva» (Efesini 2,14)? Subito dopo quelle parole, Gesù continuava con la stessa durezza affermando di «essere venuto a separare l’uomo da suo padre e la figlia da sua madre e la nuora da sua suocera» (Matteo 10,35). Ma non è lo stesso Gesù che, al discepolo pronto a colpire con una spada un servo del sommo sacerdote nel Getsemani, dirà senza esitazione: «Rimetti la tua spada al suo posto, perché tutti quelli che prendono la spada, di spada periranno» (26,51-52)?

È, perciò, evidente che la dichiarazione posta all’interno del cosiddetto “Discorso missionario” di Gesù, il secondo dei cinque grandi discorsi incastonati nel Vangelo di Matteo, sia da interpretare in chiave metaforica e non letterale. Quest’ultima, tra l’altro, risulterebbe in palese contrasto con il messaggio costante di Cristo che invitava il suo discepolo persino a porgere l’altra guancia a chi lo schiaffeggiava (5,39). Nella stessa linea sarà da interpretare l’episodio riferito da Luca durante l’ultima cena quando, a sorpresa, Gesù inviterà i suoi discepoli a vendere il mantello per comperare una spada. Egli intendeva in questo modo metterli in tensione: l’impero delle tenebre stava per celebrare il suo trionfo, non si poteva rimanere inerti, era necessario ingaggiare una lotta con il Male. Che l’equivoco fosse, però, in agguato appariva già in quella sera. Subito si erano fatti avanti dei discepoli a dirgli: «Signore, ecco qui due spade!». Infatti, come è attestato dallo storico giudaico filoromano Giuseppe Flavio, contemporaneo di san Paolo, era concesso di girare armati per difesa personale in alcuni territori della Palestina e anche in occasione della festa di Pasqua a causa della folla che si accalcava a Gerusalemme (così nella sua opera Antichità Giudaiche XIV,4,2; XVIII,9,2). Gesù, però, di fronte a quella risposta aveva reagito con un amaro e sconsolato: «Basta!» (Luca 22,35-38).

Qual è, allora, il significato vero dell’evocazione della spada sulle labbra di Cristo? La risposta è semplice: la scelta per il Vangelo è costosa in termini di impegno nella vita. La definizione che il vecchio Simeone, stringendo tra le braccia il neonato Gesù, gli aveva assegnato era illuminante: «Egli sarà un segno di contraddizione» (Luca 2,34). La sua presenza nel mondo non sarà neutra e incolore, la sua parola sarà come «una spada a doppio taglio che penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito » (Ebrei 4,12), dall’incontro con lui non si potrà uscire indenni, la sua proposta morale sarà molto esigente e scardinerà tanti interessi privati.

Sono molti i passi evangelici che ribadiscono il valore metaforico, ma non per questo inoffensivo, sotteso all’immagine della spada qui usata da Gesù. È, poi, suggestiva la raffigurazione del Cristo che l’Apocalisse dipinge in apertura al libro. In essa si legge che «dalla sua bocca usciva una spada affilata, a doppio taglio» (1,16), attuazione del detto isaiano secondo il quale «il soffio delle labbra (del re Messia) ucciderà l’empio» (11,4), cancellando il Male. Ed è per questo che nell’armatura simbolica del cristiano descritta da Paolo nella Lettera agli Efesini (6,11-17) c’è anche «la spada dello Spirito, che è la parola di Dio» (6,17).

Pubblicato il 22 marzo 2012 - Commenti (0)
01
mar

Non indurci in tentazione

Tentazione di sant’Antonio di Domenico Morelli (1826-1901). Roma, Galleria d’arte moderna.
Tentazione di sant’Antonio di Domenico Morelli (1826-1901). Roma, Galleria d’arte moderna.

"Non indurci
in tentazione,
ma liberaci
dal male".
(Matteo 6,13)

Se nella liturgia eucaristica recitiamo la preghiera del Padre nostro, la conclusione è quella che abbiamo sopra citato e che da sempre sappiamo a memoria. Se, invece, prendiamo in mano la nuova versione ufficiale della Bibbia della Conferenza episcopale italiana, troviamo quest’altra traduzione: «Non abbandonarci alla tentazione », una frase certamente meno dura della prima più comune. Questa, però, ricalca sostanzialmente il testo greco originario, il quale ha letteralmente «non farci entrare, non portarci dentro la tentazione». La frase, nell’originale aramaico usato da Gesù, supponeva forse un senso solo “permissivo”: «Non lasciarci entrare nella tentazione» e, così, si avrebbe in pratica la nuova resa del «non abbandonarci », che sarebbe perciò legittima a livello di significato.

Tuttavia, vorremmo cercare ora di giustificare anche la versione tradizionale tanto aspra nella sua “induzione” da parte di Dio alla tentazione. Innanzitutto distinguiamo tra “tentazione-prova”, vissuta da Abramo, Israele nel deserto, Giobbe e che è comprensibile come un’educazione alla fedeltà, all’amore puro, alla fede genuina, e la “tentazione- insidia” che mira, invece, alla ribellione dell’uomo contro Dio e la sua Legge e che ha come provocatore Satana o il mondo peccatore, come accade per esempio a Eva e Adamo. Eppure, nella Bibbia si ha, talora a sorpresa, come soggetto anche di questa “tentazione- insidia” Dio stesso.

