1. La quinta domenica “dopo Pentecoste”
La liturgia odierna propone Abramo come padre e modello di tutti coloro che, nella fede, accedono alla “salvezza” frutto della Pasqua. Il Lezionario prevede le seguenti lezioni bibliche: Lettura: Genesi 18,1-2a.16-33; Salmo 27; Epistola: Romani 4,16-25; Vangelo: Luca 13,23-29. Nella Messa vespertina del sabato viene proclamato: Giovanni 20,1-8, come Vangelo della Risurrezione. Le orazioni e i canti della Messa sono quelli della XIII Domenica del Tempo “per annum” nel Messale ambrosiano.
2. Vangelo secondo Luca 13,23-29
In quel tempo. 23Un tale chiese al Signore Gesù: «Signore, sono pochi quelli che si salvano?». Disse loro: 24«Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, io vi dico, cercheranno di entrare, ma non ci riusciranno. 25Quando il padrone di casa si alzerà e chiuderà la porta, voi, rimasti fuori, comincerete a bussare alla porta, dicendo: “Signore, aprici!”. Ma egli vi risponderà: “Non so di dove siete”. 26Allora comincerete a dire: “Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza e tu hai insegnato nelle nostre piazze”. 27Ma egli vi dichiarerà: “Voi, non so di dove siete. Allontanatevi da me, voi tutti operatori di ingiustizia!”. 28Là ci sarà pianto e stridore di denti, quando vedrete Abramo, Isacco e Giacobbe e tutti i profeti nel regno di Dio, voi invece cacciati fuori. 29Verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno e siederanno a mensa nel regno di Dio».
3. Commento liturgico-pastorale
Al centro del brano evangelico, con la domanda rivolta a Gesù da un anonimo interlocutore: «Sono pochi quelli che si salvano?» (v 23), è posta la questione della “salvezza”. La risposta di Gesù non concerne il “numero” dei salvati ma rilancia con più forza il problema della “salvezza” qui indicata nella “casa” (v 25) la cui porta d’accesso, però, è angusta, è stretta (v 24). Di qui il pressante invito: “sforzatevi di entrare” ossia fate di tutto, pur di entrare nella “casa” e, dunque, avere accesso alla salvezza finale.
L’imperativo “sforzatevi” usato da Gesù va compreso come un richiamo a una pronta decisione nei suoi riguardi, quella di seguirlo come discepoli nella via della croce, del rinnegamento di sé, della conversione, della condotta irreprensibile, del compimento della volontà di Dio. Per questo, non c’è tempo! Il “padrone di casa” può da un momento all’altro chiudere la porta. Allusione questa alla parusia del Signore, alla sua venuta che segnerà l’ammissione e l’esclusione dalla “salvezza” (v 25).
Il v 26 mette in luce che non basterà vantare una certa familiarità con Gesù: «abbiamo mangiato e bevuto dinanzi a te, e hai insegnato nelle nostre piazze». A nulla gioverà l’aver “mangiato e bevuto” con Gesù se non ci si immedesimerà nella realtà di cui il “pasto” è figura, vale a dire la partecipazione al sacrificio del Signore inteso come “consegna” di sé al volere del Padre. Allo stesso modo a nulla gioverà l’aver ascoltato l’insegnamento di Gesù, essere stati alla sua scuola se essa non avrà operato una conversione di fondo nella concezione di vita e nella condotta pratica.
Anzi, sarà proprio l’“aver mangiato e bevuto con lui” e aver “ascoltato il suo insegnamento” senza una reale concreta adesione della mente, del cuore e della vita, la causa della condanna: «Allontanatevi da me, voi tutti operatori di ingiustizia» (v 27). Queste parole equivalgono alla definitiva esclusione della “salvezza” descritta con la nota immagine del banchetto, della mensa allestita nel “regno di Dio”.
A quella mensa sarà sorprendentemente ammessa, con i “giusti” della prima alleanza, una moltitudine di gente proveniente da ogni dove (v 29) e che, evidentemente, è stata pronta all’ascolto e alla conversione.
