1. L’ottava domenica “dopo Pentecoste”
L’istituzione della monarchia nel popolo d’Israele, di cui parla la Lettura vetero-testamentaria, rappresenta un ulteriore sviluppo della storia della salvezza. Essa annunzia l’inaugurazione, nella Pasqua del Signore, del regno di Dio che non avrà mai fine. I testi biblici offerti dal Lezionario sono: Lettura: 1Samuele 8,1-22a; Salmo 88; Epistola: 1Timoteo 2,1-8; Vangelo: Matteo 22,15-22. Alla Messa vigiliare del sabato viene proclamato: Luca 24,13-35, quale Vangelo della Risurrezione. Le orazioni e i canti per la Messa sono quelli della XVI Domenica del Tempo “per annum” nel Messale ambrosiano.
2. Vangelo secondo Matteo 22,15-22
In quel tempo. 15I farisei se ne andarono e tennero consiglio per vedere come cogliere in fallo il Signore Gesù nei suoi discorsi. 16Mandarono dunque da lui i propri discepoli, con gli erodiani, a dirgli: «Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità. Tu non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno. 17Dunque, di’ a noi il tuo parere: è lecito, o no, pagare il tributo a Cesare?». 18Ma Gesù, conoscendo la loro malizia, rispose: «Ipocriti, perché volete mettermi alla prova? 19Mostratemi la moneta del tributo». Ed essi gli presentarono un denaro. 20Egli domandò loro: «Questa immagine e l’iscrizione, di chi sono?». 21Gli risposero: «Di Cesare». Allora disse loro: «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio». 22 A queste parole rimasero meravigliati, lo lasciarono e se ne andarono.
3. Commento liturgico-pastorale
Il brano evangelico fa parte di tutta una serie di dispute e di contrasti che di volta in volta oppongono Gesù ad avversari via via più numerosi e mal disposti nei suoi confronti. È il caso dei farisei che si radunano per studiare le modalità al fine di cogliere «in fallo il Signore Gesù nei suoi discorsi» (v 15).
Di qui la domanda insidiosa fatta a Gesù circa la liceità o meno del tributo da pagare all’imperatore romano (v 17) e che non permetteva via di scampo. Un sì avrebbe attirato su Gesù la condanna di misconoscere la sovranità di Dio su Israele. Un no avrebbe rappresentato un atto sovversivo contro il potere costituito.
La domanda è preceduta da una specie di captatio benevolentiae (v 16) che, pur viziata da intenzione malvagia, alla fine diviene un pubblico riconoscimento sulla predicazione di Gesù, libera nei confronti di tutti e specialmente conforme alla volontà di Dio.
La risposta di Gesù dapprima smaschera le cattive intenzioni del cuore dei suoi interlocutori (v 18) e, una volta avuta tra mano la moneta del tributo che i Romani esigevano ogni anno, da tutti, a partire dai 12 ai 65 anni, scolpisce e fissa il suo insegnamento: «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio» (v 21). Il v 22 registra la reazione dei suoi cattivi interlocutori: la “meraviglia” fatta di sorpresa e di amarezza per aver fallito nel loro intento.
Il brano evangelico va ora collocato, con gli altri testi biblici oggi proclamati, nel tempo liturgico in atto, vale a dire quello “Dopo Pentecoste” che fa ripercorrere l’opera divina di salvezza. Una tappa di notevole importanza nel cammino della salvezza è indubbiamente segnata nell’introduzione, nel popolo d’Israele, della “monarchia” al tempo del profeta Samuele e di cui ci riferisce la Lettura.
Fino a quel momento non è esistito in Israele, a differenza degli altri popoli, la figura del “re” terreno in quanto Jahweh, solo, regnava sul popolo da lui conquistato «con mano potente e braccio forte», strappato al faraone d’Egitto, liberato da tutti i nemici, dotato di una terra dove “scorre latte e miele”. Perciò Israele poteva dire in tutta verità: «Sei tu, Signore, la guida del tuo popolo» (Ritornello al Salmo responsoriale).
Nelle parole di Dio a Samuele si avverte come la delusione dell’Altissimo nei confronti del suo popolo: «Ascolta la voce del popolo, qualunque cosa ti dicano, perché non hanno rigettato te, ma hanno rigettato me, perché io non regni più su di loro» (1Samuele 8,7).
Della concezione riguardante la sovranità esclusiva di Jahweh su Israele si avverte ancora l’eco nella domanda-trabocchetto che i farisei fanno a Gesù: «È lecito, o no, pagare il tributo a Cesare?» (Matteo 22,17). È un modo di pensare che ha un valore non solo politico ma, come prima si ricordava, anche “teologico” perché evidenzia l’unicità di Israele a partire proprio dal suo essere “di” Dio, sua proprietà. Sicché non si poteva pensare che questo popolo avesse altro re al di fuori di Jahweh.
È quanto sostenevano al tempo di Gesù, anche con l’insurrezione armata contro i Romani, il gruppo degli Zeloti! Nella sua risposta «Rendete a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio» Gesù dà un’indicazione, tra l’altro, valida per tutti i tempi. Egli riconosce che “Cesare” ha e detiene un vero potere, quello significato nella “immagine” e nella “iscrizione” impresse sulla “moneta del tributo”.
Così è per la comunità cristiana delle origini. L’apostolo Paolo riconosce il potere civile e, per questo, raccomanda che «si facciano domande, ordinando suppliche, preghiere e ringraziamenti… per i re e per tutti quelli che stanno al potere» (Epistola: 1Tim 2,1).
Il cuore della risposta del Signore è però l’affermazione su Dio, sulla sua sovranità che non è significata, come per quella provvisoria di Cesare, da un’immagine impressa sul metallo, ma risplende nel cielo, in terra, in tutto il creato, su ogni uomo, anche su Cesare. Così Gesù ha insegnato ai suoi discepoli a rispettare, a onorare e a obbedire a coloro che esercitano sulla terra, il potere, ma a vivere la giusta proporzione tra il “potere terreno” esercitato dai re, di per sé provvisorio e, dunque, limitato, e quello divino che è su tutto e su tutti e per sempre, cosa che gli riconoscono anche i suoi avversari (v 16).
Tra la sovranità esercitata dai re di questo mondo e che spesso è fuorviante e tirannica (cfr. 1Samuele) e la sovranità di Dio, il discepolo di Gesù d’ora in poi sa a chi riconoscere il primato e a chi “pagare il tributo”. A «Cesare quello a lui dovuto perché possa svolgere il suo servizio a favore del bene comune, a Dio il tributo di tutto sé stesso, il tributo dell’obbedienza e della stessa vita». È la norma “apostolica” alla quale occorre attenersi. Si rispetta e si prega per l’autorità civile «perché possiamo condurre una vita calma e tranquilla, dignitosa e dedicata a Dio» (1Timoteo 2,2).
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