16 giugno 2013 - IV Domenica dopo Pentecoste

 

Nel suo cammino verso Cristo, vertice dell’universale salvezza, la storia degli uomini, luogo della progressiva rivelazione divina, fa l’esperienza drammatica del peccato, dal quale solo la fede è in grado di liberarla.

 

Il Lezionario

Riporta i seguenti brani biblici: Lettura: Genesi 4,1-16; Salmo: 49 (50); Epistola: Ebrei 11,1-6; Vangelo: Matteo 5,21-24. Il Vangelo della Risurrezione, da proclamare alla Messa vigiliare del sabato, è preso da Luca 24,9-12. (Le orazioni e i canti della Messa sono quelli propri dell’XI Domenica del Tempo «per annum» nel Messale Ambrosiano).

Lettura del libro della Genesi (4,1-16)

                                                           

In quei giorni. 1Adamo conobbe Eva sua moglie, che concepì e partorì Caino e disse: «Ho acquistato un uomo grazie al Signore». 2Poi partorì ancora Abele, suo fratello. Ora Abele era pastore di greggi, mentre Caino era lavoratore del suolo.

3 Trascorso del tempo, Caino presentò frutti del suolo come offerta al Signore, 4mentre Abele presentò a sua volta primogeniti del suo gregge e il loro grasso. Il Signore gradì Abele e la sua offerta, 5ma non gradì Caino e la sua offerta. Caino ne fu molto irritato e il suo volto era abbattuto. 6Il Signore disse allora a Caino: «Perché sei irritato e perché è abbattuto il tuo volto? 7Se agisci bene, non dovresti forse tenerlo alto? Ma se non agisci bene, il peccato è accovacciato alla tua porta; verso di te è il suo istinto, e tu lo dominerai».

8 Caino parlò al fratello Abele. Mentre erano in campagna, Caino alzò la mano contro il fratello Abele e lo uccise. 9Allora il Signore disse a Caino: «Dov’è Abele, tuo fratello?». Egli rispose: «Non lo so. Sono forse io il custode di mio fratello?». 10Riprese: «Che hai fatto? La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo! 11Ora sii maledetto, lontano dal suolo che ha aperto la bocca per ricevere il sangue di tuo fratello dalla tua mano. 12Quando lavorerai il suolo, esso non ti darà più i suoi prodotti: ramingo e fuggiasco sarai sulla terra». 13Disse Caino al Signore: «Troppo grande è la mia colpa per ottenere perdono. 14Ecco, tu mi scacci oggi da questo suolo e dovrò nascondermi lontano da te; io sarò ramingo e fuggiasco sulla terra e chiunque mi incontrerà mi ucciderà». 15Ma il Signore gli disse: «Ebbene, chiunque ucciderà Caino subirà la vendetta sette volte!». Il Signore impose a Caino un segno, perché nessuno, incontrandolo, lo colpisse. 16Caino si allontanò dal Signore e abitò nella regione di Nod, a oriente di Eden.

Il brano riferisce in primo luogo il concepimento e la nascita dei due figli di Adamo ed Eva, ossia della coppia delle origini. Si tratta di Caino, il primogenito, occupato nell’agricoltura, e di Abele, dedito alla pastorizia (vv. 1-2). In occasione dell’offerta cultuale a Dio dei prodotti della terra, da parte di Caino, e di animali del gregge, da parte di Abele, Dio inspiegabilmente gradisce l’offerta di Abele e non quella di Caino, suscitando il suo risentimento (vv. 3-5). A lui Dio raccomanda di non lasciarsi dominare dagli istinti cattivi e, dunque, dal peccato (vv. 6-7). Segue il racconto dell’uccisione di Abele (v. 8) e dell’interrogatorio e dell’accusa rivolta da Dio a Caino su cui si abbatte la maledizione e la condanna a vagare senza meta sulla terra (vv. 9-12). Caino, quindi, riconosce la colpa e manifesta il suo timore di andare incontro alla morte violenta da cui Dio, però, intende proteggerlo tramite un segno misterioso posto su di lui (vv. 13-16).

 

Lettera agli Ebrei (11,1-6)

1La fede è fondamento di ciò che si spera e prova di ciò che non si vede. 2Per questa fede i nostri antenati sono stati approvati da Dio.

3Per fede, noi sappiamo che i mondi furono formati dalla parola di Dio, sicché dall’invisibile ha preso origine il mondo visibile.

4Per fede, Abele offrì a Dio un sacrificio migliore di quello di Caino e in base ad essa fu dichiarato giusto, avendo Dio attestato di gradire i suoi doni; per essa, benché morto, parla ancora.
5Per fede, Enoc fu portato via, in modo da non vedere la morte; e non lo si trovò più, perché Dio lo aveva portato via. Infatti, prima di essere portato altrove, egli fu dichiarato persona gradita a Dio. 6Senza la fede è impossibile essergli graditi; chi infatti si avvicina a Dio, deve credere che egli esiste e che ricompensa coloro che lo cercano.

 

Vengono oggi proclamati alcuni versetti del capitolo undicesimo, interamente dedicato alla presentazione di alcuni personaggi veterotestamentari ritenuti modelli di fede, sulla quale essi hanno fondato la loro speranza e, sono stati perciò «graditi a Dio» (vv. 1-2). Il v. 3 è una dichiarazione di fede in Dio la cui parola ha creato tutto ciò che esiste. Vengono, quindi, presentati Abele (v. 4) ed Enoc, misterioso personaggio che compare in Genesi 5,24 e del quale non si ha notizia circa la sua morte. Il brano si conclude al v. 6 con il ribadire che la fede è necessaria per essere graditi a Dio.

 

Lettura del Vangelo secondo Matteo (5,21-24)

In quel tempo. Il Signore Gesù disse: 21«Avete inteso che fu detto agli antichi: “Non ucciderai”; chi avrà ucciso dovrà essere sottoposto al giudizio. 22Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello dovrà essere sottoposto al giudizio. Chi poi dice al fratello: “Stupido”, dovrà essere sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: “Pazzo”, sarà destinato al fuoco della Geènna.

23Se dunque tu presenti la tua offerta all’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, 24lascia lì il tuo dono davanti all’altare, va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna a offrire il tuo dono».

Il brano fa parte del più ampio “discorso del monte” (Matteo 5,1-7,29), di cui si legge qui la prima delle antitesi tra la giustizia che Gesù è venuto a offrire al mondo e la legge di Mosè (v. 21).  Si tratta del comandamento «Non uccidere» (cfr. Esodo 20,13), la cui trasgressione è debitamente sanzionata, a cui Gesù oppone la sua legge che amplia il comando antico fino ad abbracciare i sentimenti di ira, le parole ingiuriose e offensive verso il prossimo. Tali comportamenti sono censurati come in un crescendo di punizioni (v. 22). Segue, quindi, il comando di provvedere all’eventuale riconciliazione prima di rendere culto a Dio con l’offerta di sacrifici (vv. 23-24).

 

Commento liturgico-pastorale

Alla luce dello Spirito Santo, dono plenario della Pasqua, ripercorriamo, in questa domenica, un momento della storia della salvezza che ha il suo senso ultimo e il suo compimento proprio nella Pasqua del Signore.

Si tratta dell’esperienza del peccato a cui l’uomo va incontro fin dalle origini come documenta la Lettura incentrata sull’uccisione di Abele da parte del fratello Caino, figli della coppia dei nostri Progenitori, essi stessi caduti presso l’albero del giardino.

È come se la Scrittura volesse dirci con autorevolezza che il peccato, origine di ogni umana tristezza e sciagura, è una misteriosa potenza «accovacciata alla tua porta» (Genesi 4,7), ossia perennemente in agguato presso la mente e il cuore di ogni uomo. Di qui l’invito a dominare l’istinto malvagio che dimora in ognuno di noi e ci induce a concepire pensieri malvagi e odi mortali verso il nostro stesso sangue al pari di Caino che, avvertendo la predilezione di Dio nei confronti di suo fratello Abele, concepisce e fa crescere in sé un tale risentimento fino a che «alzò la mano contro il fratello Abele e lo uccise» (v. 8).  

La rivelazione portata a compimento dal Figlio di Dio, da Gesù, oltrepassa di gran lunga ciò che la rivelazione iniziale aveva detto a proposito dell’esperienza del peccato nell’uomo qual è da ritenere, ad esempio, la trasgressione del divino comando: «Non ucciderai» (Vangelo: Matteo 5,21). Trasgressione che viene adeguatamente condannata e punita. Sulla bocca del Signore, invece, ogni manifestazione scomposta dell’ira, le parole ingiuriose e umilianti rivolte al fratello, ossia al nostro prossimo, sono equiparate all’omicidio e, quindi, ricevono la pena riservata agli omicidi qui in terra e, nell’eternità, la rovina significata nell’immagine del fuoco della Geènna (v. 22). Come diventa, perciò, più impegnativo per i discepoli del Signore il comando divino a dominare l’istinto malvagio del cuore (Genesi 4,7)!

