1 Agosto 2010 - X Domenica dopo Pentecoste


1. La decima domenica “dopo Pentecoste”

Nel re Salomone, figlio di Davide, guida saggia e sapiente del suo popolo è annunziato Gesù, il Figlio di Dio che, nella sua morte e risurrezione ha aperto e indicato all’intera umanità il sicuro passaggio verso il Regno, verso la salvezza. Il Lezionario prevede le seguenti lezioni bibliche: Lettura: 1Re 3,5-15; Salmo 71; Epistola: 1Corinzi 3,18-23; Vangelo: Luca 18,24b-30. Nella Messa vigiliare del sabato si legge Giovanni 20,19-23 quale Vangelo della Risurrezione. Le orazioni e i canti della Messa sono quelli della XVIII Domenica del Tempo “per annum” nel Messale ambrosiano.


2. Vangelo secondo Luca 18,24b-30


In quel tempo. Il Signore Gesù disse: 24«Quanto è difficile, per quelli che possiedono ricchezze, entrare nel regno di Dio. 25È più facile infatti per un cammello passare per la cruna di un ago, che per un ricco entrare nel regno di Dio!». 26Quelli che ascoltavano dissero: «E chi può essere salvato?». 27Rispose: «Ciò che è impossibile agli uomini, è possibile a Dio». 28Pietro allora disse: «Noi abbiamo lasciato i nostri beni e ti abbiamo seguito». 29Ed egli rispose: «In verità io vi dico, non c’è nessuno che abbia lasciato casa o moglie o fratelli o genitori o figli per il regno di Dio, 30che non riceva molto di più nel tempo presente e la vita eterna nel tempo che verrà».


3. Commento liturgico-pastorale


Il brano segue immediatamente il racconto dell’incontro di Gesù con un personaggio assai in vista (“un capo” dice Luca) che non raccoglie l’invito a seguire Gesù (18,18-23) “poiché era assai ricco” e prende avvio, al v 24, dalla constatazione: «Quanto è difficile, per quelli che possiedono ricchezze, entrare nel regno di Dio». Ad essa fa seguito il celebre “detto” riguardante il passaggio del cammello “per la cruna di un ago” (v 25).

Intervengono a questo punto gli astanti con la domanda: «E chi può essere salvato?» (v 26). Essa dice che i presenti hanno ben capito che soltanto un miracolo può permettere a un “ricco” di entrare nel Regno di Dio, ossia di “salvarsi”.

Il v 27 mitiga, con la risposta, la precedente severa affermazione di Gesù, appellandosi al fatto che a Dio è possibile ciò che non lo è per gli uomini, alludendo così alla “grazia” capace di fare cose inimmaginabili.

A questo punto intervengono i discepoli tramite Pietro, loro portavoce, mettendo in luce la loro pronta disponibilità a lasciare tutto per seguire Gesù (v 28) divenendo così una chiara alternativa al comportamento del “capo” che non se la sentì di far parte ai poveri dei suoi averi in vista del Regno. La risposta di Gesù al v 29 assicura ai discepoli, che hanno lasciato addirittura gli affetti umani più belli per seguirlo, un’adeguata “ricompensa”, a partire già da questa vita e destinata a manifestarsi come “vita eterna”, dunque come condizione permanente di salvezza.

Letto nel conteso del tempo liturgico in atto, il brano evangelico ci chiede una presa di coscienza e una conseguente valutazione sulla reale accoglienza del dono divino di salvezza ricevuto nei sacramenti pasquali. Per loro mezzo il credente è, di fatto, già “entrato” nel regno di Dio, è, dunque, già salvo. Si comprende, perciò, come l’effettiva appartenenza al Regno è ciò che deve stare a cuore al credente, più di ogni altra realtà terrena. In una parola la vera “sapienza”, per noi che crediamo, è quella di non anteporre nulla e nessuno al dono di salvezza effettivo in Cristo crocifisso e risorto.

La pagina vetero-testamentaria ci offre l’esempio del grande re Salomone, figlio di Davide, conosciuto su tutta la terra come “sapiente” possessore cioè di un’irresistibile capacità di “distinguere il bene dal male” e dunque in grado di garantire al suo popolo una vita serena e ordinata. Il “cuore saggio” di Salomone aspirava, dunque, a ottenere da Dio questo unico dono: “il discernimento nel giudicare” per il servizio della sua gente mettendo da parte, come Dio stesso riconosce, le richieste per sé stesso quali “molti giorni” di vita, ricchezze e la vita dei suoi nemici, cose, peraltro, che Dio ugualmente a lui dona come sovrappiù! (cfr. Lettura: 1Re 3,11-13).