In questo tempo liturgico “dopo Pentecoste”, lo Spirito del Risorto ci fa ripercorrere, dal suo esordio, l’intera storia della salvezza, evidenziandone le tappe e le svolte fondamentali e decisive in vista del suo pieno compimento nella Pasqua di morte e risurrezione del Signore. Tra di esse occupa un posto essenziale la figura di Abramo il quale è stato costituito da Dio “padre di tutti i popoli” (Epistola: Romani 4,17), ovvero capostipite di tutti coloro che, fino alla consumazione dei tempi, e proveniente da Occidente e da Oriente ovvero da ogni popolo, da ogni condizione e situazione, apriranno il loro cuore a Dio, credendo in lui, aderendo in tutto alla sua divina Parola, vale a dire al suo Figlio Gesù.
Essi sono coloro che nell’”osservare la via del Signore” e nell’”agire con giustizia e diritto” (Lettura: Genesi 18,19) sono, di fatto, “figli” di Abramo, il quale crede di poterne trovare persino in Sodoma e Gomorra (v 23), emblema stesso dell’empietà e del peccato. Per Abramo e per i suoi “figli” l’osservanza della via del Signore traduce, in realtà e concretamente, la loro ferma fede in Dio senza mai vacillare. Fede che i credenti in Cristo ripongono in lui «consegnato alla morte a causa delle nostre colpe ed è stato risuscitato per la nostra giustificazione» (Romani 4,25).
La fede, pertanto, è quello stretto unico passaggio, di cui abbiamo sentito nel Vangelo, per il quale si accede alla gioia del Regno e dunque alla salvezza. Abramo è a tutti modello nello “sforzo” richiesto ossia nel rimanere fermo nella sua adesione di fede nonostante le innumerevoli e gravi prove a cui dovette sottostare: egli davvero «credette, saldo nella speranza contro ogni speranza» (Romani 4,18.) e per questo, pur non avendo “materialmente mangiato e bevuto” alla mensa di Gesù, né aver ascoltato i suoi insegnamenti, egli di fatto lo ascoltò e lo seguì nella via della fede e dell’obbedienza alla volontà di Dio. In tal modo divenne “operatore di giustizia” per la quale poté già entrare in quel Regno inaugurato nel mondo dalla venuta del Figlio di Dio e manifestato a tutti nella sua croce e nella sua risurrezione.
L’esempio di Abramo ci spinge a verificare con tutta sincerità la nostra attuale condizione in ordine alla “salvezza”. Nella celebrazione eucaristica possiamo dire di “mangiare e bere” alla presenza del Signore e di ascoltare il suo “insegnamento”. Ma perché tutto ciò giovi alla nostra “salvezza” è indispensabile essere già entrati “per la porta stretta”, essere cioè passati dall’incredulità alla fede concretamente vissuta nell’”osservare la via del Signore” e nel compiere le “opere di giustizia”: in una parola nel seguire Gesù sulla via dell’obbedienza al Padre e dell’amore per i fratelli.
Non sarà allora impossibile essere chiamati con «Abramo, Isacco e Giacobbe e tutti i profeti» a partecipare alla “mensa nel regno di Dio”, realmente anticipata in quella eucaristica: «Mi hai preparato una mensa, o Dio d’amore, il mio calice trabocca di dolcezza» (Canto Allo spezzare del Pane). Per questo così preghiamo: «O Dio, che nutri e rinnovi i credenti alla mensa della parola e del pane di vita, per questi doni di Cristo Signore dà ai tuoi figli di crescere nella fede e di partecipare per sempre alla gioiosa esistenza del cielo» (orazione Dopo la Comunione).
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1. La quarta domenica dopo Pentecoste
Mette in luce la funzione “legislativa” di colui che è venuto nel mondo per inaugurare il “regno di Dio”. Le lezioni bibliche sono: Lettura: Genesi 4,1-16; Salmo 49; Epistola: Ebrei 11,1-6; Vangelo: Matteo 5,21-24. Il Vangelo della Risurrezione da proclamare nella Messa vespertina del sabato è preso da: Luca 24,9-12. Le orazioni e i canti della Messa sono quelli della XII Domenica del Tempo “per annum”.
2. Vangelo secondo Matteo 5,21-24
In quel tempo. Il Signore Gesù disse: 21«Avete inteso che fu detto agli antichi: “Non ucciderai”; chi avrà ucciso dovrà essere sottoposto al giudizio. 22Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello dovrà essere sottoposto al giudizio. Chi poi dice al fratello: “Stupido”, dovrà essere sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: “Pazzo”, sarà destinato al fuoco della Geènna.
