30-10- 2011 – II domenica dopo la Dedicazione


1. “La partecipazione delle genti alla salvezza”

 

È il titolo che, nel Lezionario ambrosiano, contraddistingue questa seconda domenica dopo la dedicazione, destinata ad approfondire il mistero della Chiesa. I brani biblici oggi proclamati sono:  Lettura. Isaia 45,20-23; Salmo 21; Epistola: Filippesi 3,13b-4,1; Vangelo: Matteo 13,47-52. Nella Messa vigiliare del sabato viene letto: Marco 16,9-16 quale Vangelo della Risurrezione. Le orazioni e i canti della Messa sono quelli della XXXI domenica del Tempo “per annum” nel Messale ambrosiano.

 


2. Vangelo secondo Matteo 13,47-52

 

In quel tempo. Il Signore Gesù disse ai suoi discepoli: 47«Il regno dei cieli è simile a una rete gettata nel mare, che raccoglie ogni genere di pesci. 48Quando è piena, i pescatori la tirano a riva, si mettono a sedere, raccolgono i pesci buoni nei canestri e buttano via i cattivi. 49Così sarà alla fine del mondo. Verranno gli angeli e separeranno i cattivi dai buoni 50e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti. 51Avete compreso tutte queste cose?». Gli risposero: «Sì». 52Ed egli disse loro: «Per questo ogni scriba, divenuto discepolo del regno dei cieli, è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche».

 


3. Commento liturgico-pastorale

Il testo evangelico conclude la serie delle parabole del regno dei cieli che occupano l’intero tredicesimo capitolo. Quella oggi proclamata, vale a dire la parabola della rete, occupa i vv. 47-48, ai quali fa seguito la spiegazione ai vv. 49-50. I vv. 51-52 rappresentano la conclusione dell’intero discorso in parabole, che interpella la comprensione dei discepoli (v. 51) ed esorta quanti si mettono alla scuola di Gesù per diventare suoi discepoli a fare come lo scriba capace di attualizzare “oggi” gli insegnamenti del Maestro.

La parabola prende spunto da ciò che avviene nel mestiere dei pescatori dove, una volta tirata a riva la rete precedentemente calata in acqua, si opera una cernita tra i pesci commestibili e quelli che non lo sono sia perché ritenuti cattivi sia perché proibiti dalle prescrizioni della Legge: «Tutto ciò che non ha né pinne né squame nelle acque sarà per voi obbrobrioso» (Levitico 11,12).

Proprio questo gesto dei pescatori che separano i pesci buoni da quelli cattivi che stavano insieme nella stessa rete è colto dalla spiegazione della parabola fatta con il ricorso a immagini proprie al genere letterario dell’apocalittica giudaica del tempo di Gesù. Essa allude al giudizio finale «alla fine del mondo», che vede come protagonisti gli angeli, sempre presenti nel linguaggio apocalittico riguardante il giudizio. Esso viene in pratica descritto come una separazione il cui esito qui sembra riguardare soltanto «i cattivi», che sono destinati alla rovina eterna significata nell’immagine della «fornace ardente» e dello «stridore dei denti» (v. 50).

Nella parabola, invece, i pescatori mettono i pesci buoni «nei canestri» (v. 48) che, verosimilmente, rappresentano la sicurezza della salvezza e della felicità eterna per gli uomini giudicati “buoni” perché fedeli a Dio e alla sua Legge, che il Signore Gesù ha tutta racchiusa nella carità. La domanda conclusiva ai discepoli: «Avete compreso tutte queste cose?» (v. 51) riguarda la comprensione dei «misteri del regno» (cfr. Matteo 13,11) ovvero delle «cose nascoste» (13,35) che soltanto chi si fa discepolo può capire.