Così deve essere per noi: ottenere da Dio la grazia di saper abbandonare tutto ciò che costituisce un ostacolo nel nostro cammino di salvezza sulle orme di Cristo. Si tratta, se necessario, di diventare “stolti” agli occhi del mondo, valutando con “sapienza” ciò che davvero conta per l’uomo: “salvarsi”, ossia perseverare nella sequela di Gesù, costi quel che costi! Tutto ciò può apparire una pazzia agli occhi di chi, confidando in sé stesso e nelle tante cose che possiede, crede di essere al riparo da tutti e da tutto, ignorando così, di fatto, Dio e la sua proposta salvifica.

È evidente che nessuno di noi, con le sole sue forze e con la sua umana sapienza, è in grado di capire tali esigenze e di sceglierle e perseguirle. Se è davvero difficile “salvarsi” e se per “un ricco”, non solo di beni materiali ma anche della “sapienza di questo mondo” (cfr. 1Cor 3,18-20) è addirittura “impossibile”, occorre chiedere la salvezza a Dio, al quale nulla è impossibile, come “grazia”!

In tal modo lo Spirito ci fa interiormente convinti che, ciò che conta “in assoluto” è “entrare nel regno di Dio”. Mancare un simile obiettivo significa andare incontro al drammatico definitivo fallimento della propria vita. È questa la vera “sapienza” che non fa temere al discepolo del Signore di apparire “stolto” agli occhi del mondo, nella consapevolezza che essere “di Cristo” vuol dire essere “di Dio” e, dunque, possedere ogni cosa.

Così si esprime, al riguardo, l’Apostolo: «tutto è vostro: Paolo, Apollo, Cefa, il mondo, la vita, la morte, il presente, il futuro, tutto è vostro» (1Corinzi 3,21-22). È il dono da chiedere e da ottenere nella celebrazione eucaristica quando, nella croce del Signore, brilla la “sapienza” stessa di Dio che nell’”umiliazione” del suo Figlio ha fatto risiedere la salvezza per tutti e apre il passaggio al suo Regno.

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25 Luglio 2010 IX Domenica dopo Pentecoste

25 Luglio 2010  - IX Domenica dopo Pentecoste – Anno C      


1. La nona domenica “dopo Pentecoste”     

 Presenta, con l’elezione regale di Davide, l’annunzio profetico dell’invio nel mondo di Gesù, il Figlio di Dio, il re e messia, liberatore dell’intera umanità. Il Lezionario riporta i seguenti brani scritturistici: Lettura: 1Samuele 16,1-13; Salmo 88; Epistola: 2Timoteo 2,8-13; Vangelo: Matteo 22,41-46. Nella Messa vigiliare del sabato si legge Luca 24,13b.36-48 come Vangelo della Risurrezione. Le orazioni e i canti della Messa sono quelli della XVII domenica del Tempo “per annum” nel Messale ambrosiano.    


2. Vangelo secondo Matteo 22,41-46      

In quel tempo.  41Mentre i farisei erano riuniti insieme, il Signore Gesù chiese loro: 42«Che cosa pensate del Cristo? Di chi è figlio?». Gli risposero: «Di Davide». 43Disse loro: «Come mai allora Davide, mosso dallo Spirito, lo chiama Signore, dicendo: / 44“Disse il Signore al mio Signore: / Siedi alla mia destra / finché io ponga i tuoi nemici / sotto i tuoi piedi”? 45Se dunque Davide lo chiama Signore, come può essere suo figlio?». 46Nessuno era in grado di rispondergli e, da quel giorno, nessuno osò più interrogarlo.    