23Se dunque tu presenti la tua offerta all’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, 24lascia lì il tuo dono davanti all’altare, va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna a offrire il tuo dono».
3. Commento liturgico-pastorale
Il brano evangelico inaugura la serie di antitesi: “Avete inteso che fu detto agli antichi… Ma io vi dico” che caratterizza il capitolo quinto del grande “discorso sul monte” (Matteo 5-7). Esso rappresenta, in pratica, la “legge” promulgata da Gesù e la cui osservanza mantiene il popolo da lui acquistato, nell’”alleanza nuova ed eterna” con Dio.
In particolare i vv 21-22 presentano l’antitesi tra ciò che prescrive la Legge e, più precisamente, il quinto comandamento del Decalogo: “Non uccidere” con la conseguente sanzione data dal tribunale terreno, e ciò che afferma Gesù con tre specifici enunciati di tipo giuridico che prima riferiscono il “reato” e quindi, la rispettiva punizione.
Il primo dei reati è il sentimento dell’”ira” covato contro il “proprio fratello”, un membro cioè della comunità. Di tale sentimento si dovrà rendere conto in “tribunale”, quello divino s’intende! Il secondo e il terzo reato sono manifesti e riguardano gli insulti e le ingiurie rivolte al “fratello” puniti rispettivamente nel tribunale della comunità e nel “fuoco della Geénna” luogo deputato nella concezione apocalittica giudaica al giudizio degli empi.
Con ciò il Signore vuole far capire che si dovrà rendere conto a Dio dei sentimenti e degli atteggiamenti gli uni verso gli altri. Egli vuole che la sua Chiesa risplenda già da ora, in questo mondo dominato dagli istinti feroci che contrappongono gli uomini come nemici, come un segno del raduno celeste di tutti nell’unica casa di Dio. Per questo egli dà ai suoi la “legge” dell’amore che non annulla certo i Comandamenti, ma li porta al loro esito finale già previsto nel volere di Dio. In questa luce va perciò compreso anche il “detto” originale di Gesù relativo al vero culto da rendere a Dio (vv 23-24).
L’Epistola, al riguardo, afferma che esso va compiuto “per fede” sull’esempio di Abele che «offri a Dio un sacrificio migliore di quello di Caino» e ottenne così di essere dichiarato “giusto” (Ebrei 11,4). Per Gesù il “sacrificio migliore” che Dio mostra di gradire è quello offerto da chi è in pace con tutti i suoi “fratelli” o almeno è disponibile a fare gesti concreti di “riconciliazione”.
È ciò che abbiamo ripetuto nel ritornello al Salmo 49: «Sacrificio gradito al Signore è l’amore per il fratello» ed è quanto viene autorevolmente ricordato e richiesto a chi partecipa al sacrificio eucaristico nel rito liturgico dello scambio di pace «prima di presentare i nostri doni all’altare».
Il brano evangelico, proclamato nel tempo “dopo la Pentecoste” che, alla luce della Pasqua, ci fa rileggere e rivivere gradatamente l’intera storia della salvezza, mostra come nella legge del Signore Gesù che esige il consapevole “sacrificio” di sé per vivere nel perdono e nella carità verso tutti, viene neutralizzato il tentativo del male di stravolgere il disegno di Dio sull’uomo e sull’intero creato.
La Lettura ci presenta la pagina drammatica dell’uccisione di Abele da parte di suo fratello Caino, intesa come tragico epilogo di sentimenti malvagi nutriti da questi nei confronti di Abele e che la Scrittura descrive efficacemente, quasi personalizzando il “peccato”, come un intruso “accovacciato alla tua porta” (Genesi 4,7).
Il racconto biblico dell’uccisione del “fratello” diviene così il paradigma nel quale va letta e interpretata ogni uccisione, ogni violenza, ogni crudeltà, malvagità, ingiustizia dell’uomo contro un altro uomo. Si uccide, dunque, la propria “carne” e il “proprio sangue” qual è l’uomo, ogni uomo, nei confronti di un altro uomo, chiunque egli sia.
Si tocca così con mano l’opera devastante del male che si insinua nel mondo, nel cuore dell’uomo e lo perverte fino al punto da alzare la mano contro il proprio “fratello” magari “minore”, ovvero più debole, umile e indifeso.