Questi, come insegna la breve parabola dello «scriba divenuto discepolo del regno dei cieli», è in grado di estrarre dal deposito prezioso che dimora in lui come ascoltatore del Maestro divino «cose nuove e cose antiche» (v. 52), ossia di attualizzare l’insegnamento del Signore nelle mutevoli circostanze dei tempi e dei luoghi. Proclamata nel tempo liturgico segnato dalla contemplazione del mistero della Chiesa, l’odierna pagina evangelica ci dice il carattere universale di essa che, come «la rete gettata nel mare» è destinata ad accogliere in sé tutti gli uomini senza curarsi di emettere su di essi giudizi e “separazioni” preventivi.

Questi, come abbiamo imparato dalla spiegazione della parabola, sono rimandati agli ultimi tempi e sono riservati a Dio stesso. Ora la rete deve essere piena! Del resto già nella pagina profetica di Isaia è annunciato con evidente chiarezza l’universale chiamata dei popoli all’unica salvezza donata dal solo unico Dio: «Non sono forse io il Signore? Fuori di me non c’è altro dio; un dio giusto e salvatore non c’è all’infuori di me» (Lettura: Isaia 45,21). Di qui il pressante invito rivolto da Dio a tutte le genti: «Volgetevi a me e sarete salvi» (v. 22).

Queste parole profetiche si sono realizzate effettivamente nella persona del Signore Gesù che è venuto nel mondo ad abbattere i muri di separazione e a raccogliere l’umanità dispersa in una sola famiglia: quella dei figli di Dio. Ed è ciò che egli continua a fare tramite la Chiesa i singoli fedeli e, dunque, ciascuno di noi, esortati dall’Apostolo a rimanere «saldi nel Signore» (Epistola: Filippesi 4,1) e a rifuggire da sentimenti e da atteggiamenti propri a quanti «si comportano da nemici della croce di Cristo… e si vantano di ciò di cui dovrebbero vergognarsi e non pensano che alle cose della terra» (Filippesi 3,18.19) incuranti del Regno e della salvezza. In questo caso, nell’ora del giudizio, come i pesci ritenuti “cattivi”, saremo “gettati via” (Matteo 13,48) ovvero andremo incontro “alla perdizione” (Filippesi 3,19).

Per questo così preghiamo nell’orazione All’Inizio dell’Assemblea liturgica: «Abbi misericordia, o Dio, dei tuoi servi ed effondi su noi la varietà dei tuoi doni; tieni viva e ardente nel nostro cuore la fiamma delle fede, della speranza, della carità, perché ci sia dato di perseverare con vigile impegno nell’osservanza della tua legge» che è l’amore che ha fatto della Chiesa il segno visibile della partecipazione delle genti alla salvezza in Cristo Signore.

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23-10-2011 – I domenica dopo la Dedicazione

1. La domenica del “mandato missionario”

 

È il titolo con cui il Lezionario ambrosiano contraddistingue questa domenica che ha il compito di mettere in luce ciò che la Chiesa è chiamata essenzialmente a fare: predicare a tutti il Vangelo di salvezza.

Le lezioni bibliche oggi proposte sono: Lettura: Atti degli Apostoli 10,34-48a; Salmo 95; Epistola: 1 Corinzi 1,17b-24; Vangelo: Luca 24,44-49a. Nella messa vigiliare del sabato viene proclamato Giovanni 21,1-14 quale Vangelo della Risurrezione.

Le orazioni e i canti della Messa sono quelli della XXX domenica del Tempo «per annum» nel Messale ambrosiano.

 

2. Vangelo secondo Luca 24,44-49a.

 

In quel tempo. Il Signore Gesù disse: 44«Sono queste le parole che io vi dissi  quando ero ancora con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella Legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi». 45Allora aprì loro la mente per comprendere le Scritture 46e disse loro: «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, 47e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. 48Di questo voi siete testimoni. 49Ed ecco, io mando su di voi colui che il Padre mio ha promesso».

 

3. Commento liturgico-pastorale

 

I versetti evangelici oggi proclamati sono ambientati negli avvenimenti successivi ai fatti centrali della morte e della risurrezione del Signore e, in particolare, fanno parte del più ampio racconto dell’ultima apparizione del Signore risorto ai suoi discepoli (Luca 24,36-49). Ad essi seguono immediatamente i versetti relativi all’ascensione di Gesù al Cielo.