3. Commento liturgico-pastorale      

Il brano conclude la serie dei dibattiti che oppongono soprattutto i farisei a Gesù e avvia, con il cap. 23, i discorsi polemici con i quali il Signore li smaschera nella loro autosufficienza e nella loro pretesa di conoscere e possedere la volontà di Dio. Può sorprendere come qui è Gesù a porre domande ai suoi avversari che, alla fine, non troveranno risposta. La prima domanda riguarda la figliolanza del “Cristo”, il vocabolo di origine greca che traduce quello ebraico di “messia” (v 42). È noto infatti come ai tempi di Gesù fosse viva più che mai l’attesa per la venuta del messia, letteralmente il “consacrato” inviato da Dio per risollevare le sorti del suo Popolo. Inserendosi nell’attesa della sua gente, Gesù pone dunque la domanda sull’origine del messia e alla quale i farisei rispondono: “Di Davide” sulla scorta della rivelazione vetero-testamentaria (2Samuele 7,12ss; Isaia 11,1; Geremia 23,5; Ezechiele 34,23; 37,24; Salmo 89,20). Questa riguarda sostanzialmente la promessa fatta da Dio di suscitare dalla stirpe di Davide il futuro messia e re del popolo il cui regno non avrebbe mai visto la fine. Di qui l’usanza, tipicamente semitica, di chiamare “figlio di Davide” il messia.    
    I vv 43-45 contengono domande con le quali Gesù intende fare ulteriori passi sulla via dell’identificazione dell’origine del messia. Egli è certamente della stirpe di Davide e, dunque, “discendente di Davide”. Un dato, questo, essenziale nella prima trasmissione della fede fatta dagli Apostoli (cfr. Epistola: 2Timoteo 2,8). Ma tale individuazione non dice tutto sul messia! Per questo, allo scopo di favorire un ulteriore progresso, Gesù cita il primo versetto del Salmo 110 composto, secondo gli antichi, da Davide: «Oracolo del Signore al mio signore: “Siedi alla mia destra finché io ponga i tuoi nemici a sgabello dei tuoi piedi”». In esso, dunque, Davide riferisce tali parole che provengono da Dio a un personaggio che lui chiama “mio signore” e che perciò non può essere suo figlio. A questa obiezione i farisei non sanno e non possono rispondere, perché la risposta la potrà dare solo chi crede che Gesù, il messia, è il Figlio di Dio.    
     Nel ripercorrere i momenti più significativi della storia della salvezza, in questa nona domenica del Tempo “dopo Pentecoste”, le divine Scritture ci presentano la figura di Davide. Egli, il “più piccolo” tra i suoi fratelli, incaricato dell’umile compito di “pascolare il gregge” (Lettura: 1Samuele 16,11), viene scelto da Dio, il quale, a differenza dell’uomo che “vede l’apparenza”, “vede il cuore” (v 7), quale “re” del suo popolo, anzi “il più alto tra i re della terra” (Salmo 88,28).     Su di lui, consacrato con l’olio che il profeta Samuele gli versa sul capo, “irruppe” lo spirito del Signore (cfr. 1Samuele 16,13). In tal modo Davide diviene come un annuncio profetico di quel re il cui regno non sarà mai scosso e che noi crediamo essere Gesù di Nazaret inserito nella “discendenza davidica” al fine di mostrare come realizzate le divine promesse riguardanti il re-messia liberatore del suo popolo.    
     In Gesù queste divine promesse hanno trovato il pieno compimento e superamento. Egli, infatti, non è soltanto “figlio di Davide”, egli è il Figlio di Dio che nella sua croce ha compiuto la liberazione definitiva dell’intera umanità ponendo i suoi “nemici” ovvero satana, il peccato, la morte, sotto i suoi piedi (cfr. Salmo 110,1). Perciò, nella sua risurrezione, Dio lo ha fatto “sedere alla sua destra” quale Kyrios e Signore di un regno che non avrà mai fine, il regno dei Cieli! In esso si entra già da ora con la piena adesione di fede in Gesù, il messia, il Figlio di Dio, e con la rigenerazione battesimale che aggrega alla Chiesa, autentico “germoglio” del Regno.     Perciò, diversamente dai farisei che non hanno potuto rispondere alle domande di Gesù, noi possiamo dire che “in” Gesù, il Kyrios risorto dai morti, si raggiunge “la salvezza” insieme “alla gloria eterna” (2Timoteo 2,10). Davanti al Signore riconosciamo dette per noi e per la comunità cristiana di tutti i tempi le parole profetiche con le quali prende avvio oggi la celebrazione eucaristica: «Non temere, Sion, non lasciarti cadere le braccia! Il Signore tuo Dio in mezzo a te è un salvatore potente, per te esulterà di gioia» (Canto “All’ingresso”).

