26
feb

Tecnologia e poesia

Sulla scorta del bel libro di Lynch, di cui parlavo nello scorso post, sottopongo ai lettori qualche reminiscenza poetica in tema.

 Parto dal fatto che nel titolo, Il profumo dei limoni, si può intuire una citazione da Eugenio Montale. È una delle poesie più celebri della raccolta Ossi di seppia e si intitola proprio “I limoni”. Questi sono i versi conclusivi:

La pioggia stanca la terra, di poi; s’affolta
il tedio dell’inverno sulle case,
la luce si fa avara – amara l’anima.
Quando un giorno da un malchiuso portone
tra gli alberi di una corte
ci si mostrano i gialli dei limoni;
e il gelo del cuore si sfa,
e in petto ci scrosciano
le loro canzoni
le trombe d' oro della solarità.
 

Abbiamo un grande bisogno di sorprese come queste, quando la nostra luce si fa avara. È un bel richiamo a guardare oltre le porte socchiuse, a non accontentarci della superficie.

A questo proposito – e ho sempre in mente la conversazione sul rapporto fra vita e tecnologia, nel segno di una gerarchia di valori a cui tutti dovremmo tenere come a una questione vitale – mi torna in mente un’altra poesia della stessa raccolta, che in questo contesto possiede una sorprendente “chiave di lettura tecnologica”. Ecco il testo completo:

Eugenio Montale, premio Nobel 1975 per la letteratura
Eugenio Montale, premio Nobel 1975 per la letteratura

Forse un mattino andando in un’aria di vetro,
arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo:
il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro
di me, con un terrore di ubriaco.

Poi come s’uno schermo, s'accamperanno di gitto
alberi case colli per l'inganno consueto.
Ma sarà troppo tardi; ed io me n’andrò zitto
tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.

È una poesia che può colpire per l’horror vacui che ne traspare. Ma se l’applichiamo alla “realtà virtuale” della tecnologia, se interpretata come “altro mondo” in cui tanti si rifugiano, ecco che la si può rileggere al rovescio: quando siamo nel mare digitale sì che conviene essere fra gli “uomini che si voltano”. E che riflettono.

Pubblicato il 26 febbraio 2013 - Commenti (0)
19
feb

Limoni e "digiuno tecnologico"

Sono stato invitato da una scuola milanese a presentare l'autore di un libro e il suo pensiero. Il libro s'intitola Il profumo dei limoni (Tecnologia e rapporti umani nell'era di Facebook) (Lindau) e l'ha scritto Jonah Lynch, un giovane prete statunitense che vive a Roma ed è vicerettore del seminario della Fraternità Sacerdotale dei Missionari di San Carlo Borromeo. Per prepararmi ho letto il libro con attenzione e mi sento di consigliarlo.

Tema del libro è la riflessione sull'uomo tecnologico, ovvero sul rapporto tra umanità e tecnologia. Prevale la domanda sul tempo che dedichiamo a noi stessi, ad approfondire chi siamo noi e chi sono gli altri, oppure che deleghiamo a connessioni che nascondono più di quanto rivelino.

Lynch è convinto che non sia affatto vero che la tecnologia è neutra. Secondo lui il luogo comune che il giudizio dipenda dall'uso che se ne fa è falso per insufficienza: bisogna anzitutto considerare che gli strumenti di comunicazione ci modificano mentre li usiamo, qualsiasi uso ne facciamo. Una riprova è la difficoltà oggi diffusa a leggere con calma e con attenzione: la fretta ci attanaglia e ci fa correre avanti, senza fermarci ad assaporare frasi che ci risuonano dentro.

Nessuna condanna globale a strumenti che ci rendono servizi preziosi. Eppure non c'è conclusione possibile che non sia quella di privilegiare sempre e comunque la pienezza del reale, quel profumo dei limoni che in rete non si sente. È un invito a tornare alla contemplazione, alla meditazione interiore, più o meno lo stesso che il papa con esempio clamoroso sta dando al mondo rinunciando ad agire a ogni costo: è Dio che provvede, l’“aiutati” vale solo se conti che il Cielo ti aiuti.