Tanto per fare un esempio, un atto di superbia del re Davide è posto dal Secondo Libro di Samuele sotto l’insegna divina: «Dio incitò Davide a fare il male attraverso il censimento di Israele» (24,1), mentre il posteriore e parallelo Primo Libro delle Cronache ha un più naturale «Satana incitò Davide a censire Israele» (21,1). Come spiegare questa “induzione” di Dio al male che aleggia anche nella frase in questione del Padre nostro? La risposta è da cercare nella mentalità semitica antica. Essa per evitare di introdurre un dualismo, ossia l’esistenza di due divinità, l’una buona e l’altra satanica, cerca di porre tutto l’orizzonte del bene e del male sotto il controllo dell’unico Dio.

Nel libro di Isaia il Signore non esita a dire: «Sono io che formo la luce e creo le tenebre, faccio il bene e causo il male: io, il Signore, compio tutto questo!» (45,7). In realtà, è proprio la Bibbia a insegnarci che la scelta per il male dev’essere ricondotta alla libertà umana, stimolata dal tentatore diabolico. Ma per salvare il primato assoluto di Dio, si usano queste e altre formule che ai nostri orecchi risultano imbarazzanti e che non contraddicono l’altra dottrina sulla responsabilità umana, ben espressa dal sapiente biblico detto Siracide: «Da principio Dio creò l’uomo e lo lasciò in balìa del suo proprio volere. Se tu vuoi, puoi osservare i comandamenti; l’essere fedele dipende dalla tua buona volontà... Davanti agli uomini stanno la vita e la morte, a ognuno sarà dato ciò che a lui piacerà» (15,14-15.17).

Pregando il Padre di «non indurci in tentazione», in ultima analisi si riconosce la sua signoria suprema, ma gli si chiede anche di non permettere che entriamo nel cerchio attraente del peccato, di non abbandonarci alle reti della “tentazione-insidia”, di “liberarci dal male” come spiega poi la successiva invocazione. Certo è che in questa domanda del Padre nostro sono coinvolti temi teologici capitali come la libertà e la grazia, la fedeltà e il peccato, il bene e il male.

Pubblicato il 01 marzo 2012 - Commenti (3)
24
feb

Non desiderare!

Susanna e i vecchioni del Veronese (1528-1588). Madrid, Museo del Prado.
Susanna e i vecchioni del Veronese (1528-1588). Madrid, Museo del Prado.

"Io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore.".
(Matteo 5,28)

Si è spesso ironizzato su questa frase del Discorso della Montagna, mostrandone l’eccesso. D’altronde, non è forse vero che «il desiderio è la liana dell’esistenza», come dice un testo sacro indù, il Dhammapada? La risposta a questo interrogativo e ai relativi corollari sarcastici è duplice. Iniziamo puntando la nostra attenzione sul verbo “desiderare”, in greco epithyméin. Esso rimanda al sottofondo ebraico del nono e decimo comandamento del Decalogo che suonava così: «Non desidererai la casa del tuo prossimo. Non desidererai la moglie del tuo prossimo» (Esodo 20,17; nel Decalogo parallelo di Deuteronomio 5 si anticipa la donna rispetto alla casa). Là si usava il verbo ebraico hamad, che aveva un valore particolare, ricalcato da quello greco presente nel Vangelo di Matteo.

Di scena con quel termine non era la semplice emozione istantanea e spontanea di fronte a una persona o a una realtà attraente, bensì una decisione profonda della volontà che pianifica un progetto vero e proprio per conquistare l’oggetto del desiderio, anche attraverso una macchinazione o una tensione psicologica intima o una costante concupiscenza. Pensiamo al celebre racconto del c. 13 del libro di Daniele ove quei due anziani tentano di sedurre Susanna, con una passione frenetica e insensata, senza alla fine riuscirvi.

Ecco, Gesù ammonisce che si può compiere adulterio anche senza giungere, forse per motivi estrinseci, a commetterlo realmente, ma solo attuandolo con il cuore, con la scelta interiore, con una programmazione coerente e cosciente di tradimento.

A questo punto introduciamo la seconda osservazione di indole più generale. Essa rimanda al contesto che già in una precedente analisi di un altro versetto matteano del Discorso della Montagna – quello sull’insulto aggressivo al fratello (5,22) – abbiamo puntualizzato. Nell’architettura di quel Discorso ci si imbatte in quelle che sono state chiamate le “sei antitesi” (5,21-48). Gesù, a prima vista, sembra opporre a sei precetti della Legge biblica altrettanti comandamenti suoi, di taglio antitetico. In realtà, come già notava uno studioso, David Daube, nella sua opera del 1956 The New Testament and the Rabbinic Judaism, «la relazione tra le due parti dello schema (“Avete udito... ma io vi dico...”) non è di puro contrasto. Il secondo elemento dell’antitesi rivela il senso racchiuso nel primo, anziché sopprimerlo».

Gesù, quindi, assume l’antico comandamento biblico, ne rifiuta l’interpretazione riduttiva e letteralista che era propria di un certo atteggiamento del suo tempo (e, per certi versi, costante nei secoli) e ne mostra la vera anima, la forza sottesa, qualora quel comandamento sia compreso nel suo significato profondo al di là della lettera.

Anche nel nostro caso del “desiderio” si intuisce questa logica radicale, protesa a celebrare la verità genuina e l’autenticità del matrimonio: «Avete inteso che fu detto: Non commetterai adulterio! Ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla...» (5,27-28). Cristo propone una spiritualità matrimoniale e una morale sessuale di pienezza che egli vede già iscritta nel sesto comandamento del “non commettere adulterio” (Esodo 20,14), il cui vero valore va oltre il mero dettato letterale del tradimento, ovviamente condannato.

Pubblicato il 24 febbraio 2012 - Commenti (3)
17
feb

Raká e Môré

Il piccolo ebreo offeso di Ivan Kramskoj (1837-1887). San Pietroburgo Museo Statale Russo.
Il piccolo ebreo offeso di Ivan Kramskoj (1837-1887). San Pietroburgo Museo Statale Russo.