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18 luglio 2010 VIII Domenica dopo Pentecoste

 
1. L’ottava domenica “dopo Pentecoste” 

L’istituzione della monarchia nel popolo d’Israele, di cui parla la Lettura vetero-testamentaria, rappresenta un ulteriore sviluppo della storia della salvezza. Essa annunzia l’inaugurazione, nella Pasqua del Signore, del regno di Dio che non avrà mai fine. I testi biblici offerti dal Lezionario sono: Lettura: 1Samuele 8,1-22a; Salmo 88; Epistola: 1Timoteo 2,1-8; Vangelo: Matteo 22,15-22. Alla Messa vigiliare del sabato viene proclamato: Luca 24,13-35, quale Vangelo della Risurrezione. Le orazioni e i canti per la Messa sono quelli della XVI Domenica del Tempo “per annum” nel Messale ambrosiano.    

2. Vangelo secondo Matteo 22,15-22      

In quel tempo. 15I farisei se ne andarono e tennero consiglio per vedere come cogliere in fallo il Signore Gesù nei suoi discorsi. 16Mandarono dunque da lui i propri discepoli, con gli erodiani, a dirgli: «Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità. Tu non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno. 17Dunque, di’ a noi il tuo parere: è lecito, o no, pagare il tributo a Cesare?». 18Ma Gesù, conoscendo la loro malizia, rispose: «Ipocriti, perché volete mettermi alla prova? 19Mostratemi la moneta del tributo». Ed essi gli presentarono un denaro.  20Egli domandò loro: «Questa immagine e l’iscrizione, di chi sono?». 21Gli risposero: «Di Cesare». Allora disse loro: «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio». 22 A queste parole rimasero meravigliati, lo lasciarono e se ne andarono.    