Nella sua apparizione tra i suoi il Signore non solo fa constatare ai discepoli che colui che sta loro davanti è proprio il loro maestro crocifisso, ma addirittura mangia con loro del «pesce arrostito» (Luca 24,42).

Sono due gesti che intendono preparare i discepoli a diventare «testimoni» autorevoli di ciò che hanno udito e visto e che introducono efficacemente gli ultimi «insegnamenti» impartiti dal Signore risorto. Essi riguardano anzitutto il significato autentico dei ripetuti annunci a essi fatti e riguardanti essenzialmente la sofferenza e la morte a cui dovrà andare incontro come adempimento di «tutte le cose scritte su di me nella Legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi»  (v. 44).

Con queste parole il Signore dice ai suoi discepoli, e soprattutto a quelli che crederanno in lui lungo i secoli, che nelle Scritture potranno sempre rintracciare l’annunzio profetico del Cristo e, dunque, di Gesù e di ciò che a lui sarebbe accaduto.

È la familiarità con le divine Scritture a farci scorgere in esse essenzialmente una “profezia” del Signore Gesù, ma a nulla varrebbe scrutare le pagine bibliche e studiarle a fondo se il Signore non “apre” a noi, come già ai discepoli, «la mente per comprendere le Scritture» (v. 45). Solo così sarà possibile comprendere fino in fondo il significato e la portata di ciò che la Scrittura annuncia: «Il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno» (v. 46), che si è effettivamente verificato nella morte e nella risurrezione del Signore.

Questi fatti, dunque, rientrano in un disegno divino di salvezza profeticamente annunciato nella Legge e nei Profeti e di fatto avverato negli eventi pasquali del Signore crocifisso e risorto. Contenendo questi eventi il disegno salvifico e l’effettiva salvezza, si comprende come questi dovranno essere «predicati a tutti i popoli», compreso il popolo della prima Alleanza rappresentato dalla città di Gerusalemme mediante l’intrinseco appello alla “conversione” della mente e della condotta al fine di ottenere «il perdono dei peccati» (v. 47). Espressione, questa, che sintetizza il frutto di quegli avvenimenti salvifici.

Seguono al v. 48 le solenni parole rivolte ai discepoli: «Di questo voi siete testimoni». Essi infatti hanno visto, udito e compreso tutte le cose “scritte” su Gesù ed effettivamente “avvenute” in lui. Sono perciò “testimoni” affidabili e autorevoli nella predicazione di quelle “cose” a tutti i popoli resi tali dal fatto che il Risorto, prima di congedarsi dai suoi, manda su di essi «colui che il Padre mio ha promesso», vale a dire lo Spirito Santo (v. 49a), che terrà sempre viva in essi la sua Parola e i suoi gesti portatori di salvezza.

Il testo evangelico fornisce così tutti gli elementi indispensabili perché la Chiesa, di cui domenica scorsa abbiamo celebrato il mistero nel segno visibile del nostro Duomo, obbedisca fedelmente al mandato missionario che il Signore Gesù, tramite gli Apostoli, le ha affidato e che è stato espresso nel ritornello al Salmo: «Annunciate a tutti i popoli le opere di Dio».