"Chi dice al fratello: “Raká!” dovrà essere sottoposto al Sinedrio. Chi gli dice : “Môré!” sarà destinato al fuoco della Geenna".
(Matteo 5,22)

Ecco davanti a noi una frase molto forte, incastonata in quel testo fondamentale della predicazione di Gesù che è il Discorso della Montagna. Quest’ultimo, in verità, è una raccolta di diversi interventi che Cristo pronunziò in ambiti e tempi differenti e che l’evangelista ha collocato sul fondale di un “monte” evocatore del Sinai, così da creare un parallelo positivo tra Mosè e Cristo stesso, il Mosissimus Moses, come lo definiva Lutero, cioè la guida suprema, il Mosè all’ennesima potenza. Gesù, infatti, non era «venuto ad abolire la Legge o i Profeti ma a portarli a pienezza» nel loro messaggio (Matteo 5,17).

Due sono le questioni che stanno davanti al lettore. Innanzitutto puntiamo su quelle parole che abbiamo intenzionalmente lasciato nel tenore originale dei Vangeli. La prima è la trascrizione greca della parola aramaica raqa’ che denota lo stupido, una persona “senza cervello”, “dalla testa vuota”, con un aspetto di aggressività offensiva pari al nostro “cretino” o “imbecille”. Il secondo è, invece, un vocabolo greco e indica “l’insensato”, lo stolto attivo, in ultima analisi “il pazzo”. Tuttavia, nel parallelo ebraico sotteso si aveva una connotazione ben più grave: con quel termine si bollava l’empietà religiosa, l’apostasia idolatrica ed è per questo che alcune versioni traducono con “rinnegato”.

Siamo, quindi, di fronte ad attacchi verbali feroci che sbocciano dal terreno dell’odio e del disprezzo. Ma proprio qui scatta la seconda questione a cui sopra si accennava. Per un tale atto è adeguata una condanna così grave e fin assoluta, ossia la denuncia al supremo tribunale giudaico del Sinedrio di Gerusalemme? O, peggio, la consegna al «fuoco della Geenna», nota immagine biblica per designare il giudizio infernale, nella totale rimozione dalla comunione con Dio? La risposta è in tutta l’atmosfera e nello stesso filo rosso che regge il Discorso della Montagna.

Gesù ricorre spesso al paradosso e alla radicalità perché la sua non è la proposta di una pura e semplice regola morale fatta di tanti precetti e articoli di diversa gravità, un po’ come accadeva nel giudaismo che aveva elencato 613 comandamenti ricavandoli dalla Torah, cioè dalla Legge biblica presente nei primi cinque libri della Sacra Scrittura. Cristo, invece, vuole spingere il suo discepolo a un’attitudine totale e assoluta di fedeltà che nasce dal cuore e dall’amore e non da una sequenza di atti religiosi che, una volta compiuti, chiudono il capitolo dell’impegno di fede. È un po’ ciò che accade, per esempio, all’amore materno o paterno che non si riduce solo ad alcune ore o atti del giorno, ma abbraccia la totalità del tempo e dell’esistenza.

In questa luce il cristiano deve dedicarsi a combattere ogni offesa e colpa nei confronti del prossimo, puntando alla perfezione; non deve evitare soltanto i peccati gravi come l’omicidio o la violenza fisica. È un po’ quello che emerge se si leggono le sei “antitesi” che sono intessute nel Discorso della Montagna (Matteo 5,20-48) e che iniziano proprio con quella che noi abbiamo citato. Essa suona appunto così: «Avete inteso che fu detto agli antichi: Non ucciderai!; chi avrà ucciso dovrà essere sottoposto al giudizio. Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello dovrà essere sottoposto al giudizio…» e qui segue il nostro versetto (5,21-22).

Pubblicato il 17 febbraio 2012 - Commenti (3)
09
feb

Poveri in spirito

Beato Jacopone daTodi, Maestro di Prato, secolo XV. Prato, Museo dell’Opera del Duomo.
Beato Jacopone daTodi, Maestro di Prato, secolo XV. Prato, Museo dell’Opera del Duomo.

"Beati i poveri in spirito
perchè di essi è il regno dei cieli".
(Matteo 5,3)

Una domanda preliminare spontanea: perché mettere tra le parole “difficili” dei Vangeli questa che è una delle frasi più celebri del cristianesimo? Non appartiene forse a quelle beatitudini che sono il gioiello letterario e spirituale posto in apertura al Discorso della Montagna, da alcuni definito come la Magna Charta della fede cristiana? Il tema della povertà non è forse emblematico della vita e della testimonianza in atti e in parole di Cristo e dei suoi seguaci, anche se spesso la cristianità s’è dimostrata al riguardo poco fedele, come ammoniva nelle sue Laudi Jacopone da Todi («povertate poco amata, pochi t’hanno desponsata»)? In verità, ci sono alcuni problemi sia letterari, sia storici, sia teologici che s’incrociano attorno alle beatitudini e che esigono una serie di precisazioni.