Siamo, dunque, di fronte a un nuovo modo di intendere e mettere in pratica la disposizione della Legge. Nella Legge che Gesù dà ai suoi discepoli si esige, infatti, una giustizia superiore a quella richiesta dalla Legge antica. A noi, discepoli di colui che è morto per liberarci dal peccato, è chiesta un’assunzione, nella nostra condotta, di quegli atteggiamenti di carità e di misericordia propri del Signore che lo hanno spinto a dare la vita per i suoi stessi uccisori...

Di conseguenza il rapporto con il fratello supera di gran lunga l’aspetto comando/trasgressione/pena, fino a diventare un caso così serio al punto da determinare il giudizio finale di Dio sulla nostra vita. Un caso così serio, da rendere agli occhi di Dio sgradito il nostro stesso culto, così come non gradì l’offerta di Caino perché proveniva da un cuore infestato dalla malvagità, dall’odio, dal risentimento (v.5).

Per questo il Signore ci dice che l’esercizio del culto divino è reso vano agli occhi di Dio se, in presenza di contrasti con il nostro prossimo, non provvediamo, prima, a riconciliarci con chi ha «qualche cosa contro di te» (Matteo 5, 23-24). Comprendiamo, perciò, che il culto a Dio gradito consiste nella nostra obbedienza ai suoi comandi che sono tutti racchiusi in quello della carità come abbiamo più volte ripetuto nel Salmo: «Sacrificio gradito al Signore è l’amore per il fratello». L’Epistola, però, ci avverte che non ci sarà possibile dominare l’istinto del peccato che ci assedia e tanto meno essere a Dio graditi come lo furono Abele ed Enoc (Cfr. Ebrei 11, 4.5) e soprattutto il suo amato Figlio, se non avremo in noi il dono della fede in lui, su cui fondare ogni nostra certezza e ogni nostra attesa (cfr. v. 1). A Dio che dimostra «ogni giorno il suo amore di padre» donandoci «l’esistenza, la forza di agire e la grazia di vivere» (Prefazio), ci rivolgiamo con filiale fiducia dicendo: «Verso le tue creature, o Dio, tu preferisci la misericordia allo sdegno; vedi quanto siamo deboli ed incerti e fa’ prevalere sulla nostra povertà la luce e la forza della tua grazia» (Orazione A Conclusione della Liturgia della Parola).

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9 Giugno 2013 – III domenica dopo Pentecoste


Il dono dello Spirito, frutto della Pasqua, ci guida in ogni tempo nel ripercorrere la storia della nostra salvezza di cui, questa domenica, ci propone il momento gravido di conseguenze qual è la caduta dell’umanità in Adamo e la promessa divina del suo riscatto in Cristo.

 

Il Lezionario

 

Prevede la proclamazione dei seguenti brani biblici: Lettura: Genesi 3,1-20; Salmo 129 (130); Epistola: Romani 5,18-21; Vangelo: Matteo 1,20b-24b. Alla Messa vigiliare del sabato il Vangelo della Risurrezione è preso da Marco 16,1-8a. (Le orazioni e i canti della Messa sono quelli propri della X  Domenica del Tempo “per annum” nel Messale Ambrosiano).

 

Lettura del libro della Genesi (3,1-20)

 

In quei giorni. 1Il serpente era il più astuto di tutti gli animali selvatici che Dio aveva fatto e disse alla donna: «È vero che Dio ha detto: “Non dovete mangiare di alcun albero del giardino”?». 2Rispose la donna al serpente: «Dei frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare, 3ma del frutto dell’albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: “Non dovete mangiarne e non lo dovete toccare, altrimenti morirete”». 4Ma il serpente disse alla donna: «Non morirete affatto! 5Anzi, Dio sa che il giorno in cui voi ne mangiaste si aprirebbero i vostri occhi e sareste come Dio, conoscendo il bene e il male». 6Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradevole agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza; prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito, che era con lei, e anch’egli ne mangiò. 7Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e conobbero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture.

8 Poi udirono il rumore dei passi del Signore Dio che passeggiava nel giardino alla brezza del giorno, e l’uomo, con sua moglie, si nascose dalla presenza del Signore Dio, in mezzo agli alberi del giardino. 9Ma il Signore Dio chiamò l’uomo e gli disse: «Dove sei?». 10Rispose: «Ho udito la tua voce nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto». 11Riprese: «Chi ti ha fatto sapere che sei nudo? Hai forse mangiato dell’albero di cui ti avevo comandato di non mangiare?». 12Rispose l’uomo: «La donna che tu mi hai posto accanto mi ha dato dell’albero e io ne ho mangiato». 13Il Signore Dio disse alla donna: «Che hai fatto?». Rispose la donna: «Il serpente mi ha ingannata e io ho mangiato”.

14 Allora il Signore Dio disse al serpente: /«Poiché hai fatto questo, / maledetto tu fra tutto il bestiame / e fra tutti gli animali selvatici! /Sul tuo ventre camminerai / e polvere mangerai / per tutti i giorni della tua vita. / 15Io porrò inimicizia fra te e la donna, / fra la tua stirpe e la sua stirpe: / questa ti schiaccerà la testa / e tu le insidierai il calcagno».16Alla donna disse: / «Moltiplicherò i tuoi dolori / e le tue gravidanze, / con dolore partorirai figli. / Verso tuo marito sarà il tuo istinto, / ed egli ti dominerà»./ 17All’uomo disse: «Poiché hai ascoltato la voce di tua moglie e hai mangiato dell’albero di cui ti avevo comandato: “Non devi mangiarne”, / maledetto il suolo per causa tua! / Con dolore ne trarrai il cibo / per tutti i giorni della tua vita. / 18Spine e cardi produrrà per te / e mangerai l’erba dei campi. / 19Con il sudore del tuo volto mangerai il pane, / finché non ritornerai alla terra, / perché da essa sei stato tratto: / polvere tu sei e in polvere ritornerai!». / L’uomo chiamò sua moglie Eva, perché ella fu la madre di tutti i viventi.

 

Il racconto del peccato dell’uomo (=Adamo ed Eva) intende rispondere alla difficile domanda: da dove ha origine il male che c’è nel mondo? La risposta la si intravede a partire dalla figura del serpente, designato come la creatura «più astuta» (v. 1) e dal dialogo che egli intrattiene con la donna (vv. 1-5), nel quale insinua che la proibizione divina riguardante l’albero «che sta in mezzo al giardino» (v. 3) è dovuta al fatto che Dio non vuole che l’uomo diventi uguale a lui (v. 5). Il v. 6 narra la trasgressione da parte della donna e quindi del marito, che si cibano dell’albero proibito i cui frutti sono desiderabili «per acquistare saggezza», ottenere cioè di poter «conoscere il bene e il male» (v. 5), prerogativa esclusiva di Dio. In realtà, la trasgressione porta sì all’uomo la conoscenza, ma quella di «essere nudi», ossia la sua nativa condizione di creatura e, quindi, di fragilità. La percezione della nudità produce, nell’uomo caduto in peccato, la vergogna davanti a Dio, per cui cerca di nascondersi al suo sguardo (vv.8-10). Alle domande di Dio l’uomo risponde scaricando la responsabilità sulla donna (v. 12) e, questa, sul serpente (v. 13). Il v. 14 riporta il giudizio di Dio sul serpente al quale predice la totale sconfitta da parte della stirpe della donna (v. 15). Predizione, questa, chiamata il proto-vangelo, nel quale si annunzia la venuta del Figlio di Dio fatto uomo e nato da Maria, il quale è destinato a schiacciare la testa al serpente (v. 15). Il v. 16 indica nei dolori del parto e nel predominio dell’uomo sulla donna, il frutto del suo peccato, mentre per l’uomo (vv.17-19) la ricompensa per il peccato consisterà nella fatica per procurarsi cibo da un suolo divenuto arido e ostile e, infine, il suo dissolversi nella polvere da cui Dio lo aveva tratto. Il brano si conclude con l’imposizione del nome, da parte di Adamo, a sua moglie, che egli chiama Eva (v. 20).

 

Lettera di san Paolo apostolo ai Romani (5, 18-21)

 

Fratelli, 18come per la caduta di uno solo si è riversata su tutti gli uomini la condanna, così anche per l’opera giusta di uno solo si riversa su tutti gli uomini la giustificazione, che dà vita. 19Infatti come per la disobbedienza di un solo uomo tutti sono stati costituiti peccatori, così anche per l’obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti.

20La Legge poi sopravvenne perché abbondasse la caduta; ma dove abbondò il peccato, sovrabbondò la grazia. 21Di modo che come regnò il peccato nella morte, così regni anche la grazia mediante la giustizia per la vita eterna, per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore.