Per questo la Chiesa dovrà sempre stare alla “scuola della Parola” per interiorizzare nell’illuminazione dello Spirito Santo quanto essa annunzia e rivela circa la salvezza universale che è in Cristo crocifisso e risorto. L’annunzio missionario universale ha come un cuore: «Cristo crocifisso» (Epistola : 1Corinzi 1,23). Ciò non deve sorprendere e impaurire la Chiesa ma, convinta che «è piaciuto a Dio salvare i credenti con la stoltezza della predicazione» (v. 21) predichi la «parola della croce» (v. 18) nella quale si dispiega la sapienza e l’irresistibile potenza divina di salvezza. Il continuo contatto con la Parola e l’esperienza del “mangiare” con il Signore, vale a dire, l’Eucaristia memoriale ripresentativo della sua morte e risurrezione, fa della Chiesa e dei fedeli “testimoni” veritieri di ciò che annunziano «a tutti i popoli» (Luca 24,47) senza preclusioni di sorta. Ciò che ha cominciato a fare, superata qualche incertezza, la Chiesa delle origini come leggiamo nella Lettura a proposito dell’esperienza missionaria dell’Apostolo Pietro: «In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenze di persone, ma accoglie chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque nazione appartenga» (Atti degli Apostoli 10,34-35). Il Prefazio svela e proclama l’eccezionale intento che soggiace a tutto ciò: «Il Signore Gesù da tutte le genti trasse un’unica  Chiesa e a lei misticamente si unì con amore sponsale», avvertendo inoltre che «questo mistero mirabile, raffigurato nel corpo di Cristo, in questa celebrazione efficacemente si avvera».

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16/10/2011 – Dedicazione del Duomo di Milano


1. La domenica della dedicazione del Duomo, chiesa madre di tutti i fedeli ambrosiani


Fa memoria, ogni anno, delle varie dedicazioni succedutesi nei secoli del Duomo di Milano che è la Chiesa Cattedrale per i fedeli della diocesi ambrosiana e Chiesa madre per tutti i fedeli che, pur appartenendo ad altre diocesi, seguono per antica consuetudine la Liturgia ambrosiana Questa domenica inaugura, nel più ampio contesto del Tempo “dopo Pentecoste”, una serie si domeniche e settimane dette “dopo la dedicazione” destinate a concludere l’Anno liturgico con la solennità di Cristo Re dell’universo. Il Lezionario prevede i seguenti brani biblici: Lettura: Baruc 3,24-38 oppure Apocalisse 1,10;21,2-5; Salmo 86; Epistola: 2 Timoteo 2,19-22; Vangelo: Matteo 21.10-18. Il Vangelo della Risurrezione da proclamare nella Messa vigiliare del sabato è preso da Giovanni 20,24-29.


2. Vangelo secondo Matteo 21,10-17


In quel tempo. Mentre il Signore Gesù 10entrava in Gerusalemme, tutta la città fu presa da agitazione e diceva: «Chi è costui?». 11E la folla rispondeva: «Questi è il profeta Gesù, da Nàzaret di Galilea». 12Gesù entrò nel tempio e scacciò tutti quelli che nel tempio vendevano e compravano; rovesciò i tavoli dei cambiamonete e le sedie dei venditori di colombe 13e disse loro: «Sta scritto: La mia casa sarà chiamata casa di preghiera. Voi invece ne fate un covo di ladri». 14Gli si avvicinarono nel tempio ciechi e storpi, ed egli li guarì. 15Ma i capi dei sacerdoti e gli scribi, vedendo le meraviglie che aveva fatto e i fanciulli che acclamavano nel tempio: «Osanna al figlio di Davide!», si sdegnarono, 16e gli dissero: «Non senti quello che dicono costoro?». Gesù rispose loro: «Sì! Non avete mai letto: Dalla bocca di bambini a e di lattanti hai tratto per te una lode?». 17Li lasciò, uscì fuori dalla città, verso Betània, e là trascorse la notte.


3. Commento liturgico-pastorale

L’odierno brano evangelico si presenta composto dai versetti conclusivi (10-11) del racconto fatto dall’evangelista Matteo dell’ingresso “messianico” di Gesù in Gerusalemme e da quelli riguardanti la “purificazione” del Tempio (vv. 12-17). In particolare nei versetti 10-11 leggiamo la reazione all’ingresso trionfale in Gerusalemme di “tutta la città” e dunque dei suoi abitanti che si pongono la domanda: «Chi è costui?» (v. 10) alla quale risponde la folla che lo aveva accompagnato nel cammino di avvicinamento e di ingresso in città: «Questi è il profeta Gesù, da Nàzaret di Galilea», alludendo forse alla realizzazione della promessa fatta da Dio a Israele di mandare “un profeta” pari a Mosè (Deuteronomio 18,15).