Innanzitutto c’è il fatto della loro collocazione in un contesto topografico diverso. Matteo scrive: «Vedendo le folle, Gesù salì sul monte... e si mise a parlare» (5,1-2). Luca: «Disceso con loro, si fermò in un luogo pianeggiante... e alzati gli occhi verso i suoi discepoli, diceva...» (6,17.20). La soluzione del contrasto è semplice: Luca evoca il contesto storico reale in cui si svolse quel discorso, una pianura di Galilea. Matteo, invece, che nel suo discorso raccoglie altri interventi pronunziati da Cristo in sedi diverse, introduce una cornice simbolica, quella del monte, alludendo così al Sinai e a Mosè: non per nulla si parlerà nel discorso del nesso intimo tra la Legge antica e l’annunzio di Gesù. Rilevante è, poi, la differenza tra le due redazioni delle beatitudini: in Matteo (5,3-12) sono nove (l’ultima è un’espansione dell’ottava, forse un suo commento), mentre in Luca (6,20-23) sono solo quattro, a cui però si aggiungono altre quattro “maledizioni” (“Guai!”) parallele e antitetiche. Questo dato, frequente anche in altri confronti tra i testi evangelici, dimostra che i loro autori, tenuta ferma la sostanza, si comportano non come storici in senso stretto creando dei freddi manuali o dei verbali documentari, bensì come “evangelisti” la cui fedeltà è viva e duttile, si apre alle istanze delle comunità alle quali le parole e le memorie di Cristo devono essere trasmesse inmodo concreto e incarnato.

Giungiamo, così, alla prima beatitudine, quella sulla povertà. Luca la presenta in maniera diretta e profetica: «Beati voi, poveri!», riflettendo i destinatari del suo Vangelo che erano in difficoltà sociale ed economica. Così aveva fatto anche Gesù interpellando la folla dei miseri con il “voi” e con la promessa essenziale della felicità del regno di Dio a loro riservata. Matteo adotta, al contrario, un linguaggio più sapienziale alla terza persona: «Beati i poveri...», anche perché il Gesù da lui tratteggiato è il nuovo Mosè che parla rivolto anche ai secoli futuri. Inoltre, apporta una precisazione: «Beati i poveri in spirito».

Questa aggiunta è stata spesso oggetto di equivoco perché, letta alla maniera occidentale, sembrerebbe riferirsi soltanto a un distacco spirituale dalle ricchezze e dagli agi e non a un comportamento reale di donazione agli altri e di sobrietà. In realtà, la puntualizzazione “in spirito” perfeziona la celebrazione della povertà comune a Matteo e Luca: la formula, che è nota anche nei documenti giudaici scoperti a Qumran sul Mar Morto, significa non una scelta astratta e ideale bensì radicale, che parta appunto dallo “spirito” per diventare norma dell’atteggiamento concreto. Siamo proprio nell’atmosfera delle beatitudini che non impongono un codice di leggi o regole, ma un’opzione totale, fondamentale e assoluta nei confronti dei valori evangelici.

Pubblicato il 09 febbraio 2012 - Commenti (2)
02
feb

La prima tentazione di Gesù

Gesù precipita Satana di Mattia Preti (1613-1699). Napoli, Museo di Capodimonte.
Gesù precipita Satana di Mattia Preti (1613-1699). Napoli, Museo di Capodimonte.

"Gesù fu condotto nel deserto dallo
Spirito per essere tentato dal diavolo".
(Matteo 4,1)

L’ultima tentazione di Cristo è il titolo di un romanzo che lo scrittore greco Nikos Kazantzakis pubblicò nel 1955 e che è divenuto famoso per la libera e provocatoria resa cinematografica eseguita nel 1988 dal regista americano Martin Scorsese. In realtà, la vera prima tentazione di Cristo è narrata dai Vangeli Sinottici agli esordi della sua missione pubblica: Marco (1,12-13) si affida a sole quattro frasi essenziali, mentre Matteo (4,1-11) e Luca (4,1-13) “sceneggiano” l’evento in un trittico di quadri che hanno come fondali il deserto, il punto più alto del tempio di Gerusalemme e un monte molto elevato. Ciò che imbarazza il lettore è proprio l’avvenimento in sé con questa strana sorta di trasferimento “aereo” che vede Gesù in balìa di Satana.

È indubbio che la tentazione sia stata un’esperienza storica reale narrata da Cristo stesso, perché difficilmente la comunità cristiana delle origini avrebbe inventato un simile episodio che vedeva il suo Signore alla mercé del diavolo che lo provocava. Gesù stesso probabilmente ha raccontato questa vicenda traumatica forse evocando tre luoghi diversi in cui egli la visse. In essa la tentazione si configurava come la proposta di imboccare vie alternative per la sua missione messianica rispetto a quella che il Padre gli aveva assegnato: la strada di un messianismo puramente sociale (i pani) o taumaturgico (il prodigio della caduta dal pinnacolo del tempio rimanendo illeso) o politico (i regni della terra).

Certo è che la narrazione crea sorpresa, perché Satana sembra esercitare un certo potere su Gesù, ma questo elemento sorprende di meno, se si riconduce la tentazione al suo significato primario. Essa è come una messa in opera della libertà umana, della sua capacità di decisione, di scelta, di volontà. Ora, si deve ribadire con forza che l’umanità di Gesù non è una vaga somiglianza a noi ma è una realtà genuina, e quindi deve comprendere il rischio della libertà che è specifico della creatura umana. Come Adamo è sotto l’albero della conoscenza del bene e del male, cioè sotto l’albero della scelta morale libera, sottoposto allo stimolo tentatore del serpente diabolico, così anche Gesù, vero uomo, è davanti a una libera opzione che riguarda la sua missione.