 

Nella prima parte del brano (vv. 18-19) l’Apostolo lega l’umanità intera alle conseguenze amare dovute alla caduta e alla disobbedienza di «uno solo» (= Adamo) come rappresentante dell’intera umanità condannata, quindi lega l’umanità intera alle conseguenze positive dovute all’«opera giusta» e alla «obbedienza di uno solo» (= Gesù Cristo) come rappresentante dell’intera umanità giustificata. Nei vv. 20-21, l’Apostolo, in modo paradossale, assegna alla Legge il compito della moltiplicazione delle cadute poiché l’uomo non è in grado di osservarla. La conseguenza è il dominio mortale del peccato sull’uomo il quale però, «per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore» viene come inondato dalla sovrabbondanza della grazia che lo libera e lo salva.

 

Lettura del Vangelo secondo Matteo (1,20b-24b)

                  

In quel tempo. 20bApparve in sogno a Giuseppe un angelo del Signore e gli disse: «Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo; 21ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati».

22Tutto questo è avvenuto perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: 23«Ecco, la vergine concepirà e darà alla luce un figlio: / a lui sarà dato il nome di Emmanuele, / che significa Dio con noi». 24Quando si destò dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore.

 

Il brano fa seguito a quanto era stato detto ai vv. 18-20a a proposito della scoperta, da parte di Giuseppe, che Maria, sua «promessa sposa si trovò incinta», come precisa l’evangelista, «per opera dello Spirito Santo». Cosa, questa, che viene rivelata a Giuseppe in sogno, con la precisazione che al bambino che nascerà egli dovrà imporre il  nome di Gesù il quale, come indica il suo nome (= Dio salva), dovrà «salvare il suo popolo dai suoi peccati» (vv. 20b-21). Segue il commento riguardante la gravidanza di Maria interpretata come compimento della parola divina rivolta dal profeta Isaia al re Acaz (cfr. Isaia 7,14). Il brano si chiude con la constatazione della pronta obbedienza di Giuseppe alle parole dell’angelo (v. 24).

 

Commento liturgico-pastorale

 

Lo Spirito Santo, dono supremo e plenario della Pasqua, illumina le nostre intelligenze e le abilita a penetrare in profondità nella Parola che il Signore ha predicato rivelando i disegni divini a favore degli uomini.

In particolare, in questa domenica, le Scritture ci conducono a riflettere con fede su un momento cruciale e fondativo dell’intera storia della salvezza, che ha come suo culmine e chiave interpretativa la croce e la risurrezione del Signore. Mi riferisco agli eventi che coinvolgono misteriosamente, dalle origini e fino alla fine dei tempi, ogni uomo che viene in questo mondo.

Eventi che si sono verificati presso «l’albero che sta in mezzo al giardino» (Lettura: Genesi, 3,3) e che hanno avuto come protagonista l’«uomo», indicato nel testo sacro con il nome di Adamo e di Eva.

Essi, stando all’insegnamento dell’Apostolo, rappresentano ogni uomo (cfr. Epistola: Romani 5,18.19) preda dell’insano desiderio di sfuggire alla realtà della nostra condizione di creature, e dunque, dipendenti dalle mani di Dio creatore, per diventare «come Dio» (v. 5), autonomi nel decretare «ciò che è bene e ciò che è male» (cfr. v. 5).

L’albero a cui la donna e l’uomo tendono la mano per impossessarsene rappresenta Dio stesso che svela all’uomo la sua condizione di nudità (v. 11), ossia la sua nativa totale indigenza e fragilità. Una condizione divenuta drammatica a causa del suo peccato, che lo fa fuggire davanti al suo Creatore, che lo divide in sé stesso opponendo l’uomo e la donna, che lo rende nemico della creazione, essa stessa condannata con lui e a causa sua, al punto da perdere la nativa esuberanza e divenire un suolo arido e ostile (v. 18). Condizione, quella dell’uomo peccatore, incamminato inesorabilmente verso il suo disfacimento nell’inconsistenza della polvere da cui le dita di Dio lo avevano tratto con sapienza e amore.

Su un tale desolante scenario, sempre sperimentabile ogni volta che l’uomo crede di essere come Dio, brilla, però, una parola di speranza che rivela che in lui l’amore per l’uomo ha la meglio sulla pur giusta condanna, come ci ricorda il ritornello al Salmo: «Il Signore è bontà e misericordia».

Sarà infatti proprio un uomo, della stirpe cioè della donna a schiacciare la testa del serpente (v. 15), che presso l’albero delle origini, così come presso ogni uomo e ogni donna, insinua il veleno che inclina a dubitare di Dio, del suo amore, sollecitandolo a sganciarsi da lui, a gridare la sua conoscenza, l’orgogliosa rivendicazione della propria autonomia.

Questa parola che risuona agli inizi della storia, si concretizza nel momento in cui «la vergine concepirà e darà alla luce un figlio» (Isaia 7,14), ovvero allorché Maria «darà alla luce un figlio», che verrà chiamato Gesù poiché egli «salverà il suo popolo dai suoi peccati» (Vangelo: Matteo 1, 21).

Il figlio della Vergine, Gesù di Nazaret, riversa sull’umanità intera di cui egli è il nuovo inizio, la sovrabbondanza della grazia, frutto della sua opera giusta ovvero della sua obbedienza che ribalta la disobbedienza di Adamo e, dunque, toglie di mezzo, la condanna che, da uno solo (Adamo) si è riversato su tutti, divenuti in lui peccatori(cfr. Romani 5,18-19).

L’obbedienza che da peccatori fa di tutti noi giusti agli occhi di Dio, come ben sappiamo, è l’opera giusta che il Figlio di Dio e della Vergine ha compiuto presso l’“albero” della Croce (cfr. vv. 20-21). Al contrario di Adamo, Gesù non ha steso la sua mano su Dio, ma nell’atto di dare l’ultimo respiro, si è definitivamente e totalmente rimesso nelle sue mani operando, in tal modo, la nostra salvezza, che ora celebriamo intatta nel mistero eucaristico e che ci fa esclamare: «Abbiamo accolto, o Dio, la tua misericordia in mezzo al tuo tempio» (Canto Al Vangelo).

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2 giugno 2013 – II Domenica dopo Pentecoste

Con le successive tre domeniche rappresenta un primo momento nel tempo “dopo Pentecoste”, dedicato alla riproposizione della storia della salvezza che ha il suo culmine nella Pasqua del Signore attualizzata nella celebrazione eucaristica. In particolare, questa domenica sviluppa il primo momento della storia della salvezza, vale a dire la creazione del mondo, considerata autentica prima autorivelazione di Dio.

 

Il Lezionario

 

Prescrive la proclamazione dei seguenti brani biblici rintracciabili nel Libro III del Lezionario ambrosiano intitolato: “Mistero della Pentecoste”: Lettura: Siracide 18,1-12; Salmo 135 (136); Epistola: Romani 8,18-25; Vangelo: Matteo 6,25-33. Luca 24,1-8 viene letto nella Messa vigiliare del sabato come Vangelo della Risurrezione. (Le orazioni e i canti della Messa sono quelli propri della IX domenica del Tempo “per annum” nel Messale ambrosiano).

 

Lettura del libro del Siracide (18,1-2.4-9a.10-13)

 

1Colui che vive in eterno ha creato l’intero universo. / 2Il Signore soltanto è riconosciuto giusto. / 4A nessuno è possibile svelare le sue opere / e chi può esplorare le sue grandezze? / 5La potenza della sua maestà chi potrà misurarla? / chi riuscirà a narrare le sue misericordie? / 6Non c’è nulla da togliere e nulla da aggiungere, / non è possibile scoprire le  meraviglie del Signore. /7Quando l’uomo ha finito, allora comincia, / quando si ferma, allora rimane perplesso. / 8Che cos’è l’uomo? A che cosa può servire? / Qual è il suo bene e il suo male? / 9aQuanto al numero dei giorni dell’uomo, cento anni sono già molti. / 10Come una goccia d’acqua nel mare e un granello di sabbia, / così questi pochi anni in un giorno dell’eternità. / 11Per questo il Signore è paziente verso di loro / ed effonde su di loro la sua misericordia. / 12Vede e sa che la loro sorte è penosa, / perciò abbonda nel perdono. / 13La misericordia dell’uomo riguarda il suo prossimo, / la misericordia del Signore ogni essere vivente.

 

Il brano riporta, quasi per intero, un canto di lode alla grandezza di Dio (vv. 1-7) che «ha creato l’intero universo» (v. 1); che tutto regge con la sua potenza (v. 3) e che rimane inaccessibile alla mente umana (vv. 4-7). I vv. 8-10 descrivono, al contrario, la piccolezza dell’uomo verso il quale Dio usa pazienza, misericordia e perdono (vv. 11-12).