Gesù, dunque, fa il suo ingresso nel Tempio e, proprio nella sua veste di Profeta, ovvero di Messia, compie il gesto sorprendentemente violento descritto al v. 12 cacciando fuori «tutti quelli che nel tempio vendevano e compravano» dando spiegazione del suo gesto con il ricorso ad alcuni passi della Scrittura come Isaia 56,7: «La mia casa sarà chiamata casa di preghiera» e Geremia 7,11 che aveva parlato già del Tempio ridotto «a un covo di ladri». Il v. 14 registra un altro gesto rivelatore della messianicità di Gesù: «Gli si avvicinarono nel tempio ciechi e storpi, ed egli li guarì». La novità non è certo nelle guarigioni, da sempre operate da Gesù, ma nel luogo dove queste ora si compiono: nel Tempio.

Tutto ciò sembra entrare in contrasto con le disposizioni fatte risalire al re Davide che vietavano proprio al “cieco” e allo “zoppo” di entrare nella casa del Signore (cfr. 2 Samuele 5,8). Possiamo dire al riguardo che in Gesù viene abbattuta ogni barriera, ogni ostacolo per accedere a Dio. Con i malati anche i pagani non potevano accedere al Tempio. Con il suo gesto Gesù ci rivela che in lui, Tempio di Dio non costruito dalla mano dell’uomo, tutti senza eccezione, a cominciare dai malati nel corpo e nello spirito, possono trovare “guarigione” e salvezza e in lui, vera Casa di Dio, far salire la loro preghiera fino al suo trono. Il v. 15 riporta la reazione ostile dei «capi dei sacerdoti e gli scribi» suscitata, si badi bene, dalle “meraviglie” compiute da Gesù.

Come capi e guide del popolo, esperti dottori della Legge e dei Profeti, avrebbero almeno dovuto porsi degli interrogativi come quello iniziale degli abitanti di Gerusalemme: «Chi è costui?» (v. 10) che fa cose che la Scrittura attribuisce all’Inviato di Dio. La loro indignazione riguarda specialmente l’acclamazione entusiastica rivolta dai “fanciulli” a Gesù proprio nel Tempio: «Osanna al figlio di Davide». Capi dei sacerdoti e scribi sanno molto bene che si tratta di un’acclamazione che riconosce in Gesù il compimento della regalità senza fine fatta da Dio a Davide e alla sua discendenza.

Gesù quindi quale Re-Messia! A essi, ancora una volta, Gesù risponde con la citazione scritturistica del Salmo  8,3: «Con la bocca di bambini e di lattanti: hai posto una difesa contro i tuoi avversari, per ridurre al silenzio nemici e ribelli». Il brano si chiude al v. 17 con l’“uscita” di Gesù da Gerusalemme. Egli si reca a Betania, verosimilmente a casa di Maria, Marta e Lazzaro. Nella città santa aveva trovato gente pronta a riconoscerlo come il Messia di Dio: le folle, i malati, i bambini così come gente perplessa davanti a lui, come gli abitanti di Gerusalemme, o addirittura ostili come i capi dei sacerdoti e gli scribi. Ostilità che preannunzia come Gesù, il Messia, avrebbe operato la salvezza e la “guarigione” del mondo come “servo sofferente” del Signore.

Proclamato in questa domenica della dedicazione del Duomo il testo evangelico ci dice di andare oltre ciò che i nostri occhi vedono per scorgere nella grande, meravigliosa costruzione il “mistero” che esso racchiude ed esprime. Il “mistero” di Cristo quale nuovo e definitivo Tempio e Casa di Dio e il “mistero” della Chiesa che in esso si raduna. Il Duomo ci dice che in Cristo e da Cristo che associa a sé la sua Chiesa salgono a Dio le preghiere e le suppliche per il popolo santo dei fedeli ma anche per l’intera umanità. Il Duomo ci dice che in Cristo tutti trovano accesso a Dio senza distinzioni o preclusioni di sorta. In esso è offerto a Dio il culto spirituale che dà a Dio la lode a lui gradita e che ottiene da lui salvezza e “guarigione” per il  mondo intero.