3. Commento liturgico-pastorale
 
Il brano evangelico fa parte di tutta una serie di dispute e di contrasti che di volta in volta oppongono Gesù ad avversari via via più numerosi e mal disposti nei suoi confronti.  È il caso dei farisei che si radunano per studiare le modalità al fine di cogliere «in fallo il Signore Gesù nei suoi discorsi» (v 15).
Di qui la domanda insidiosa fatta a Gesù circa la liceità o meno del tributo da pagare all’imperatore romano (v 17) e che non permetteva via di scampo. Un sì avrebbe attirato su Gesù la condanna di misconoscere la sovranità di Dio su Israele. Un no avrebbe rappresentato un atto sovversivo contro il potere costituito.
La domanda è preceduta da una specie di  captatio benevolentiae (v 16) che, pur viziata da intenzione malvagia, alla fine diviene un pubblico riconoscimento sulla predicazione di Gesù, libera nei confronti di tutti e specialmente conforme alla volontà di Dio.
La risposta di Gesù dapprima smaschera le cattive intenzioni del cuore dei suoi interlocutori (v 18) e, una volta avuta tra mano la moneta del tributo che i Romani esigevano ogni anno, da tutti, a partire dai 12 ai 65 anni, scolpisce e fissa il suo insegnamento: «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio» (v 21). Il v 22 registra la reazione dei suoi cattivi interlocutori: la “meraviglia” fatta di sorpresa e di amarezza per aver fallito nel loro intento.
Il brano evangelico va ora collocato, con gli altri testi biblici oggi proclamati, nel tempo liturgico in atto, vale a dire quello “Dopo Pentecoste” che fa ripercorrere l’opera divina di salvezza. Una tappa di notevole importanza nel cammino della salvezza è indubbiamente segnata nell’introduzione, nel popolo d’Israele, della “monarchia” al tempo del profeta Samuele e di cui ci riferisce la Lettura.
Fino a quel momento non è esistito in Israele, a differenza degli altri popoli, la figura del “re” terreno in quanto Jahweh, solo, regnava sul popolo da lui conquistato «con mano potente e braccio forte», strappato al faraone d’Egitto, liberato da tutti i nemici, dotato di una terra dove “scorre latte e miele”. Perciò Israele poteva dire in tutta verità: «Sei tu, Signore, la guida del tuo popolo» (Ritornello al Salmo responsoriale).
Nelle parole di Dio a Samuele si avverte come la delusione dell’Altissimo nei confronti del suo popolo: «Ascolta la voce del popolo, qualunque cosa ti dicano, perché non hanno rigettato te, ma hanno rigettato me, perché io non regni più su di loro» (1Samuele 8,7).
Della concezione riguardante la sovranità esclusiva di Jahweh su Israele si avverte ancora l’eco nella domanda-trabocchetto che i farisei fanno a Gesù: «È lecito, o no, pagare il tributo a Cesare?» (Matteo 22,17). È un modo di pensare che ha un valore non solo politico ma, come prima si ricordava, anche “teologico” perché evidenzia l’unicità di Israele a partire proprio dal suo essere “di” Dio, sua proprietà. Sicché non si poteva pensare che questo popolo avesse altro re al di fuori di Jahweh.
È quanto sostenevano al tempo di Gesù, anche con l’insurrezione armata contro i Romani, il gruppo degli Zeloti! Nella sua risposta «Rendete a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio» Gesù dà un’indicazione, tra l’altro, valida per tutti i tempi. Egli riconosce che “Cesare” ha e detiene un vero potere, quello significato nella “immagine” e nella “iscrizione” impresse sulla “moneta del tributo”.
Così è per la comunità cristiana delle origini. L’apostolo Paolo riconosce il potere civile e, per questo, raccomanda che «si facciano domande, ordinando suppliche, preghiere e ringraziamenti… per i re e per tutti quelli che stanno al potere» (Epistola: 1Tim 2,1). 
Il cuore della risposta del Signore è però l’affermazione su Dio, sulla sua sovranità che non è significata, come per quella provvisoria di Cesare, da un’immagine impressa sul metallo, ma risplende nel cielo, in terra, in tutto il creato, su ogni uomo, anche su Cesare. Così Gesù ha insegnato ai suoi discepoli a rispettare, a onorare e a obbedire a coloro che esercitano sulla terra, il potere, ma a vivere la giusta proporzione tra il “potere terreno” esercitato dai re, di per sé provvisorio e, dunque, limitato, e quello divino che è su tutto e su tutti e per sempre, cosa che gli riconoscono anche i suoi avversari (v 16).
Tra la sovranità esercitata dai re di questo mondo e che spesso è fuorviante e tirannica (cfr. 1Samuele) e la sovranità di Dio, il discepolo di Gesù d’ora in poi sa  a chi riconoscere il primato e a chi “pagare il tributo”. A «Cesare quello a lui dovuto perché possa svolgere il suo servizio a favore del bene comune, a Dio il tributo di tutto sé stesso, il tributo dell’obbedienza e della stessa vita». È la norma “apostolica” alla quale occorre attenersi. Si rispetta e si prega per l’autorità civile «perché possiamo condurre una vita calma e tranquilla, dignitosa e dedicata a Dio» (1Timoteo 2,2).

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11 luglio 2010 - VII domenica dopo Pentecoste

11 Luglio 2010  - VII domenica dopo Pentecoste – Anno C
 
1. La settima domenica “dopo Pentecoste”
 
È contrassegnata da Giosuè, successore di Mosè, che nella sua veste di guida intende portare il suo popolo a “servire il Signore”, a vivere cioè nella fedeltà a lui e alla sua Parola. In questo Giosiè è figura profetica del Signore Gesù, la “guida” data da Dio per l’intera umanità. Egli sollecita ogni uomo a decidersi in ordine alla sua persona e al suo Vangelo di salvezza. Il Lezionario prevede i seguenti brani scritturistici: Lettura: Giosuè 24,1-2a.15b-27; Salmo 104; Epistola: 1Tessalonicesi 1,2-10; Vangelo: Giovanni 6,59-69. Alla Messa vespertina del sabato viene proclamato: Giovanni 20,11-18 quale Vangelo della Risurrezione. I canti e le orazioni della Messa sono quelli della XV domenica del Tempo “per annum” nel Messale ambrosiano.  

 2. Vangelo secondo Giovanni 6,59-69
 
In quel tempo. Il Signore 59Gesù disse queste cose, insegnando nella sinagoga a Cafàrnao. 60Molti dei suoi discepoli, dopo aver ascoltato, dissero: «Questa parola è dura! Chi può ascoltarla?». 61Gesù, sapendo dentro di sé che i suoi discepoli mormoravano riguardo a questo, disse loro: «Questo vi scandalizza? 62E se vedeste il Figlio dell’uomo salire là dov’era prima? 63È lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla; le parole che io vi ho detto sono spirito e sono vita. 64Ma tra voi vi sono alcuni che non credono». Gesù infatti sapeva fin da principio chi erano quelli che non credevano e chi era colui che lo avrebbe tradito. 65E diceva: «Per questo vi ho detto che nessuno può venire a me, se non gli è concesso dal Padre».    
66Da quel momento molti dei suoi discepoli tornarono indietro e non andavano più con lui. 67Disse allora Gesù ai Dodici: «Volete andarvene anche voi?». 68Gli rispose Simon Pietro: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna 69e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il santo di Dio».    