Nell’ora della sua passione, facendosi inghiottire dal potere tenebroso del male e del peccato, Gesù lo ha come spezzato, e ha promulgato nel dono di sé, la Legge che porta a compimento ogni Legge: quella dell’amore. Una Legge promulgata non solo e non tanto con le parole “sul monte” ma nel suo sangue, nel dare cioè la sua vita per i suoi “fratelli”, vale a dire tutti gli uomini, e che, se osservata, è in grado di vanificare l’opera mortifera del male e del peccato.
Questo il Signore chiede a quanti, nel mistero eucaristico partecipano al sacrificio che ha ottenuto ogni dono di grazia sul mondo, sulla storia, sull’umanità. Mangiare il “pane” della mensa eucaristica comporta disporsi a vivere concretamente ciò che esso significa. Per questo preghiamo umilmente il Padre che «tanta pietà ha provato per noi da mandare il suo Unigenito come redentore» (Prefazio) di «infondere nei nostri cuori il disgusto per ogni forma di male» (orazione All’inizio dell’Assemblea Liturgica), di liberare «il nostro cuore da ogni nascosta ombra di colpa» e di difenderci «dalle insidie di ogni avverso potere» (orazione Dopo la Comunione).
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1. La terza domenica dopo Pentecoste
La liturgia odierna propone in Gesù “generato in Maria” lo snodo decisivo dell’intera storia della salvezza che ha il suo compimento nella Pasqua. Il Lezionario ambrosiano, per questo, presenta i seguenti brani biblici: Lettura: Genesi 3,1-20; Salmo 129; Epistola: Romani 5,18-21; Vangelo: Matteo 1,20b-24b. Alla Messa vespertina del sabato viene proclamato: Marco 16,1-8a come Vangelo della Risurrezione. Le orazioni e i canti per la Messa sono quelli della XI domenica del Tempo “per annum” nel Messale ambrosiano.
2. Vangelo secondo Matteo 1,20b-24b
In quel tempo. 20Apparve in sogno a Giuseppe un angelo del Signore e gli disse: «Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo; 21ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati».
22Tutto questo è avvenuto perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: 23«Ecco, la vergine concepirà e darà alla luce un figlio: / a lui sarà dato il nome di Emmanuele, / che significa Dio con noi». 24Quando si destò dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore.
3. Commento liturgico-pastorale
I versetti, oggi proclamati, vanno inseriti nel più ampio contesto di Matteo 1,18-25 che sviluppa il tema della “nascita di Cristo”. I vv 20-23 riguardano l’intervento divino nei confronti di Giuseppe turbato per l’inattesa gravidanza di Maria, la sua fidanzata (cfr. v 19) e il v 24 pone in luce la pronta obbedienza di Giuseppe alle parole dell’”angelo del Signore”.
In particolare il v 20 dopo aver ambientato nel “sogno” l’intervento divino, la cui provenienza celeste è assicurata dal ruolo dell’”angelo”, riferisce il contenuto del messaggio celeste che occupa anche i vv 21-23. Esso consiste anzitutto nel rivelare a Giuseppe indicato con l’appellativo “figlio di Davide”, evocativo dunque della promessa messianica, la “modalità” di quella gravidanza e, dunque, di quella nascita: “da Spirito Santo”.
A lui, Giuseppe dovrà “imporre il nome” (v 21) inserendolo così nel suo casato, nella discendenza davidica dalla quale, secondo la promessa di Dio, sarebbe venuto il Messia salvatore del “popolo”. Il nome “Gesù” che verrà dato al bambino e che letteralmente significa “Dio è salvezza” mette in luce esattamente il ruolo e la missione messianica di lui, ulteriormente così precisata: «egli salverà il suo popolo dai suoi peccati».
Al v 22 sono riportate le parole con le quali l’angelo mette in luce come gli accadimenti così straordinari e che, di conseguenza, creano “turbamento” in Giuseppe, rientrano in realtà in un preciso disegno rivelato da Dio tramite il profeta Isaia 7,14: «Ecco: la vergine concepirà e partorirà un figlio, che chiamerà Emanuele».
Lo stesso evangelista Matteo, che si premura di dire il significato del nome: “Dio con noi”, e dietro a lui, la tradizione cristiana, hanno interpretato il testo profetico come annunzio del “parto verginale” di Maria! Con ciò evidenziando l’origine celeste “dallo Spirito” di colui che la Vergine porta nel grembo.