 

Lettera di san Paolo apostolo ai Romani (8,18-25)

 

Fratelli, 18ritengo che le sofferenze del tempo presente non siano paragonabili alla gloria futura che sarà rivelata in noi. 19L’ardente aspettativa della creazione, infatti, è protesa verso la rivelazione dei figli di Dio. 20La creazione infatti è stata sottoposta alla caducità – non per sua volontà, ma per volontà di colui che l’ha sottoposta – nella speranza 21che anche la stessa creazione sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. 22Sappiamo infatti che tutta insieme la creazione geme e soffre le doglie del parto fino ad oggi. 23Non solo, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo. 24Nella speranza infatti siamo stati salvati. Ora, ciò che si spera, se è visto, non è più oggetto di speranza; infatti, ciò che uno già vede, come potrebbe sperarlo? 25Ma, se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza.

 

Il presente brano paolino, intende mettere in luce come la creazione, nel bene e nel male, partecipa alla sorte dell’uomo. Qui in particolare viene descritta in attesa spasmodica della manifestazione del felice destino che attende i figli di Dio, al quale anch’essa potrà prenderà parte (v. 19), essendo stata, suo malgrado, coinvolta nella disgrazia dell’uomo a causa del suo peccato (v. 20). Essa, paragonata a una partoriente, aspetta di essere liberata «dalla schiavitù della corruzione» tra gemiti e sofferenze (vv. 21- 22). Lo stesso gemito dell’uomo che attende la redenzione del corpo, ossia la sua partecipazione piena alla grazia dell’adozione filiale di cui possiede la primizia mediante il dono dello Spirito (v. 23), attesa vissuta nella speranza e nella perseveranza della fede (vv. 24-25).

 

Lettura del Vangelo secondo Matteo (6,25-33)

 

In quel tempo. Il signore Gesù ammaestrava le folle dicendo: «25Io vi dico: non preoccupatevi per la vostra vita, di quello che mangerete o berrete, né per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita non vale forse più del cibo e il corpo più del vestito? 26Guardate gli uccelli del cielo: non séminano e non mietono, né raccolgono nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non valete forse più di loro? 27E chi di voi, per quanto si preoccupi, può allungare anche di poco la propria vita? 28E per il vestito, perché vi preoccupate? Osservate come crescono i gigli del campo: non faticano e non filano. 29Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. 30Ora, se Dio veste così l'erba del campo, che oggi c'è e domani si getta nel forno, non farà molto di più per voi, gente di poca fede? 31Non preoccupatevi dunque dicendo: "Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo?". 32Di tutte queste cose vanno in cerca i pagani. Il Padre vostro celeste, infatti, sa che ne avete bisogno.33Cercate invece, anzitutto, il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta».

 

Il brano evangelico fa parte della sezione che riguarda il discorso del monte (5,1-7,29), ovvero del discorso programmatico del regno rivolto da Gesù alla folla e ai discepoli. Il brano, in particolare, è in qualche modo legato dal detto relativo al non preoccuparsi, al non affannarsi per le necessità materiali (v. 25, v. 27, v. 28, v. 31). Notiamo una prima esortazione del Signore (v. 25) a non affannarsi per le realtà materiali relative alla conservazione della vita (= mangiare e bere) e alla salvaguardia del corpo (= vestito). Esortazione conclusa da un interrogativo retorico sulla preminenza della vita e del corpo rispetto al cibo e al vestito. Seguono due paragoni riguardanti rispettivamente la preoccupazione per la vita con il richiamo agli «uccelli del cielo» nutriti da Dio stesso (v. 26) e la salvaguardia del corpo con il richiamo ai «gigli del campo» splendidamente “vestiti” da Dio stesso (v. 28-30). Con una seconda esortazione a guardarsi dall’affanno (v. 31) viene detto come un simile atteggiamento è proprio dei pagani, di quanti, cioè, non conoscono e, quindi, non credono nella provvidente paternità di Dio per ogni sua creatura (v. 32). Il brano culmina nell’esortazione finale del v. 33 a cercare invece «il regno di Dio e la sua giustizia».

 

Commento liturgico-pastorale

 

L’effusione dello Spirito Santo nel giorno di Pentecoste, culmine della Pasqua del Signore, anima la comunità dei credenti, la guida nella comprensione più profonda e nell’accoglienza più veritiera della Parola portata a noi dal Cielo dal Signore Gesù, il cui insegnamento è prolungato proprio dal suo Spirito.

Comprendiamo perciò che il mistero del Signore Gesù, a partire dalla sua venuta nel mondo, fino alla sua immolazione sulla croce, la sua risurrezione, il suo ritorno al Padre come Figlio obbediente, è il centro di una più ampia storia, quella della salvezza. Essa ha il suo esordio, a partire dalla creazione del mondo, nell’elezione e nell’alleanza con Israele e il suo  culmine nella Pasqua del Signore che la sua Chiesa  annunzia e attualizza Signore fino alla fine dei tempi.

La sapiente organizzazione della lettura liturgica della Scrittura, per il “Tempo dopo Pentecoste”, che prende avvio dal lunedì dopo la citata solennità e si conclude con il sabato che precede la prima domenica di Avvento, distribuisce in un così prolungato spazio temporale le più importanti tappe della storia della salvezza che ha la sua chiave interpretativa nella Pasqua del Signore perennemente attualizzata nella sua celebrazione sacramentale, ossia nella celebrazione eucaristica.

In questa seconda domenica del Tempo dopo Pentecoste, le Sacre Scritture ci illuminano sull’esordio della storia della salvezza, qual è considerata la creazione, ritenuta autentica “autorivelazione” di Dio.

I testi biblici, oggi proclamati, affermano con decisione che tutto ciò che esiste: il cosmo, la terra popolata di piante e di animali e, specialmente, l’uomo, in una parola, l’intero universo, è stato creato da «Colui che vive in eterno», da Dio (Lettura: Siracide 18,1).

A tale incrollabile certezza la Scrittura aggiunge un’ulteriore, decisiva precisazione: Dio non abbandona l’opera delle sue mani, ma si prende cura di ogni sua creatura: gli uccelli del cielo il cui nutrimento è preparato da Dio stesso, i gigli del campo ai quali Dio dona un “vestito” così magnifico al punto che «neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro» (Vangelo: Matteo 6,29).

Su tale precisazione si innesta la cura del tutto speciale di Dio verso l’uomo, che è senza dubbio creatura e, dunque, limitato nella consistenza del suo stesso essere: intelligente, ma non certo onnisciente, capace di valutare tra il bene e il male ma non autore e legislatore del bene e del male. L’uomo, infine, è per natura sua mortale. «Cento anni», infatti, per l’uomo «sono già molti» ovvero: «Come una goccia d’acqua nel mare e un granello di sabbia, così questi pochi anni in un giorno dell’eternità» (Siracide 18, 10).

È proprio questa innata fragilità a far battere di amore il cuore di Dio per l’uomo sua creatura, indubbiamente il capolavoro dell’intero universo perché reliquia autentica di lui! Un amore che il suo unico Figlio è venuto a predicare e a diffondere su questa terra rivelando che Dio, incommensurabile nella sua potenza e nella sua inviolabile e inaccessibile maestà (cfr. Siracide 18,5) è un Padre!

Un Padre che sa di che cosa ha davvero bisogno l’uomo oltre il pur necessario cibo e vestito (cfr. Matteo 6,32). L’uomo ha bisogno di perseguire quella giustizia che non è di questo mondo, ma che appartiene al mondo di Dio, ovvero al suo regno introdotto sulla terra nella persona del suo Figlio (v. 33).

Si intravede qui qualcosa di ben più grande del limite proprio dell’uomo in quanto creatura e che muove Dio alla pazienza, al perdono e alla misericordia verso la «sorte penosa dell’uomo» e, di conseguenza, di «ogni essere vivente» (Siracide 18, 11-13). Si tratta della caduta nel peccato. Una caduta che coinvolge il resto della creazione strettamente legata all’uomo per volere divino. Questa, infatti, «è stata sottoposta alla caducità» non certo per sua colpa, ma a causa del peccato che l’uomo ha commesso e continua a commettere nella sua fragilità (Epistola: Romani 8, 20). Sicché la speranza del riscatto della creazione da questa triste situazione di corruzione e di degrado dipende dall’attuazione di quella speranza data all’uomo dallo Spirito che parla al suo cuore. 

Egli lo assicura non solo della «redenzione del suo corpo», frutto della Pasqua del Signore, ma gli fa intravedere una meta impensabile alla sua piccolezza. Una meta che segna «l’ardente aspettativa della creazione… protesa verso la rivelazione dei figli di Dio» (v. 19), ossia l’«adozione a figli» (v. 23).

Non ci resta perciò che rimanere attoniti di fronte alla sapienza e alla grandezza di Dio, confidare nella sua premurosa bontà paterna, nella sua misericordia e indulgenza verso la nostra pochezza, credere con perseveranza che Dio può fare questo e molto di più elevandoci alla gloria futura che grazie al Signore Gesù, «sarà rivelata in noi» (v. 18).