Egli, però, a differenza di Adamo, fondandosi sulla parola di Dio – che cita nelle sue risposte al demonio in una specie di dibattito teologico (anche il diavolo usa riferimenti a testi biblici) – sceglie di aderire al progetto divino in maniera totale, rigettando le alternative sataniche. Emerge, in tal modo, la figura non solo del nuovo e perfetto uomo-Adamo, ma anche quella del nuovo Israele che, diversamente dal popolo ebraico in marcia nel deserto, non cade nella rete diabolica della tentazione e diviene, così, un esempio per noi, uomini e donne, spesso coinvolti e travolti dalle prove morali. La persona di Cristo, infatti, si erge alla fine come colui che ha resistito al demonio con vigore e serenità, rimanendo fedele alla volontà del Padre celeste, «ed ecco, degli angeli gli si avvicinarono e lo servivano» (Matteo 4,11).

Pubblicato il 02 febbraio 2012 - Commenti (2)
25
gen

Il Nazareno

Nazareth di Maurice Denis, (1870-1943). Vaticano, Collezione d’arte religiosa moderna
Nazareth di Maurice Denis, (1870-1943). Vaticano, Collezione d’arte religiosa moderna

"Andò ad abitare in una città chiamata
Nazaret, perchè si adempisse il detto
dei profeti: «Sarà chiamato Nazareno»".
(Matteo 2,23)

A chi non ha una grande assuefazione con i testi biblici questo versetto non crea nessuna difficoltà: il nome Nazareno è diventato talmente popolare da essere accolto senza esitazione come la denominazione topografica di Gesù, che era vissuto a lungo appunto a Nazaret. Eppure la connessione – almeno come ce la presenta Matteo – non è così scontata. Innanzitutto segnaliamo il fatto che nell’originale abbiamo letteralmente Nazoraios, “Nazoreo”, che non è propriamente “Nazareno”, in greco Nazarenos, usato da Marco e Luca e più noto. In verità, entrambe le forme potrebbero rimandare all’aggettivo aramaico nazraya, che designava un abitante di Nazrat, cioè Nazaret.

Ma il vero nodo aggrovigliato è in quella premessa matteana: «Perché si adempisse il detto dei profeti». Si tratta di una formula molto cara all’evangelista, che la usa ben dieci volte per raccordare la figura di Gesù all’Antico Testamento, così che essa abbia una continuità nella storia della salvezza, la quale sboccia nella “pienezza” di Cristo: il verbo greco, infatti, pleroun, da noi tradotto con “adempiere”, designa di per sé un “giungere a pienezza”. Tra l’altro, le citazioni esplicite dell’Antico Testamento che Matteo collega alla persona o agli atti o alle parole di Gesù sono almeno 63, rivelando quindi il legame intimo tra Cristo e le Scritture ebraiche.

Ecco, però, il problema che sfugge a chi ha poca familiarità con la Bibbia: dove mai nell’Antico Testamento si cita Nazaret? La risposta è totalmente negativa. Quindi, Matteo o commette un errore, oppure ricorre a un inganno apologetico per dare alla figura di Gesù un’altra e puntuale attestazione di dignità messianica biblica. In realtà, una spiegazione c’è anche se, come vedremo, si sfrangia in varie ramificazioni difficili da selezionare. È, infatti, ben documentata la prassi giudaica secondo la quale le connessioni con i testi sacri avvenivano spesso in modo libero e creativo, soprattutto per assonanza. Matteo, che si rivela molto addentro all’uso didattico degli scribi ebrei del suo tempo, ha probabilmente imboccato questa via per esaltare la figura di Gesù in una dimensione che rivestiva storicamente un certo rilievo, ma che non aveva nessun ponte diretto con i testi profetici.

Quale potrebbe essere, allora, l’allusione biblica evocata attraverso termini dal suono affine alla parola “Nazaret” che permetterebbero a Matteo di gettare quel ponte simbolico con l’Antico Testamento? Le risposte degli studiosi a questo punto si ramificano. C’è chi pensa a un’assonanza con la parola nazîr, donde il nostro “nazireo”: si trattava della persona “consacrata” a Dio che s’impegnava in alcuni voti descritti nel c. 6 del libro dei Numeri, come l’astinenza da bevande alcoliche e il non radersi la capigliatura. In questa categoria sono collocati dalla Bibbia personaggi come il giudice Sansone (Giudici 13), il profeta Samuele (1Samuele 1,11) e lo stesso Giovanni Battista (Luca 1,15). Cristo è il “consacrato” per eccellenza, colui che in pienezza compie la volontà del Padre, e l’eco di questa sua consacrazione Matteo la sente nel nome di Nazaret.

Alcuni studiosi rimandano, invece, a nezer, il “germoglio” che – secondo il profeta Isaia (11,1) – spunta dal tronco arido della dinastia davidica: questo simbolo diverrà non solo l’emblema, ma quasi il nome simbolico del Messia che il Signore nel libro del profeta Zaccaria chiama «il mio servo Germoglio» (3,8; 6,12). Altri sentono in quel Nazoreo/Nazareno il ricorrere del verbo nazar, “conservare”, che ha dato origine a un termine (nazûr), il “resto”, con cui Isaia definiva la comunità ristretta dei veri fedeli che rimanevano tali anche nel tempo della prova e dei quali Cristo sarebbe il vessillo. Sono, quindi, molte le spiegazioni dell’assonanza biblica che Matteo dichiara con il nome “Nazaret” ignoto alle Scritture.

Pubblicato il 25 gennaio 2012 - Commenti (2)
19
gen

Non la conobbe

Nazareth di Georges Rouault (1871-1958). Vaticano, Collezione d’arte religiosa moderna.
Nazareth di Georges Rouault (1871-1958). Vaticano, Collezione d’arte religiosa moderna.