3. Commento liturgico-pastorale
 
Il brano riporta la parte conclusiva del discorso “del pane della vita” che occupa l’intero sesto capitolo del Vangelo secondo Giovanni. In particolare i vv 59-65, frammentati da alcune osservazioni dell’Evangelista, riportano le parole di Gesù mentre i vv 67-69 riferiscono la decisione di Pietro e dei dodici di continuare a seguirlo.    
Ambientato nella sinagoga di Cafarnao l’impegnativo discorso di autorivelazione di Gesù quale “pane disceso dal cielo” (v 58) trova resistenza, in qualche modo inaspettata, nella stessa cerchia dei suoi “discepoli” (v 60). A costoro Gesù ribatte affermando l’incapacità della “carne”, vale a dire dell’uomo nella sua dimensione puramente terrena, di accogliere le sue parole relative, s’intende, al dono della “sua carne per la vita del mondo” e che “sono spirito e sono vita” (v 63). È necessario, perciò, che il Padre, con il suo dono di grazia, apra i cuori all’intelligenza della fede (v 65).   
I vv 66-69, infine, riportano la constatazione che, “da quel momento, molti dei suoi discepoli” si allontanano definitivamente da Gesù (v 66) dicendo così il loro rifiuto a credere in lui come il portatore della “vita eterna” nel mondo. L’attenzione ora si sposta sulla cerchia dei Dodici, i più intimi e vicini a Gesù. Egli, infatti, è ben consapevole che l’incredulità e, perfino il tradimento, può attecchire anche nei cuori dei suoi apostoli!  
Per questo alla domanda di Gesù ai Dodici: «Volete andarvene anche voi» (v 67) risponde, a nome di tutti, Pietro professando la fede in lui: «tu solo hai parole di vita eterna» (vv 67-68) e la conseguente scelta di continuare a seguirlo e a stare con lui.    
Nel ripercorrere la storia della salvezza culminata nella Pasqua del Signore e nell’effusione del suo Spirito, siamo inevitabilmente portati a verificare, come Chiesa e come singoli, la nostra “scelta” in ordine alla fede, vale a dire, all’adesione al Signore
Gesù e a quanto lui ha compiuto per la nostra salvezza. Il testo evangelico ci pone, al pari dei discepoli che attorniavano Gesù nella sinagoga di Cafarnao, di fronte alla scelta o al rifiuto di lui che ha la “pretesa” di essere il Salvatore unico del mondo anzi di essere l’unico a poter donare il cibo di “vita eterna” che è la sua stessa “carne”.     Gesù, il Rivelatore unico del Padre, nutre anzitutto con il cibo della sua Parola, resa viva nello Spirito, come a dire che egli non è soltanto l’inviato di Dio, ma lui stesso è la vita che Dio, il Padre, dona al mondo. Siamo così messi di fronte all’alternativa: credere in Gesù e, ricevere con la sua Parola il dono della “vita eterna”, oppure rimanere nell’inconsistenza della “carne”, della nostra umana presunzione.    
La Lettura, al riguardo, ci presenta la scelta a cui Giosuè sottopose il popolo d’Israele in un momento cruciale della sua storia: «Scegliete oggi chi servire: se gli dei che i vostri padri hanno servito», o “il Signore” (Giosuè 24,15). Il testo biblico ci informa che tutto il popolo rispose a Giosuè: «Noi serviremo il Signore, nostro Dio, e ascolteremo la sua voce» (v 24).    
È la risposta che in ogni momento tutti noi siamo chiamati a dare a Gesù, scegliendo di seguire lui, il suo Vangelo e, di conseguenza, rifiutando ogni altra sequela, ogni altro “vangelo”. Una simile risposta va evidentemente data con libera decisione ma non senza l’impulso divino, quello che ha spinto Pietro, portavoce della Chiesa, a dichiarare con generoso moto del cuore: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna» (Giovanni 6,68).    
La stessa dinamica viene registrata nella prima comunità cristiana di Tessalonica. L’Apostolo loda la prontezza dei discepoli di quella città nel “convertirsi dagli idoli” a Dio, per servire il “Dio vivo e vero” (Epistola: 1Tessalonicesi 1,9). Questa prontezza però è propiziata dal fatto che essi sono stati “amati da Dio e scelti da lui” (v 4). In tal modo la predicazione evangelica di Paolo è stata pienamente accolta «in mezzo a grandi prove, con la gioia dello Spirito Santo» (v 6).    
Questa scelta è a noi posta ogni domenica, nella celebrazione eucaristica, nella quale il Signore che ha parole di vita eterna, nutre questa “vita” da noi accolta nella fede, con il suo stesso Corpo e il suo Sangue. Nessuno si “scandalizzi” di fronte a ciò, nessuno abbandoni il Signore, ma supplichiamo il Padre, perché con la grazia dello Spirito ci attiri irresistibilmente verso il suo Figlio Gesù “il santo di Dio”, l’unico a possedere e a donare al mondo “parole di vita eterna”.