La gloria di divenire e di essere in verità figli di Dio. Gloria che l’intera creazione attende tra gemiti e sofferenze per entrare anch’essa «nella libertà della gloria dei figli di Dio» (v. 21) e di cui si fa interprete la preghiera liturgica: «O Dio, che a quanti ti amano hai preparato la ricchezza di un mondo ancora invisibile, infondi nei nostri cuori un affetto più puro per te; donaci di ricercarti in ogni creatura e in ogni evento, di desiderarti sopra tutte le cose e di conseguire l’adempimento delle tue promesse» (orazione  A Conclusione della Liturgia della Parola).

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30 maggio 2013 – SS. Corpo e Sangue di Cristo

Il Calendario liturgico proprio della nostra Chiesa ambrosiana fa celebrare l’odierna solennità nel suo giorno tradizionale, vale a dire il giovedì successivo a quella della Santissima Trinità. Essa ci invita a ravvivare la fede nella presenza del Signore Gesù nel pane e nel vino dell’Eucaristia. Una presenza da intendersi come “vera”, “reale” e “sostanziale”.

 

Il Lezionario

 

Registriamo le seguenti lezioni bibliche: Lettura: Genesi 14,18-20; Salmo 109 (110); Epistola: 1Corinzi 11,23-26; Vangelo: Luca 9,11b-17. (Le orazioni e i canti della Messa sono quelli propri della solennità nel Messale ambrosiano).

 

Lettura del libro della Genesi (14,18-20)

 

In quei giorni. 18Melchisedek, re di Salem, offrì pane e vino: era sacerdote del Dio altissimo 19e benedisse Abram con queste parole:

«Sia benedetto Abram dal Dio altissimo, / creatore del cielo e della terra, / 20e benedetto sia il Dio altissimo, / che ti ha messo in mano i tuoi nemici». / Ed egli diede a lui la decima di tutto.

 

I due versetti introducono il misterioso personaggio di Melchisedek (= il mio re è giustizia), re di Salem (= Gerusalemme) , del quale si dice che era «sacerdote del Dio altissimo», lo stesso Dio di Abram. Qui si parla dell’offerta di pane e vino da lui fatta ad Abram, su cui invoca la benedizione divina.

 

Prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi (11,23-26)

 

Fratelli, 23io ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane 24e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: «Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me». 25Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: «questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me».26 Ogni volta infatti che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga.

 

I versetti, qui riportati, fanno parte di un più ampio contesto nel quale l’Apostolo dà particolareggiate disposizioni su come celebrare la «cena del Signore» (vv. 17-34). In particolare Paolo afferma che quanto sta per “trasmettere” è ciò che egli stesso ha “ricevuto” (v. 23). Segue il racconto della “cena”, nella quale il Signore pronunzia sul pane (v. 24) e quindi sul calice (v. 25) la benedizione con le parole che ne fanno rispettivamente il «suo corpo» e il «suo sangue» e l’ingiunzione di fare ciò in sua memoria. Il v. 26, infine, chiarisce che mangiando il pane e bevendo al calice i credenti ripresenteranno la morte redentrice del Signore.

 

Lettura del Vangelo secondo Luca (9,11b-17)

 

In quel tempo. Il Signore 11bprese a parlare alle folle del regno di Dio e a guarire quanti avevano bisogno di cure.

12Il giorno cominciava a declinare e i Dodici gli si avvicinarono dicendo: «Congeda la folla perché vada nei villaggi e nelle campagne dei dintorni, per alloggiare e trovare cibo, qui siamo in una zona deserta». 13Gesù disse loro: «Voi stessi date loro da mangiare». Ma essi risposero: «Non abbiamo che cinque pani e due pesci, a meno che non andiamo noi a comprare viveri per tutta questa gente». 14C’erano infatti circa cinquemila uomini. Egli disse ai suoi discepoli: «Fateli sedere a gruppi di cinquanta circa». 15Fecero così e li fecero sedere tutti quanti. 16Egli prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò su di essi la benedizione, li spezzò e li dava ai discepoli perché li distribuissero alla folla. 17Tutti mangiarono a sazietà e furono portati via i pezzi loro avanzati: dodici ceste.

 

Il racconto è inserito nel più ampio insegnamento di Gesù sul regno di Dio e nel racconto della  sua opera di guarigione dei malati (v. 11b). Intervengono per primi i Dodici che chiedono a Gesù di congedare la folla che lo segue (v. 12). A essi, in modo sorprendente, Gesù risponde ordinando di sfamare loro stessi la folla, cosa ritenuta impossibile dagli Apostoli (vv. 13-14). I vv. 14-16 riportano il comando di Gesù circa la composizione ordinata della folla, i suoi gesti sul pane e sui pesci accompagnati dalla preghiera di benedizione e la loro distribuzione alla moltitudine. Il v. 17, infine, sottolinea l’abbondanza del cibo procurato da Gesù e capace di sfamare fin oltre la sazietà: sono infatti dodici le ceste di avanzi.

 

Commento liturgico-pastorale

 

L’odierna solennità del Signore, istituita nel Medioevo per rafforzare tra i fedeli la convinzione di fede nella presenza reale del Signore Gesù nel pane e nel vino della Messa, è un’ulteriore occasione per penetrare con sguardo pieno di amore e di ammirato stupore nel grande mistero dell’Eucaristia.

Ci guida la Parola divina che ancora una volta ci consegna ciò che il Signore ha fatto nell’ultima Cena consumata con i suoi discepoli prima di consegnarsi alla morte di Croce.

La consegna ci arriva per bocca dell’apostolo Paolo il quale ha «ricevuto dal Signore» stesso quanto ha poi incessantemente trasmesso alle generazioni dei credenti fino ad oggi (Epistola: 1Corinzi 11,23). La consegna riguarda le parole e i gesti compiuti dal Signore sul pane e sul calice rispettivamente designati come il suo corpo e come il suo sangue, quello dell’Alleanza nuova ed eterna tra Dio e l’uomo (v. 25) e l’ingiunzione: «Fate questo in memoria di me» (v. 25). 

L’ordine, si badi, è quello di ripetere i suoi stessi gesti e le sue stesse parole sul pane e sul calice «in memoria di me», al fine di ripresentare nel pane e nel vino, la sua morte, ossia l’evento fondativo della salvezza.

Nella sua morte evocata nel pane e nel vino, segni sacramentali del suo corpo offerto e del suo sangue versato, il mondo è redento, riscattato dalla condizione di totale sottomissione al potere delle tenebre, le colpe cancellate e rimesse, l’uomo è restituito alla comunione con Dio distrutta dal peccato in un vincolo indistruttibile perché sigillato nel sangue del suo Figlio.

Il testo evangelico, incentrato sull’evento prodigioso della moltiplicazione dei pani e dei pesci, mette in luce come il Signore, sfamando la folla con un cibo materiale, intende annunciare il dono di un cibo spirituale che egli darà e che è il suo Corpo e il suo Sangue significati nel pane e nel vino profeticamente offerti da Melchisedek, misterioso re di Salem, ad Abramo e accompagnati da una preghiera di benedizione al Dio Altissimo (cfr. Lettura: Genesi 14).

Nell’Eucaristia è lo stesso Signore Gesù a procurare agli uomini che lo seguono e lo cercano tra le asperità della vita, un cibo che dà forza e una bevanda che lava ogni colpa (cfr. Prefazio II). Un cibo inesauribile, dato in sovrabbondanza e senza misura perché «una sola fede illumini e una sola carità riunisca l’umanità diffusa su tutta la terra» (Prefazio I).

Questo è ciò che noi fedeli abbiamo ricevuto e che noi dobbiamo a nostra volta trasmettere: nel Corpo e nel Sangue del Signore Gesù c’è pace, vita, salvezza, riconciliazione, nutrimento per una vita senza tramonto.

Notiamo, infine, come Gesù, alla dichiarazione di impotenza dei Dodici a dare da mangiare alla folla che lo seguiva (Luca 9,13), reagisce procurando lui stesso il cibo necessario ma lo affida ad essi perché lo distribuissero alla moltitudine (v. 16).

La Chiesa, raffigurata nei Dodici, ha sempre a disposizione il “cibo celeste” e lo distribuisce con totale generosità perché tutti assaporino la bontà del Signore e vivano nella riconciliazione e nella sua pace.

Al Signore Gesù che riconosciamo nel pane e nel vino dell’altare diciamo con fede: «Ti lodiamo, Signore onnipotente, glorioso  re di tutto l’universo. Ti benedicono gli angeli e gli arcangeli, ti lodano i profeti con gli apostoli. Noi ti lodiamo, o Cristo, a te prostrati, che venisti a redimere i peccati. Noi ti invochiamo, o grande Redentore, che il Padre ci mandò come pastore. Tu sei il Figlio di Dio, tu il Messia che nacque dalla Vergine Maria. Dal tuo prezioso sangue inebriati, fa’ che siam da ogni colpa liberati» (canto Alla Comunione).

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26 maggio 2013 – Santissima Trinità

Tiene il posto della prima domenica dopo Pentecoste e ci invita ad adorare con fede il mistero della Trinità Santissima, Trinità d’amore dalla quale discende il disegno divino di salvezza per il mondo e per l’umanità.