Il Duomo ci dice che il popolo che in esso si raduna è segno del raduno di tutte le genti in Cristo che è in verità la «grande casa di Dio»  (Lettura: Baruc 3,24), la “sapienza” vivente di Dio che «è apparsa sulla terra e ha vissuto fra gli uomini» (v. 38) per rivelare e attuare il mirabile disegno divino di universale salvezza. Il Duomo con la sua mole possente ci dice che la Chiesa è stata fondata da Dio su solide fondamenta (cfr. Epistola: 2 Timoteo 2,19) vale a dire sul sacrificio pasquale del suo Figlio e con le meraviglie che esso racchiude ci esorta a essere tutti «come un vaso nobile, santificato, utile al padrone di casa, pronto per ogni opera buona» (v. 21), lontani ed estranei, perciò, ad ogni “iniquità” (v. 19) ma dediti alla «giustizia, la fede, la carità e la pace, insieme a quelli che invocano il Signore con cuore puro» (v. 22). In adorazione davanti alla “sapienza” divina che ha voluto porre la sua dimora tra gli uomini nella persona stessa del suo Figlio Gesù attivo e presente nella Chiesa, suo Corpo, sua Sposa, contempliamo nel Duomo, nostra Chiesa madre, il “mistero” che tutti ci coinvolge quello di formare, ognuno per la nostra parte, la Casa di Dio tra gli uomini.

Ci viene incontro, per questo, la preghiera liturgica espressa nel Prefazio: «Il Signore Gesù ha reso partecipe la sua Chiesa della sovranità sul mondo che tu gli hai donato e l’ha elevata alla dignità di sposa e di regina. Alla sua arcana grandezza si inchina l’universo perché ogni suo giudizio terreno è confermato nel cielo. La Chiesa è la madre di tutti i viventi, sempre più gloriosa di figli generati ogni giorno a te, o Padre, per virtù dello Spirito Santo. È la vite feconda che in tutta la terra prolunga i suoi tralci e, appoggiata all’albero della croce, si innalza al tuo regno. È la città posta sulla cima dei monti, splendida agli occhi di tutti, dove per sempre vive il suo Fondatore».

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9-10-2011 - VI dopo il martirio del Battista


1. La sesta domenica “dopo il martirio” del Precursore


Ha il compito nella serie delle domeniche dopo il martirio del Battista di testimoniare con l’annuncio della Parola e la celebrazione della Pasqua del Signore qual è la fisionomia della Chiesa: una Comunità di discepoli del Signore. Il Lezionario riporta i seguenti brani della Scrittura: Lettura: Giobbe 1,13-21; Salmo 16; Epistola: 2 Timoteo 2,6-15; Vangelo: Luca 17,7-10. La pericope di Luca 24,13b.36-48 viene letta alla Messa vespertina del sabato come Vangelo della Risurrezione. Le orazioni e i canti della Messa sono presi dalla XXVIII domenica del Tempo «per annum» nel Messale ambrosiano.  


2. Vangelo secondo Luca 17,7-10  

In quel tempo. Il Signore Gesù disse: 7«Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando rientra dal campo: “Vieni subito e mettiti in tavola”? 8Non gli dirà piuttosto: “Prepara da mangiare, stringiti le vesti ai fianchi e servimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu”? 9Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti? 10Così anche voi , quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”.  


3. Commento liturgico-pastorale  

Il breve brano che viene oggi proclamato fa parte di una serie di insegnamenti impartiti da Gesù ai suoi discepoli (Luca 17,1-10) allo scopo di far comprendere loro ciò che in effetti comporta l’essere discepolo: evitare lo scandalo dei piccoli, ovvero degli ultimi della Comunità (vv. 1-2); la piena disponibilità al perdono vicendevole (vv. 3-4) e la necessità di aver fede (vv. 5-6).