"Giuseppe non conobbe Maria finchè ella
generò un figlio ed egli lo chiamò Gesù".
(Matteo 1,25)

Abbiamo voluto tradurre alla lettera questo versetto di Matteo, introducendo solo la specificazione dei nomi dei protagonisti, cioè la coppia Giuseppe e Maria di Nazaret. Nel nostro viaggio all’interno dei versetti difficili del Vangelo, è indubbio che una simile versione crei qualche reazione soprattutto nel lettore cattolico. Procediamo per ordine. Innanzitutto dobbiamo precisare il valore del verbo “conoscere” che qui è adottato nel significato della sua matrice ebraica, nonostante si usi ovviamente il verbo greco ghinóskein. Nella cultura classica il termine indicava la conoscenza intellettuale, razionale e spirituale. Ben diverso è il concetto biblico del “conoscere”, in ebraico jada’.

Esso presuppone una realtà ben più complessa e variegata che coinvolge, certo, la mente, ma anche la volontà, la passione, il sentimento e persino l’azione. Anche la psicologia moderna preferisce questa visione più completa del conoscere umano che implica l’aspetto intellettivo, volitivo, affettivo ed effettivo. In questa luce il verbo era divenuto un eufemismo per designare l’atto d’amore, perché si supponeva che esso dovesse coinvolgere la totalità dell’essere, dell’agire e del pensare di una persona (cosa che, purtroppo, non accade ai nostri giorni, segnati dal mero “consumare” l’atto sessuale).

Risolto il primo intoppo, eccoci all’altro ben più rilevante. La frase greca parla di una castità dei due sposi “finché” Maria diede alla luce un figlio. Ora in italiano quando si dice che una cosa non succede “fino a” un certo tempo, si suppone che di solito abbia luogo dopo: Giuseppe, allora, non ha avuto rapporti matrimoniali con Maria fino alla nascita di Gesù, ma in seguito avrebbe potuto averli. Entrerebbe, così, in crisi una delle componenti tradizionali della mariologia, la verginità costante della madre di Cristo, professata ripetutamente nei testi liturgici e dogmatici, e renderebbe “i fratelli e le sorelle” di Gesù veri e propri parenti carnali diretti (argomento sul quale ritorneremo in futuro).

In realtà, la frase in questione non è così immediata come suppone la nostra lingua. Infatti, in greco e nelle lingue semitiche con quella formula si vuole mettere l’accento solo su ciò che avviene fino alla scadenza di quel “finché…”: Giuseppe non ebbe rapporti con Maria, eppure nacque Gesù. Non ci si interessa di ciò che succederà in seguito. Quindi, di per sé non verrebbe intaccata la questione teologica della verginità permanente di Maria, questione che peraltro ebbe un dibattito molto acceso negli stessi primi secoli cristiani, come è attestato ad esempio da alcuni scritti molto polemici di san Girolamo (IV secolo).

A questo punto possiamo comprendere la legittimità della traduzione che del versetto matteano viene offerta dalla Bibbia della Conferenza episcopale italiana, usata ufficialmente nella liturgia: «Giuseppe... prese con sé la sua sposa: senza che egli la conoscesse, ella diede alla luce un figlio ed egli lo chiamò Gesù». La resa è corretta e puntuale secondo il valore del testo originario. Né può essere allegato un altro versetto di Luca: «Diede alla luce il suo figlio primogenito » (2,7). La qualifica di “primogenito” ha un valore strettamente giuridico, perché accentua la dignità e i diritti di quel neonato. Dalla Bibbia sappiamo quanto rilevante fosse questa prerogativa: si ricordi la diatriba durissima tra Esaù e Giacobbe proprio riguardo al diritto della primogenitura, come si legge nella Genesi (cc. 25 e 27). È curioso notare che un testo aramaico della fine del I secolo evoca una madre (anch’essa di nome Maria) che morì «dando alla luce il suo figlio primogenito»...!

Pubblicato il 19 gennaio 2012 - Commenti (3)
12
gen

Quattordici generazioni

Vergine e  bambino con San Giuseppe, pittore olandese del secolo XVI. New York, Metropolitan Museum of Art.
Vergine e bambino con San Giuseppe, pittore olandese del secolo XVI. New York, Metropolitan Museum of Art.

"Tutte le generazioni da Abramo a
Davide sono quattordici; da Davide
alla deportazione in Babilonia
quattordici; dalla deportazione
in Babilonia a Cristo quattordici".
(Matteo 1,17)

Ènoto che, aprendo la prima pagina del Vangelo di Matteo, ci si imbatte in un arido elenco di nomi, una genealogia che era, però, un genere molto caro agli antichi abitanti del Vicino Oriente. Essi, infatti, in quella catena di nomi – non di rado fittizi o impropri – intuivano la propria storia e la grandezza delle loro origini. L’imbarazzo per noi lettori moderni, abituati al rigore documentario e storiografico, si materializza anche nel caso della genealogia di Gesù. Due sono i motivi di questa difficoltà. Il primo è proprio nel suggello che Matteo appone alla sua lista, marcando il numero “quattordici” come segnale numerico costante. Ora, se dovessimo ricostruire rigorosamente la sequenza della storia biblica di Israele, ci accorgeremmo che quel numero è improponibile.