 

Il Lezionario

 

Prevede la proclamazione dei seguenti brani biblici: Lettura: Genesi 18,1-10a; Salmo 104 (105); Epistola: 1 Corinzi 12,2-6; Vangelo: Giovanni 14,21-26. Alla Messa vigiliare del sabato viene letto Marco 16,9-16 quale Vangelo della Risurrezione. (Le orazioni e i canti della Messa sono quelli propri della solennità nel Messale Ambrosiano).

 

Lettura del libro della Genesi (18,1-10a)

 

In quei giorni.1Il Signore apparve a lui alle Querce di Mamre, mentre egli sedeva all’ingresso della tenda nell’ora più calda del giorno. 2Egli alzò gli occhi e vide che tre uomini stavano in piedi presso di lui. Appena li vide, corse loro incontro dall’ingresso della tenda e si prostrò fino a terra, 3dicendo: «Mio signore, se ho trovato grazia ai tuoi occhi, non passare oltre senza fermarti dal tuo servo. 4Si vada a prendere un po’ d’acqua, lavatevi i piedi e accomodatevi sotto l’albero. 5Andrò a prendere un boccone di pane e ristoratevi; dopo potrete proseguire, perché è ben per questo che voi siete passati dal vostro servo». Quelli dissero: «Fa’ pure come hai detto».
6Allora Abramo andò in fretta nella tenda, da Sara, e disse: «Presto, tre sea di fior di farina, impastala e fanne focacce». 7All’armento corse lui stesso, Abramo; prese un vitello tenero e buono e lo diede al servo, che si affrettò a prepararlo. 8Prese panna e latte fresco insieme con il vitello, che aveva preparato, e li porse loro. Così, mentre egli stava in piedi presso di loro sotto l’albero, quelli mangiarono.

9 Poi gli dissero: «Dov’è Sara, tua moglie?». Rispose: «È là nella tenda». 10Riprese: «Tornerò da te fra un anno a questa data e allora Sara, tua moglie, avrà un figlio».

 

Il brano riporta il racconto della visita di Dio fatta ad Abramo presso le querce di Mamre. Egli appare sotto le sembianze di “tre uomini” che Abramo si affretta ad accogliere secondo i criteri dell’ospitalità orientale ma rivolgendosi ad essi al singolare, come se i tre fossero uno (vv. 1-5). I vv. 6-8 riferiscono dei preparativi messi in atto da Abramo e da sua moglie Sara per accogliere degnamente i tre misteriosi personaggi, i quali accettano di consumare il pasto ad essi imbandito. Il brano si conclude ai vv. 9-10 con l’annunzio della prossima maternità di Sara.

 

Prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi (12,2-6)

 

Fratelli,2voi sapete infatti che, quando eravate pagani, vi lasciavate trascinare senza alcun controllo verso gli idoli muti. 3Perciò io vi dichiaro: nessuno che parli sotto l’azione dello Spirito di Dio può dire: «Gesù è anàtema!»; e nessuno può dire: «Gesù è Signore!», se non sotto l’azione dello Spirito Santo.

4Vi sono diversi carismi, ma uno solo è lo Spirito; 5vi sono diversi ministeri, ma uno solo è il Signore; 6vi sono diverse attività, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti.

 

Il brano illustra l’attività dello Spirito Santo nel condurre i fedeli, strappati agli «idoli muti» (v.2), alla professione di fede in Gesù riconosciuto come «Signore!», ossia come colui che ha potere su ogni cosa (v. 3). Ed è lo Spirito Santo a elargire ai fedeli doni e carismi i quali, pur diversi, provengono tutti da lui. Essi sono anche chiamati ministeri in quanto sono utili all’edificazione della comunità (vv.4-6).

 

Lettura del Vangelo secondo Giovanni (14,21-26)

 

In quel tempo. Il Signore disse ai suoi discepoli: «21Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama. Chi ama me sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui».

22Gli disse Giuda, non l’Iscariota: «Signore, come è accaduto che devi manifestarti a noi, e non al mondo?». 23Gli rispose Gesù: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui. 24Chi non mi ama, non osserva le mie parole; e la parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato.

25Vi ho detto queste cose mentre sono ancora presso di voi. 26Ma il Paràclito, lo Spirito Santo che io Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto».

 

Il brano riporta alcune promesse fatte da Gesù ai suoi, nel Cenacolo, prima di consegnarsi volontariamente alla morte. Al v. 21 promette, a chi lo ama, ossia a chi accoglie e osserva i suoi comandamenti, di essere, a sua volta, amato da Dio, il Padre, e da lui stesso, da Gesù che si rivelerà nella sua più piena identità di Figlio. A Giuda, quello di Giacomo, che gli chiede perché non intende manifestarsi al mondo (v. 22), egli risponde ritornando sulla necessità di osservare la sua parola per essere amati dal Padre e godere della simultanea presenza del Padre e del Figlio (v. 23). Al contrario, chi non ama Gesù, non è in grado di mettere in pratica la parola che egli trasmette e che è del Padre (v. 24). I vv. 25-26, infine, riportano la promessa dell’invio dello Spirito Santo da parte del Padre sui discepoli una volta che Gesù, compiuta la sua pasqua, ritorna a Dio da cui è venuto. Il compito dello Spirito sarà quello di insegnare ossia di interiorizzare nell’animo dei credenti la parola del Signore e di farla rivivere nella comunità dei credenti.

 

Commento liturgico-pastorale

 

Il Tempo “dopo Pentecoste” che accompagna il cammino della Chiesa fino alla ripresa di un nuovo anno liturgico, è destinato a far comprendere alla Chiesa come nello Spirito, effuso quale dono supremo della Pasqua, le è dato accedere alla persona del suo Signore e Salvatore Crocifisso e Risorto e, quindi, alla salvezza.

Una salvezza, quella offerta e data in Cristo, che procede da un disegno per noi inaccessibile, ideato nel seno della Trinità d’amore e che consiste nella redenzione del mondo dal suo terribile naufragio dovuto al peccato e dal conseguente suo assoggettamento al potere delle tenebre. Di questo disegno è venuto a parlarci lo stesso Verbo di Dio divenuto uno di noi nel seno di Maria, nato come uomo a Betlemme e che ha realizzato quel disegno morendo per i nostri peccati e risorgendo dai morti per aprire anche a noi la via verso la Vita, quella stessa di Dio!

In questa domenica, pertanto, le Scritture che ci permettono di udire la Parola vivente di Dio, guidano i nostri animi a penetrare nell’insondabile mistero della Vita divina che si rivelò, per la prima volta ad Abramo, nei tre misteriosi personaggi che si presentano alla sua tenda «nell’ora più calda del giorno» (Lettura: Genesi 18,1) e ai quali, per impulso divino, si rivolge come ad una sola persona: «Mio signore, se ho trovato grazia ai tuoi occhi, non passare oltre senza fermarti dal tuo servo» (v. 3). Cosa, questa, riscontrabile anche nella promessa dei tre uomini fatta, però, in prima persona: «Tornerò da te fra un anno a questa data e allora Sara, tua moglie, avrà un figlio» (v. 10).

Toccherà però al Verbo di Dio divenuto uomo portarci la pienezza della rivelazione: parlandoci di Dio come del Padre e dicendo di essere il suo Unico Figlio che è stato mandato nel mondo perché gli uomini che crederanno in lui diventino a loro volta figli!

È ciò che Gesù afferma a proposito di colui che, avendo accolto la sua Parola, la osserva, ossia la vive come segno concreto del suo amore per lui. Questi «sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui» (Vangelo: Giovanni 14,21) ovvero, con parole ancora più esplicite: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui» (v. 23).

L’incredibile esperienza che il Signore prospetta a quanti lo amano è dunque quella di sperimentare, fin da ora, la comunione di vita con il Padre e il Figlio e, dunque, con la “vita divina”. Chi può comprendere tutte queste cose umanamente impensabili e di per sé inaccessibili alla nostra mente?

Del resto l’Apostolo avverte che non siamo in grado nemmeno di dire: «Gesù è Signore!» (Epistola: 1 Corinzi 12,3), ossia di avere nel cuore e, dunque, sulle labbra la professione di fede in Gesù, «se non sotto l’azione dello Spirito Santo» (v. 3) ovvero se non viene raggiunti da un’illuminazione dall’Alto.

Sarà perciò l’irrompere dello Spirito Santo che il Padre manda come guida, consolatore e difensore dei credenti a “insegnare” le cose grandi che ci riguardano e che Gesù, in persona, ci ha rivelato (cfr. Giovanni 14,26). È lo Spirito Santo, perciò, a guidarci nell’adesione di fede e di amore a Gesù e dunque a immetterci nella comunione con la Vita divina, la vita delle Tre Divine Persone, un solo Dio!