Non deve apparire “fuori tempo” la proclamazione della nascita prodigiosa del Signore Gesù in questi giorni immediatamente seguenti la solennità di Pentecoste, corona della Pasqua. Il tempo “dopo la Pentecoste” è infatti dedicato, nella tradizione liturgica ambrosiana, a ripercorrere le grandi tappe della storia della salvezza che ha il suo culmine proprio nel mistero pasquale del Signore.
Lo scopo è duplice: far salire dalla Chiesa il canto di lode, di adorazione e di ringraziamento alla Trinità Santissima da cui ha origine il progetto divino di salvezza e, aiutare i fedeli a sentirsi personalmente inseriti in questa “storia” mediante l’adesione di fede al Vangelo e la successiva immersione nei sacramenti pasquali del Battesimo, Cresima ed Eucaristia.
In questa seconda tappa della storia della salvezza i testi biblici, dunque, pongono al centro la missione essenziale di Gesù che proprio nella sua nascita, e nel suo stesso nome è proclamata: «salvare il suo popolo dai suoi peccati».
La Lettura ci riporta all’origine del “peccato” da cui vengono “i peccati” (Genesi 3,1-20). Il racconto della “caduta” di Adamo e di Eva, considerati come portatori in sé dell’intera umanità, enumera le tragiche conseguenze del loro peccato quali la “paura” di Dio (v 10) unica fonte di vita, la spaccatura nell’uomo stesso che lo fa nemico della sua stessa “carne” (v 12) e del creato (vv 17-18) nel quale Dio lo aveva posto come sua “icona”. In una parola, il peccato “regna nella morte” (Epistola: Romani 5,21) su tutto e su tutti.
Il “bambino” che nasce dalla Vergine, viene nel mondo come nostro nuovo progenitore. Con la sua “obbedienza”, chiaro riferimento alla sua passione e morte, ribalta la condanna, frutto del “peccato” di Adamo, riversando «su tutti gli uomini la giustificazione», ossia la dichiarazione del tutto gratuita, da parte di Dio, di assoluzione dal peccato (Romani 5,19).
Nella Pasqua del Signore, perciò, l’annunzio salvifico rappresentato nel “nome” dato da Giuseppe a colui che nasce dallo Spirito, giunge a sua concreta attuazione come instaurazione nel mondo del “regno della grazia” che sempre sperimentiamo nella celebrazione dei “divini misteri” e che ci fa dire con tutto il cuore: «annunzierò, o Dio, le tue gesta mirabili, gioisco in te ed esulto, canto inni al tuo nome, o Altissimo» (Canto Allo Spezzare del Pane).
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1. La seconda domenica dopo Pentecoste
La liturgia odierna ci presenta la “creazione” come primo momento dell’effettivo dispiegarsi, nel tempo, del disegno divino di salvezza, concepito nel cuore della Trinità e che culmina nella Pasqua del Signore. I testi biblici oggi proposti sono: Lettura: Siracide 18,1-2.4-9a.10-13; Salmo 135; Epistola: Romani 8,18-25; Vangelo: Matteo 6,25-33. Nella Messa vespertina del sabato si proclama: Luca 24,1-8, quale Vangelo della Risurrezione. I canti e le preghiere per la Messa sono quelli della X domenica del Tempo “per annum” nel Messale ambrosiano.
2. Vangelo secondo Matteo 6,25-33
In quel tempo. Il Signore Gesù ammaestrava le folle dicendo: 25«Io vi dico: non preoccupatevi per la vostra vita, di quello che mangerete e berrete, né per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita non vale forse più del cibo e il corpo più del vestito? 26Guardate gli uccelli del cielo: non sèminano e non mietono, né raccolgono nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non valete forse più di loro? 27E chi di voi, per quanto si preoccupi, può allungare anche di poco la propria vita? 28E per il vestito, perché vi preoccupate? Osservate come crescono i gigli del campo: non faticano e non filano. 29Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. 30Ora, se Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani si getta nel forno, non farà molto di più per voi, gente di poca fede? 31Non preoccupatevi dunque dicendo: “Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo?”. 32Di tutte queste cose vanno in cerca i pagani. Il Padre vostro celeste, infatti, sa che ne avete bisogno. 33Cercate invece, anzitutto, il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta».