Anzi, se si dovesse fare il confronto con l’analoga genealogia di Gesù stilata da Luca (3,23-38), rimarremmo ancor più sorpresi perché è totalmente diversa: anziché essere discendente, è ascendente (da Gesù risale fino alle origini dell’umanità), ha come radice non Abramo ma Adamo e ha in comune con quella di Matteo solo due nomi! Questo imbarazzo si può sciogliere tenendo conto proprio del valore simbolico, prima che storico, delle genealogie antiche. Matteo vuole dimostrare il legame intimo di Gesù con il popolo ebraico e il suo messianismo: allora ricorre alla linea dinastica davidica più che alla discendenza naturale, forse privilegiata da Luca che raccorda, invece, Cristo all’umanità intera, rappresentata appunto da Adamo. Spinto da un’esigenza che è più di indole teologica che storiografica, ecco che Matteo ordina la sequenza genealogica in una triade scandita dal settenario che, come si sa, è nella Bibbia uno dei numeri privilegiati per indicare pienezza e perfezione. Ecco, allora, il dominio del 7+7 che esalta il filo generazionale il quale si annoda alla figura gloriosa di Davide. Anzi, sempre per la mistica delle cifre bibliche e giudaiche e per il valore numerico assegnato alle lettere dell’alfabeto, secondo la tecnica detta della “gematria”, il 14 potrebbe ammiccare anche alla somma dei numeri legati alla base del nome Dawid, cioè alle tre consonanti ebraiche d-w-d che hanno il valore numerico di 4+6+4, cioè 14.

Ma al di là di simili speculazioni, rimane il significato ultimo del messaggio di Matteo: la storia della salvezza ha una sua perfezione profonda che si esprime attraverso l’armonia numerica settenaria e che crea un arco tra Davide e Gesù, al quale si può attribuire il titolo messianico di «Figlio di Davide», che risuona otto volte nel Vangelo di Matteo. Qui, però, scatta la seconda difficoltà. La lista genealogica è retta dal verbo “generò” che segna i vari anelli: esso ricorre 39 volte ma a sorpresa manca nell’anello fondamentale, l’ultimo, riguardante Gesù. Là, infatti, non si legge: «Giuseppe generò Gesù», come negli altri casi, bensì «Giacobbe generò Giuseppe, lo sposo di Maria, dalla quale è nato Gesù, chiamato Cristo» (1,16).

E allora come Gesù può essere discendente davidico se il legittimo davidide, Giuseppe, non lo genera? La risposta è nella pagina successiva (1,18-25) quando l’angelo si rivolge al futuro sposo di Maria invitandolo ad assumere la funzione di padre legale, anche se non naturale, del figlio che la sua fidanzata porta in grembo. Ora nell’antica legislazione la paternità legale (per adozione o per altra via) poteva legittimamente conferire i diritti ereditari. Giuseppe, discendente di Davide secondo la convinzione della sua genealogia tribale, rende così Gesù «Figlio di Davide» in senso autentico, introducendolo sulla ribalta della storia sotto l’egida messianica.

Pubblicato il 12 gennaio 2012 - Commenti (1)
17
nov

Sono con voi tutti i giorni

Duccio di Buoninsegna (1260 ca.-1318), Maestà, cimasa, apparizione sul monte di Galilea. Siena, Museo dell’Opera Metropolitana
Duccio di Buoninsegna (1260 ca.-1318), Maestà, cimasa, apparizione sul monte di Galilea. Siena, Museo dell’Opera Metropolitana

" Andate e fate
discepoli tutti
i popoli...
Ecco, io sono con
voi tutti i giorni,
sino alla fine
del mondo
"
(Matteo 28,19-20)

Sono, queste, le ultime delle 18.278 parole greche di cui si compone il Vangelo di Matteo, gli ultimi dei suoi 1.070 versetti, nell’ultimo dei 28 capitoli. In quell’«io sono con voi» si può facilmente sentire un’eco dell’«Emmanuele, Dio-con-noi», che aveva aperto il Vangelo durante il racconto della nascita di Gesù (1,23). La scena che conclude lo scritto matteano è grandiosa e ha come fondale il «monte che Gesù aveva indicato» ai suoi discepoli, la cui fede è ancora vacillante («essi, però, dubitavano»). Sappiamo quanto caro all’evangelista sia il monte come simbolo evocativo di quell’altra montagna sacra, culla di Israele, il Sinai: non per nulla egli aveva ambientato il primo dei cinque discorsi di Gesù proprio su un monte di Galilea (5,1).

Ora i discepoli sono ancora in Galilea e davanti a loro non c’è più soltanto quel maestro che aveva vissuto, mangiato e parlato con loro, ma il Risorto, e questo non è più un semplice incontro ma una “cristofania”, cioè un’apparizione pasquale, un’epifania di “missione” (28,16-20). Infatti, le parole che Cristo destina a questi undici apostoli titubanti («essi dubitavano», annota infatti l’evangelista) sono un vero e proprio programma missionario che si distenderà nei secoli interpellando tutta la Chiesa. In questo impegno non appare solo il sacramento dell’iniziazione cristiana, quello dell’ingresso nella fede pasquale, ossia il Battesimo, ma anche l’insegnamento dei precetti di Cristo che regolano l’intera esistenza del fedele.

Ormai si configura anche l’apertura universalistica che valica le frontiere di Israele: «Fate discepoli [si noti questa espressione che è ben diversa da un semplice “ammaestrare”, come talora si traduce] tutti i popoli». Si professa anche la fede trinitaria: il Battesimo è amministrato «nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo». Si proclama – evocando un passo del profeta Daniele (7,14) – la signoria cosmica di Cristo, il Pantokrator, come dirà la tradizione greca successiva, cioè il sovrano di tutto l’essere: «A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra». Ecco, infine, quella promessa di essere sempre con noi ogni giorno, sino alla meta finale dell’aiôn, un termine greco che di per sé rimanda al tempo storico ma anche a ciò che è in esso, vale a dire il mondo e l’umanità. L’idea è, quindi, diversa rispetto a una pura e semplice «fine del mondo». Si tratta piuttosto della meta finale verso cui converge la storia della salvezza; è il fine più che la fine, è un approdo di pienezza. Forse Matteo, le cui origini giudaiche affiorano ininterrottamente nelle sue pagine, allude alla ripartizione della storia in sette ère, suggerita dalla tradizione apocalittica.