È ciò che ci fa autorevolmente dire l’orazione All’Inizio dell’assemblea Liturgica: «Dio Padre, che mandando agli uomini la Parola di Verità e lo Spirito di santificazione ci hai rivelato il tuo mistero mirabile, donaci di confessare la vera fede e di riconoscere la gloria della trinità eterna, adorando l’unità nella maestà divina».

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19 maggio 2013 – Domenica di Pentecoste

 

Celebra il mistero dell’effusione dello Spirito Santo sugli apostoli, al compimento dei cinquanta giorni di Pasqua, secondo la promessa del Signore.

Per l’odierna solennità la tradizione liturgica della nostra Chiesa Ambrosiana presenta due schemi di brani biblici e di testi ecologici, rispettivamente per la Messa “della Vigilia” da celebrare nel contesto della Liturgia vigiliare vespertina e per la Messa “nel giorno”. È anche prevista, qualora si celebri il Battesimo, la Messa “per i battezzati” con un proprio formulario eucologico e le rispettive lezioni bibliche.

 

La Messa della Vigilia

 

Normalmente deve essere celebrata nel contesto della Liturgia vigiliare del sabato sera organizzata sul modello della Veglia Pasquale.

 

Il Lezionario

 

Prevede la proclamazione di quattro Letture vetero-testamentarie: Genesi 11,1-9; Esodo 19,3-8.16-19; Ezechiele 37,1-14; Gioele 3,1-5; dell’Epistola: 1 Corinzi 2,9-15a e del Vangelo: Giovanni 16,5-14.

 

Lettura del libro della Genesi (11,1-9)

 

In quei giorni. 1Tutta la terra aveva un’unica lingua e uniche parole. 2Emigrando dall’oriente, gli uomini capitarono in una pianura nella regione di Sinar e vi si stabilirono. 3Si dissero l’un l’altro: «Venite, facciamoci mattoni e cuociamoli al fuoco». Il mattone servì loro da pietra e il bitume da malta. 4Poi dissero: «Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo, e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra». 5Ma il Signore scese a vedere la città e la torre che i figli degli uomini stavano costruendo. 6Il Signore disse: «Ecco, essi sono un unico popolo e hanno tutti un’unica lingua; questo è l’inizio della loro opera, e ora quanto avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile. 7Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l’uno la lingua dell’altro». 8Il Signore li disperse di là su tutta la terra ed essi cessarono di costruire la città. 9Per questo la si chiamò Babele, perché là il Signore confuse la lingua di tutta la terra e di là il Signore li disperse su tutta la terra.

 

Il brano racconta la storia della torre di Babele, ambientata nella Mesopotamia e la cui costruzione è attribuita agli uomini delle origini uniti da «un’unica lingua e uniche parole» desiderosi di «farsi un nome» (vv. 1-4). Dio, perciò, interviene facendo sì che l’unica lingua, finora parlata dagli uomini, si confonda in una molteplicità di linguaggi incapaci di comprendersi fra di essi (vv.5-8). Il v. 9 mette in luce la successiva dispersione dell’umanità prima raggruppata in un unico luogo e unita da un’unica lingua.

 

Lettura del libro dell’Esodo (19,3-8.16-19)

 

In quei giorni. 3Mosè salì verso Dio, e il Signore lo chiamò dal monte, dicendo: «Questo dirai alla casa di Giacobbe e annuncerai agli Israeliti: 4“Voi stessi avete visto ciò che io ho fatto all’Egitto e come ho sollevato voi su ali di aquile e vi ho fatto venire fino a me. 5Ora, se darete ascolto alla mia voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete per me una proprietà particolare tra tutti i popoli; mia infatti è tutta la terra! 6Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa”. Queste parole dirai agli Israeliti». 7Mosè andò, convocò gli anziani del popolo e riferì loro tutte queste parole, come gli aveva ordinato il Signore. 8Tutto il popolo rispose insieme e disse: «Quanto il Signore ha detto, noi lo faremo!». Mosè tornò dal Signore e riferì le parole del popolo. 

16Il terzo giorno, sul far del mattino, vi furono tuoni e lampi, una nube densa sul monte e un suono fortissimo di corno: tutto il popolo che era nell’accampamento fu scosso da tremore. 17Allora Mosè fece uscire il popolo dall’accampamento incontro a Dio. Essi stettero in piedi alle falde del monte. 18Il monte Sinai era tutto fumante, perché su di esso era sceso il Signore nel fuoco e ne saliva il fumo come il fumo di una fornace: tutto il monte tremava molto. 19Il suono del corno diventava sempre più intenso: Mosè parlava e Dio gli rispondeva con una voce.

Il brano si riferisce all’Alleanza stipulata da Dio, con il suo popolo liberato dall’Egitto, nel deserto del Sinai, con la mediazione di Mosè. Egli è incaricato di riferire le parole divine che evocano le cose grandi e meravigliose compiute da Dio (vv. 3-4) che giustificano l’ingiunzione di ascoltare la sua voce e di custodire l’alleanza (vv. 5-6). Viene quindi detto che il popolo accetta l’alleanza con Dio e si impegna a custodirla fedelmente (vv. 7-8). Segue la narrazione della teofania alla quale il popolo partecipa stando «in piedi sulle falde del monte» mentre è il solo Mosè a interloquire con Dio (vv. 16-19).

Lettura del profeta Ezechiele (37,1-14)

In quei giorni. 1La mano del Signore fu sopra di me e il Signore mi portò fuori in spirito e mi depose nella pianura che era piena di ossa; 2mi fece passare accanto a esse da ogni parte. Vidi che erano in grandissima quantità nella distesa della valle e tutte inaridite. 3Mi disse: «Figlio dell’uomo, potranno queste ossa rivivere?». Io risposi: «Signore Dio, tu lo sai». 4Egli mi replicò: «Profetizza su queste ossa e annuncia loro: “Ossa inaridite, udite la parola del Signore. 5Così dice il Signore Dio a queste ossa: Ecco, io faccio entrare in voi lo spirito e rivivrete. 6Metterò su di voi i nervi e farò crescere su di voi la carne, su di voi stenderò la pelle e infonderò in voi lo spirito e rivivrete. Saprete che io sono il Signore”». 7Io profetizzai come mi era stato ordinato; mentre profetizzavo, sentii un rumore e vidi un movimento fra le ossa, che si accostavano l’uno all’altro, ciascuno al suo corrispondente. 8Guardai, ed ecco apparire sopra di esse i nervi; la carne cresceva e la pelle le ricopriva, ma non c’era spirito in loro. 9Egli aggiunse: «Profetizza allo spirito, profetizza, figlio dell’uomo, e annuncia allo spirito: “Così dice il Signore Dio: Spirito, vieni dai quattro venti e soffia su questi morti, perché rivivano”». 10Io profetizzai come mi aveva comandato e lo spirito entrò in essi e ritornarono in vita e si alzarono in piedi; erano un esercito grande, sterminato.
11Mi disse: «Figlio dell’uomo, queste ossa sono tutta la casa d’Israele. Ecco, essi vanno dicendo: “Le nostre ossa sono inaridite, la nostra speranza è svanita, noi siamo perduti”. 12Perciò profetizza e annuncia loro: “Così dice il Signore Dio: Ecco, io apro i vostri sepolcri, vi faccio uscire dalle vostre tombe, o popolo mio, e vi riconduco nella terra d’Israele. 13Riconoscerete che io sono il Signore, quando aprirò le vostre tombe e vi farò uscire dai vostri sepolcri, o popolo mio. 14Farò entrare in voi il mio spirito e rivivrete; vi farò riposare nella vostra terra. Saprete che io sono il Signore. L’ho detto e lo farò”». Oracolo del Signore Dio.

 

Il testo profetico, con l’immagine di un’intera pianura colma di «ossa… tutte inaridite», descrive la condizione di Israele condotto in esilio a Babilonia dopo la distruzione di Gerusalemme ( vv.1-3). Su di esse viene proclamata «la parola del Signore» che annunzia una vita nuova (vv 4-6) grazie al soffio dello Spirito che irrompe su di esse «dai quattro venti» ossia da ogni dove ( vv 7-10). I vv 11-14, infine, svelano che «queste ossa sono tutta la casa d’Israele», priva di ogni speranza e che Dio, invece, si impegna a far rivivere con il dono del suo Spirito.

 

Lettura del profeta Gioele (3,1-5)

 

Così dice il Signore Dio:

«1Dopo questo,

io effonderò il mio spirito

sopra ogni uomo

e diverranno profeti i vostri figli e le vostre figlie;

i vostri anziani faranno sogni,

i vostri giovani avranno visioni.

2Anche sopra gli schiavi e sulle schiave

in quei giorni effonderò il mio spirito.

3Farò prodigi nel cielo e sulla terra,

sangue e fuoco e colonne di fumo.

4Il sole si cambierà in tenebre

e la luna in sangue,

prima che venga il giorno del Signore,

grande e terribile.