I versetti oggi letti, prendendo lo spunto dalla realtà sociale del tempo in cui era praticata la schiavitù insegnano, a quanti seguono il Signore, a non pensare di poter vantare qualche pretesa davanti a lui per il fatto di essere suoi discepoli: non hanno compiuto altro che il loro dovere!

Per questo viene messo in campo il rapporto padrone/servo (=schiavo) abituale nell’antichità. Un rapporto dove il servo adibito per i lavori agricoli e per la cura del gregge non pensa neppure di avere diritto di sedersi a mensa per sfamarsi ma, al contrario, sa che la sua dura condizione di schiavitù, che lo relega nell’infimo gradino della scala sociale, lo obbliga a prendersi cura del suo padrone servendolo a tavola (v. 8).

Le parole del Signore diventano ancora più dure nel sottolineare come il padrone non è nemmeno sfiorato dall’idea di esprimere in qualche modo la sua «gratitudine verso quel servo». Egli ha solo «eseguito gli ordini ricevuti» (v. 10).

La parola conclusiva del Signore diretta ai suoi discepoli, se possibile, è ancora più difficile da capire e da accettare: dopo aver fedelmente ottemperato ai suoi insegnamenti i discepoli devono ritenersi semplicemente «servi inutili», gente facilmente sostituibile, quasi dei “buoni a nulla” (v. 10). Si tratta di una lezione quasi scoraggiante che Gesù rivolge ai suoi discepoli di un tempo e dunque anche a noi.

Letta e ascoltata nel tempo liturgico che prende avvio dal martirio del Battista e che sfocia nella grande domenica, quella prossima, della Dedicazione del Duomo, Chiesa madre per tutti i fedeli ambrosiani, vuole far comprendere con estrema chiarezza a tutti noi come si sta nella Chiesa, nella compagnia di Gesù che ha per regola unica la carità messa in luce domenica scorsa.

Ci viene detto che, nella Chiesa, tutti siamo “servi” e per di più non indispensabili. D’altra parte il Signore stesso è venuto dal Cielo come “servo” e ha portato a compimento l’antica profezia del “servo di Dio” umiliato e messo a morte.

È la via obbligata per i discepoli, che sopprime nei nostri cuori la smania del potere, del successo, della presunzione, del dominio che rallenta non poco il nostro passo sulle vie del Vangelo da annunziare e da testimoniare al mondo.

È la via dello svuotamento di sé e della consegna totale alla volontà di Dio sulla quale ci ha preceduto il santo Giobbe che, spogliato di tutto, compreso l’affetto dei figli, esclama: «Nudo uscii dal grembo di mia madre, e nudo vi ritornerò. Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore!» (Lettura: Giobbe 1,21).

Non diversamente l’apostolo Paolo, che a causa del Vangelo soffre «fino a portare le catene come un malfattore» (Epistola: 2 Timoteo 2,9) che «sopporta ogni cosa per quelli che Dio ha scelto» (v. 10) pronto a morire con il Signore e a dare la vita per lui. Egli non reclama per sé onori e ricompense, ma insegna al suo discepolo a fare come lui ha fatto: «Sforzati di presentarti a Dio come una persona degna, un lavoratore che non deve vergognarsi e che dispensa rettamente la parola della verità» (v. 15).

A questa scuola occorre mettersi come discepoli del Signore, ma soprattutto come sua Comunità, sua Chiesa, consapevoli che si tratta di abbandonare vie e pensieri umani per mettersi sulle vie di Dio. Cosa questa che ottiene chi si affida a lui nella preghiera come l’antico orante: «Tendi a me l’orecchio, (o Dio) ascolta le mie parole, mostrami i prodigi della tua misericordia» (Salmo 16) e quanti aprono il loro cuore per assumere gli stessi sentimenti e gli stessi atteggiamenti del Signore Gesù, “il servo di Dio”, resi al vivo nella celebrazione dei divini misteri.

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In queste pagine potete trovare il commento alla liturgia domenicale e festiva secondo il RITO AMBROSIANO, curata da don Alberto Fusi.

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