Ciascuna di esse comprendeva un arco di mille anni, cifra ovviamente simbolica per evocare un’immensa distesa di tempo. Si ricalcavano, così, i sette giorni simbolici della creazione, come è descritta nel capitolo 1 della Genesi. Il Cristo risorto si erge, quindi, solenne su tutta la sequenza della storia che da Adamo giunge fino al momento estremo quando «Cristo sarà tutto in tutti» (Colossesi 3,11). Egli si leva, possente e glorioso come il Risorto dipinto da Piero della Francesca, sulla sua Chiesa che ora è solo «un piccolo gregge» di undici dubbiosi, ma che è destinata ad allargarsi al mondo. E domina anche su tutto il Vangelo di Matteo che ha celebrato «Gesù Cristo figlio di Davide, figlio di Abramo » (1,1), ma anche «Emmanuele, che significa Dio-con-noi» (1-23).

Pubblicato il 17 novembre 2011 - Commenti (1)
17
feb

Amerai il tuo prossimo

Il tre maggio (1808 - 1814), opera di Francisco Goya, Madrid, Prado.
Il tre maggio (1808 - 1814), opera di Francisco Goya, Madrid, Prado.

"Non ti vendicherai né coverai rancore contro i figli del tuo popolo. Amerai, invece, il tuo prossimo come te stesso".
(Levitico 19,18)

«Si parla sempre del fuoco dell’inferno.L’inferno è freddo... L’inferno è non amare più». Ho intrecciato due frasi tratte da romanzi diversi dello scrittore cattolico francese Georges Bernanos (1888-1948) per introdurre uno degli appelli biblici più citati. Nella nostra ormai vasta raccolta di frammenti delle Sacre Scritture non poteva, infatti, mancare questo passo che nel suo apice – in ebraico we’ahavtà lere’akà kamôk, «amerai il prossimo tuo come te stesso» – era caro anche a Gesù che lo cita due volte (Matteo 5,48; 22,39), ricordando che è il «secondo comandamento, simile al primo», quello dell’amore per Dio, entrambi fondamento di «tutta la Legge e i Profeti». Su questa scia continuerà san Paolo quando ammonirà che tutti i comandamenti della Legge «si riassumono in queste parole: Amerai il prossimo tuo come te stesso» (Romani 13,9), dopo aver ribadito ai Galati che «tutta la Legge trova la sua pienezza in un solo precetto: Amerai il prossimo tuo come te stesso» (5,14).

Potremmo continuare a lungo nell’elencare quanti hanno trovato in questo precetto l’anima autentica della morale biblica e la sorgente della vera spiritualità. Per stare ancora alla Bibbia, ricorderò solo la dichiarazione lapidaria di san Giacomo: «Se adempite il più importante dei comandamenti secondo la Scrittura: Amerai il prossimo tuo come te stesso, fate bene» (2,8). Vorrei, invece, fare solo due note sul versetto del Levitico (ossia dei sacerdoti, i figli di Levi, il terzo libro della Bibbia). In esso, innanzitutto, si parla esplicitamente dei «figli del tuo popolo», cioè di Israele. L’impegno dell’amore è, quindi, circoscritto a un orizzonte preciso, quello della comunità ebraica.

Sappiamo, però, che già i profeti allargheranno questo spazio, invitando a condividere l’amore di Dio per tutte le sue creature: «Benedetto sia l’Egiziano mio popolo, l’Assiro opera delle mie mani e Israele mia eredità» (Isaia 19,25). E i sapienti biblici ricorderanno che il Signore «ha compassione di tutti… e ama tutte le cose esistenti e nulla disprezza di quanto ha creato perché, se avesse odiato qualcosa, non l’avrebbe neppure creata» (Sapienza 11,23-24). Le frontiere saranno abbattute ulteriormente nel cristianesimo allorché Gesù, commentando proprio il passo del Levitico, presenterà un’applicazione quasi provocatoria, introducendo anche l’amore per il nemico e giungendo così alla radice ultima del precetto anticotestamentario: «Amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori» (Matteo 5,44). Il “prossimo” ora è divenuto veramente l’altro, chiunque e comunque egli sia, un altro che tu trasformi in un “io” che è come te stesso. 

Una seconda nota sull’appello “levitico”. In apertura esso evoca due realtà antitetiche all’amore: la vendetta e il rancore. A incarnare nella sua forma estrema questo antipodo della carità è Lamek, il discendente di Caino che minaccia così: «Uccido un uomo per una mia scalfittura e un ragazzo per un mio livido. Sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamek settantasette» (Genesi 5,23-24). È il canto selvaggio della vendetta a spirale, della zampata bestiale che gode del sangue versato, della logica distruttrice della guerra che ignora ogni prossimo in un empito insaziabile di odio per il nemico. Risuona, allora, per contrasto l’ideale nuova applicazione del comandamento del Levitico nelle parole che Cristo rivolge a Pietro che chiedeva: «Quante volte devo perdonare al mio fratello, se pecca contro di me? Fino a sette volte?». E Gesù replica: «Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette!» (Matteo 18,21-22).

Pubblicato il 17 febbraio 2011 - Commenti (0)


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Autore del blog

Gianfranco Ravasi

Gianfranco Ravasi

Gianfranco Ravasi è un cardinale, arcivescovo cattolico e biblista italiano, teologo, ebraista ed archeologo.
Dal 2007 è presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, della Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa e presidente della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra.

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