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4 luglio - VI Domenica dopo Pentecoste

 

1. La sesta domenica “dopo Pentecoste”      

L’alleanza stipulata da Mosè tra Dio e Israele rappresenta un momento essenziale nel graduale svelarsi del volere salvifico di Dio. Essa, in realtà, prelude all’Alleanza “nuova ed eterna” sancita da Gesù nel sangue sparso sulla croce. Il Lezionario prevede i seguenti brani biblici: Lettura: Esodo 24,3-18; Salmo 49; Epistola: Ebrei 8,6-13a; Vangelo: Giovanni 19,30-35. Il Vangelo della Risurrezione da proclamare nella Messa vespertina del sabato è presa da: Matteo 28,8-10. Le orazioni e i canti per la Messa sono quelli della XIV Domenica del Tempo “per annum” nel Messale ambrosiano.

  


2. Vangelo secondo Giovanni 19,30-35    

In quel tempo. 30Dopo aver preso l’aceto, Gesù disse: «È compiuto!». E, chinato il capo, consegnò lo spirito. 31Era il giorno della Parasceve e i Giudei, perché i corpi non rimanessero sulla croce durante il sabato – era infatti un giorno solenne quel sabato –, chiesero a Pilato che fossero spezzate loro le gambe e fossero portati via. 32Vennero dunque i soldati e spezzarono le gambe all’uno e all’altro che erano stati crocifissi insieme con lui. 33Venuti però da Gesù, vedendo che era già morto, non gli spezzarono le gambe, 34ma uno dei soldati con una lancia gli colpì il fianco, e subito ne uscì sangue e acqua. 35Chi ha visto ne dà testimonianza e la sua testimonianza è vera; egli sa che dice il vero, perché anche voi crediate.    