3. Commento liturgico-pastorale
Il brano è preso dal più ampio “discorso sul monte” che occupa i capitoli 5-6 e 7 del Vangelo secondo Matteo. In particolare i versetti oggi proposti riportano le parole di Gesù che, dopo aver insegnato ai suoi discepoli a rivolgersi a Dio invocato come Padre, li esorta ad abbandonarsi con fiducia alla sua premura paterna.
Di qui l’ammonimento a non lasciarsi soffocare dalle preoccupazioni puramente materiali (v 25), convalidato da due immagini destinate ad alimentare nei discepoli la fiducia in Dio, Padre provvidente: gli “uccelli del cielo” per il cui sostentamento provvede Dio stesso (vv 26-27) e i “gigli del campo” che Dio riveste in maniera splendida (vv 28-30).
Segue, infine, la rinnovata esortazione a evitare ogni eccessivo affanno (vv 31-32) e soprattutto l’invito a ricercare sopra ogni cosa “il regno di Dio e la sua giustizia” (v 33).
La tradizione liturgica ambrosiana, nel proclamare il presente testo evangelico, intende avviare nel tempo dopo Pentecoste, alla luce perciò del compimento della Pasqua, la rivisitazione della progressiva rivelazione e attuazione del disegno divino di salvezza che, partendo dal seno della Trinità, intende tutto a essa ricondurre proprio nel Signore crocifisso, risorto, salito al Padre per l’effusione dello Spirito Santo.
La “creazione” è, pertanto, qui compresa come primo momento del disvelarsi di quel disegno e, dunque, come iniziale autentica manifestazione di Dio e del suo mistero di per sé inaccessibile all’uomo: «A nessuno è possibile svelare le sue opere e chi può esplorare le sue grandezze? La potenza della sua maestà chi potrà misurarla? Chi riuscirà a narrare le sue misericordie? Non c’è nulla da togliere e nulla da aggiungere, non è possibile scoprire le meraviglie del Signore» (Lettura: Siracide 18,4-6).
Dio stesso, però, rivela le sue meraviglie: «Ha creato i cieli con sapienza… ha disteso la terra sulle acque… ha fatto le grandi luci… il sole per governare il giorno… La luna e le stelle per governare la notte» (Salmo 135).
Ma, in maniera del tutto inaspettata e sorprendente, nelle meraviglie del creato egli ha rivelato la sua “misericordia”, anzi, il suo “amore”, che riguarda “ogni essere vivente” come ha ben capito l’antica sapienza orante del popolo della prima Alleanza e come Gesù stesso ha ribadito nelle stupende immagini degli “uccelli del cielo” e dei “gigli del campo”.
“Misericordia e amore” che Dio riserva specialmente all’uomo creato come sua “immagine” e posto al centro del cosmo ma di cui ben conosce la nativa fragilità e provvisorietà: «Come una goccia d’acqua nel mare e un granello di sabbia, così questi pochi anni in un giorno dell’eternità» (Siracide 18,10). Eppure proprio all’uomo Dio ha «affidato le meraviglie dell’universo perché, fedele interprete dei tuoi disegni, esercitasse il dominio su ogni creatura e nelle tue opere glorificasse te, Creatore e Padre» (Prefazio).
Sappiamo, però, come l’uomo non ha corrisposto alle attese di Dio. Con il peccato non solo è caduto nella “corruzione”, e perciò inevitabilmente nella morte, ma ha trascinato, nella sua caduta, l’intera creazione a lui legata. Essa, perciò, “geme e soffre” con l’uomo, nella “speranza” di essere «liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio» (Epistola: Romani 8,21-22).
Il Dio, che nutre gli “uccelli del cielo” e veste magnificamente i “gigli del campo”, ascolta il gemito e la sofferenza del creato. Il suo cuore è aperto nell’accogliere il grido dell’uomo. A tutti viene incontro con la sua provvidenza che non si limita a un soccorso momentaneo ma, nel suo Figlio crocifisso e risorto, ha effuso lo Spirito per far passare l’uomo, e dunque il cosmo, dalla “corruzione” alla condizione gloriosa propria dei figli di Dio (v 21).
Della provvidenza paterna di Dio tutti facciamo esperienza quando nei santi misteri ci “riveste” del suo Figlio Gesù e ci “nutre” con un cibo che ci libera «da ogni male che insidia il nostro cuore e la nostra vita» (Orazione Dopo la Comunione) e ci dà un saggio di quella “gloria” a cui l’intera opera delle sue mani è destinata.
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