Jonah Lynch
Jonah Lynch

Lynch propone a un certo punto di assaggiare momenti di "digiuno tecnologico": il consiglio non è nuovo, ma mi pare particolarmente azzeccato per la famiglia. Spegnere i cellulari a tavola o in momenti di vita familiare intensa, privarsi dell'internet per periodi anche brevi, ma che marchino netta la cesura fra ciò che ci accade e ciò che davvero vogliamo. Un consiglio da mettere in pratica.

Pubblicato il 19 febbraio 2013 - Commenti (0)
11
mag

Basta con la fandonia degli immigrati digitali

I celeberrimi personaggi di PacMan, la bocca vorace che mangia palline. Sotto, il filmato presenta Monkey Island 2, episodio di un’avventura prodotta da George Lucas.
I celeberrimi personaggi di PacMan, la bocca vorace che mangia palline. Sotto, il filmato presenta Monkey Island 2, episodio di un’avventura prodotta da George Lucas.

Va di moda dividere il mondo contemporaneo in due schiere: i “nativi digitali”, nati dagli anni Novanta in qua, e gli “immigrati digitali”, ovvero gli adulti nati prima. Il senso della divisione – coniata dall’americano Marc Prensky nel 2001 e da allora divenuta un luogo comune – sta nell’attribuire agli “immigrati digitali” una insostenibile fatica a padroneggiare tecnologie e linguaggi in cui i “nativi”, invece, si muovono come a casa loro. Di qui un ineluttabile abisso, un “divario digitale” tra generazioni che non si capiscono più.

Adottare alla lettera questa distinzione è ingenuo e soprattutto inesatto proprio per quel che riguarda gli “immigrati digitali”. Tanto per cominciare, praticamente tutte le innovazioni dell’era digitale si devono proprio a loro, agli adulti che quest’era l’hanno inaugurata e la fanno crescere. In secondo luogo, proprio il terreno dei videogiochi, di cui qui ci occupiamo, sbaraglia qualsiasi rigida barriera visto che, anche in Italia, questo mondo esiste e prospera almeno dagli anni Settanta: i papà dei “nativi digitali” sono quei bambini e ragazzi che da Pong (1972) a Space Invaders (1978), da PacMac (1980) a Monkey Island (1990) e a Wolfenstein 3d (1992), hanno fatto propria la cultura dell’interattività mentre l’internet e il web erano ancora di là da venire. Questo video fa vedere come, compatibilmente con le qualità video e audio dei pc di allora, alcune “storie digitali” fossero incantevoli già all’inizio degli anni Novanta:



Non per niente gli ex bambini degli anni Ottanta sono tuttora acquirenti abituali di videogiochi (l’età media di chi li usa in Italia s’aggira sui 30 anni) e, certamente, sono  loro che hanno introdotto i propri figli a questo mondo. Anche per questo una famiglia su due, oggi, ha in casa almeno una console.

Quindi, papà e mamme, non accettate di sentirvi escludere da un mondo che è legittimamente vostro. Quella di essere “immigrati digitali”, se deve equivalere a sentirsi incapaci (o, peggio, giustificati) rispetto al capire che cosa fanno i figli davanti agli schermi, è una panzana bella e buona.

Detto questo, i “nativi digitali” esistono ed è un discorso molto serio, di cui riparleremo. Seriamente.

Pubblicato il 11 maggio 2011 - Commenti (1)

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Family Game

Giuseppe Romano

Giuseppe Romano insegna Lettura e creazione di testi interattivi all'Università Cattolica di Milano e collabora con quotidiani e riviste su temi riguardanti l’era digitale, la comunicazione interattiva, i videogame, i fenomeni di massa.

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