3. Commento liturgico-pastorale  
Il testo evangelico riporta al v 30 la scena solenne della morte del Signore da lui stesso intesa, con le ultime parole: “È compiuto!”, quale compimento dell’”opera” che il Padre gli ha affidato: la salvezza del mondo. La sua morte è significata dal gesto di “chinare il capo” e di “consegnare lo spirito” quale preludio all’effusione dello Spirito Santo estensore della salvezza sino alla fine dei tempi.    
I vv 31-32 relativi alla richiesta fatta a Pilato dai capi del popolo di rimuovere i corpi dei crocifissi, a motivo dell’avvio delle celebrazioni pasquali, preparano l’evento della trafittura del “fianco” di Gesù e della misteriosa fuoriuscita di “sangue e acqua” (vv 33-34), particolari, questi, riferiti dal solo Giovanni, con il dichiarato intento di condurre il lettore e l’ascoltatore a “credere” (v 35).    
Particolari che, a ben guardare, vengono illustrati dall’evangelista sulla base di precisi riferimenti biblici. A Gesù, infatti, i soldati “non spezzarono le gambe” compiendo in tal modo ciò che la Scrittura prescriveva a riguardo dell’agnello pasquale (Esodo 12,46), ma con una lancia Gesù viene colpito al fianco nella direzione del cuore e, da quella apertura uscì “sangue e acqua” e verso di essa, commenterà l’evangelista al v 37: «volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto» (cfr. Zaccaria 12,10) indicando con ciò l’adesione di tutte le genti a Gesù.    
Circa la fuoriuscita del sangue e dell’acqua essa ha dato origine a varie interpretazioni anche simboliche. Il “sangue” simbolo della vita dice il dono che Gesù fa di sé, della sua vita, come vero agnello pasquale per la salvezza del mondo. L’acqua significa il dono dello Spirito promesso da Gesù per condurre tutti a credere in lui, e così potersi immergere nella salvezza racchiusa nella sua morte.    
Nel ripercorrere l’intero cammino della storia della salvezza scaturita dal cuore della Trinità la presente domenica pone in risalto la figura e l’opera di Mosè quale guida scelta da Dio non solo per condurre fuori dalla schiavitù d’Egitto il suo popolo, ma soprattutto per fare di quella gente da lui stesso liberata, il “suo” proprio popolo, quello che gli appartiene e al quale egli vuole legarsi con un vincolo indistruttibile qual è l’Alleanza.    
Con essa Dio si impegna a essere sempre “con” il suo popolo, al quale dona una “Legge” con precetti e norme che lo distinguono tra tutti i popoli della terra. Il popolo da parte sua è tenuto a mantenere fede all’alleanza mediante l’obbedienza alla Legge data da Dio: «Tutti i comandamenti che il Signore ha dato, noi li eseguiremo» (Esodo 24,3).    
Mosè, sigilla l’alleanza con l’offerta “di olocausti e sacrifici di giovenche” il cui sangue versa sull’altare e con il quale asperge il popolo a indicare il suggello perenne e infrangibile del loro legame. «Ecco il sangue dell’alleanza che il Signore ha concluso con voi sulla base di tutte queste parole» (Esodo 24,8).    
Questo evento carico di conseguenze  per la storia di Israele, è in realtà come un annuncio profetico dell’”alleanza migliore” (Epistola: Ebrei 8,6), immutabile e definitiva, stipulata tra Dio e l’intera umanità per la “mediazione” non di un uomo per quanto grande qual è Mosè, ma di Gesù Cristo, il Figlio stesso di Dio!    
Diversamente da Mosè che stabilì l’alleanza nel sangue di animali inconsapevoli, Gesù la sancì, con piena consapevolezza, nel suo sangue: “Sangue dell’Alleanza” (cfr. Matteo 26,28; Marco 14,24). Per questo il suo sangue, sparso sulla croce e fuoriuscito dal suo costato aperto dalla lancia del soldato (Giovanni 19,34), insieme con l’acqua, simbolo dello Spirito Santo è, perciò, il vincolo nuovo e indistruttibile che, da ora in poi, legherà per sempre Dio al suo popolo, quello raggiunto dal sangue vivificante del suo Figlio e che porta impresso “nella mente e nel cuore la nuova Legge” (cfr. Ebrei 8,10), lo Spirito dell’amore!    
Gesù dunque è il “vero” Mosè, l’unico intermediario o “mediatore” tra Dio e gli uomini che egli unisce in un vincolo “nuovo ed eterno”, che ha come segno perenne ed efficace il suo “sangue”, vale a dire la sua vita offerta in obbedienza al Padre e per l’amore bruciante per gli uomini suoi fratelli.    
Nella partecipazione all’Eucaristia, bevendo al calice, quello del sangue “per la nuova ed eterna Alleanza”, tutti avvertiamo la bellezza di appartenere al popolo il cui unico Dio è il Signore. A lui, perciò, la Chiesa in preghiera così si rivolge: «Tu sei, o Dio, la mia protezione, il mio rifugio, la salvezza della mia vita. Tu sei la mia forza e la mia difesa; nel tuo nome mi guidi e mi sostieni» (canto All’Ingresso).    
Nello stesso tempo, avvertiamo la responsabilità di tale appartenenza e il conseguente impegno di “fedeltà”. Per questo preghiamo: «Larga scenda, o Dio, la tua desiderata benedizione e confermi i cuori dei credenti, perché non si allontanino mai dal tuo volere e si allietino sempre dei tuoi doni generosi» (orazione A conclusione della Liturgia della Parola).

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In queste pagine potete trovare il commento alla liturgia domenicale e festiva secondo il RITO AMBROSIANO, curata da don Alberto Fusi.

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