5Chiunque invocherà il nome del Signore,

sarà salvato,

poiché sul monte Sion e in Gerusalemme

vi sarà la salvezza,come ha detto il Signore,

anche per i superstiti

che il Signore avrà chiamato.

 

Il brano si riferisce all’intervento di Dio a favore del suo popolo oppresso dalle popolazioni nemiche paragonate ad un esercito di cavallette (cfr. cap. 1). Dio promette di effondere il suo spirito in modo da far diventare profeti tutti gli appartenenti del suo popolo, compresi gli schiavi (vv. 1-2). I vv. 3-5, con allusione alla teofania del Sinai di cui abbiamo letto nella seconda lettura, riferiscono i fatti prodigiosi che accompagnano l’intervento di Dio il quale si dichiara pronto a dare salvezza a chiunque «invocherà il suo nome», a quanti, cioè, aderiranno a lui (v.6).

 

Prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi (2,9-15a)

 

Fratelli, 9sta scritto:

«Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì,

né mai entrarono in cuore di uomo,

Dio le ha preparate per coloro che lo amano».

10Ma a noi Dio le ha rivelate per mezzo dello Spirito; lo Spirito infatti conosce bene ogni cosa, anche le profondità di Dio. 11Chi infatti conosce i segreti dell’uomo se non lo spirito dell’uomo che è in lui? Così anche i segreti di Dio nessuno li ha mai conosciuti se non lo Spirito di Dio. 12Ora, noi non abbiamo ricevuto lo spirito del mondo, ma lo Spirito di Dio per conoscere ciò che Dio ci ha donato. 13Di queste cose noi parliamo, con parole non suggerite dalla sapienza umana, bensì insegnate dallo Spirito, esprimendo cose spirituali in termini spirituali. 14Ma l’uomo lasciato alle sue forze non comprende le cose dello Spirito di Dio: esse sono follia per lui e non è capace di intenderle, perché di esse si può giudicare per mezzo dello Spirito. 15L’uomo mosso dallo Spirito, invece, giudica ogni cosa.

 

Nel contesto del presente brano, l’Apostolo sta parlando della sapienza di Dio, che si oppone a quella del mondo incapace di conoscerla al contrario di quanti lo amano (v. 9). Ad essi, grazie al dono dello Spirito, vengono rivelati anche i «segreti di Dio» (vv. 10-12). La predicazione dell’Apostolo, di conseguenza, si poggia sulla rivelazione dei disegni divini da parte dello Spirito Santo senza del quale nessuno è in grado di intendere le cose di Dio (vv. 13-15a).

 

Lettura del Vangelo secondo Giovanni (16,5-14)

 

In quel tempo. Il Signore Gesù diceva ai suoi discepoli: «5Ora  vado da colui che mi ha mandato e nessuno di voi mi domanda: “Dove vai?”. 6Anzi, perché vi ho detto questo, la tristezza ha riempito il vostro cuore. 7Ma io vi dico la verità: è bene per voi che io me ne vada, perché, se non me ne vado, non verrà a voi il Paràclito; se invece me ne vado, lo manderò a voi. 8E quando sarà venuto, dimostrerà la colpa del mondo riguardo al peccato, alla giustizia e al giudizio. 9Riguardo al peccato, perché non credono in me; 10riguardo alla giustizia, perché vado al Padre e non mi vedrete più; 11riguardo al giudizio, perché il principe di questo mondo è già condannato. 12 Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. 13Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future. 14Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà».

 

Il brano riporta alcuni versetti del sedicesimo capitolo che contiene un nuovo discorso pronunciato da Gesù nel contesto dell’ultima cena e riguardante l’annunzio del suo «ritorno al Padre» (cfr. Giovanni 16,4b-33). Qui, dopo aver constatato che tale discorso ingenera tristezza nel cuore dei discepoli (v. 6), Gesù parla di una conseguenza positiva del suo ritorno al Padre: è l’invio del Paraclito, ovvero dello Spirito Santo (v. 7). Viene quindi chiarito il ruolo dello Spirito nei riguardi del mondo che verrà giudicato a motivo dell’incredulità (vv. 8-11), e viene illustrata l’azione del medesimo Spirito verso i discepoli, di per sé incapaci di comprendere «tutta la verità» ossia  la pienezza della rivelazione divina in Cristo (vv. 12-15).

 

La  Messa “nel giorno”

 

Vengono in essa proclamati: Lettura: Atti degli Apostoli 2,1-11; Salmo 103 (104); Epistola: 1 Corinzi 12,1-11; Vangelo: Giovanni 14,15-20.

 

Lettura degli Atti degli Apostoli (2,1-11)

 

1Mentre stava compiendosi il giorno della Pentecoste, si trovavano tutti insieme nello stesso luogo. 2Venne all’improvviso dal cielo un fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso, e riempì tutta la casa dove stavano. 3Apparvero loro lingue come di fuoco, che si dividevano, e si posarono su ciascuno di loro, 4e tutti furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi.5Abitavano allora a Gerusalemme Giudei osservanti, di ogni nazione che è sotto il cielo. 6A quel rumore, la folla si radunò e rimase turbata, perché ciascuno li udiva parlare nella propria lingua. 7Erano stupiti e, fuori di sé per la meraviglia, dicevano: «Tutti costoro che parlano non sono forse Galilei? 8E come mai ciascuno di noi sente parlare nella propria lingua nativa? 9Siamo Parti, Medi, Elamiti, abitanti della Mesopotamia, della Giudea e della Cappadòcia, del Ponto e dell’Asia, 10della Frìgia e della Panfìlia, dell’Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirene, Romani qui residenti, 11Giudei e prosèliti, Cretesi e Arabi, e li udiamo parlare nelle nostre lingue delle grandi opere di Dio».

 

Il brano riporta l’evento del dono dello Spirito promesso dal Signore ai suoi con i caratteri di una teofania, ovvero di una manifestazione divina, segnata, come avviene in quella del Sinai (Es 9,16-19), da «fragore», «vento impetuoso» e «lingue di fuoco» segni della trascendenza divina (vv.1-4). Le lingue di fuoco, in particolare, dicono l’effusione dello Spirito Santo su tutti i presenti e significano la loro consacrazione a essere missionari del Vangelo presso i popoli della terra. Vengono di conseguenza elencate le varie nazionalità a cui apparteneva la moltitudine che assiste all’evento e che sente gli Apostoli «parlare nelle nostre lingue delle grandi opere di Dio» (vv. 5-11).

 

Prima lettera di san Paolo ai Corinzi (12,1-11)

 

1Riguardo ai doni dello Spirito, fratelli, non voglio lasciarvi nell’ignoranza. 2Voi sapete infatti che, quando eravate pagani, vi lasciavate trascinare senza alcun controllo verso gli idoli muti. 3Perciò io vi dichiaro: nessuno che parli sotto l’azione dello Spirito di Dio può dire: «Gesù è anàtema!»; e nessuno può dire: «Gesù è Signore!», se non sotto l’azione dello Spirito Santo. 4Vi sono diversi carismi, ma uno solo è lo Spirito; 5vi sono diversi ministeri, ma uno solo è il Signore; 6vi sono diverse attività, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti. 7A ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per il bene comune: 8a uno infatti, per mezzo dello Spirito, viene dato il linguaggio di sapienza; a un altro invece, dallo stesso Spirito, il linguaggio di conoscenza; 9a uno, nello stesso Spirito, la fede; a un altro, nell’unico Spirito, il dono delle guarigioni; 10a uno il potere dei miracoli; a un altro il dono della profezia; a un altro il dono di discernere gli spiriti; a un altro la varietà delle lingue; a un altro l’interpretazione delle lingue. 11Ma tutte queste cose le opera l’unico e medesimo Spirito, distribuendole a ciascuno come vuole.

 

Il brano fa seguito alle istruzioni dell’Apostolo riguardanti la «cena del Signore» (1 Corinzi 11,17-34). Qui l’intento di Paolo è quello di non lasciare nell’ignoranza la giovane comunità di Corinto riguardo «ai doni dello Spirito» (v. 1), ben diversi dai fenomeni presenti anche nel paganesimo (v. 2). Tra i credenti si ha certezza di agire «sotto l’azione dello Spirito Santo» se ciò che si afferma è in sintonia con la fede in Gesù che è «il Signore»! L’ Apostolo, inoltre, dichiara che i carismi, i vari ministeri e l’attività nella Chiesa procedono e dipendono dallo Spirito, che è «uno solo» ( vv. 4-6) e quindi elenca le diverse manifestazioni dell’unico Spirito nei singoli credenti al fine, però, di perseguire «il bene comune», vale a dire per la vita e l’espansione della Chiesa (vv. 7-11).

 

Lettura del Vangelo secondo Giovanni (14,15-20)

 

In quel tempo. Il Signore Gesù disse ai suoi discepoli: «15Se mi amate, osserverete i miei comandamenti; 16e io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre, 17lo Spirito della verità, che il mondo non può ricevere perché non lo vede e non lo conosce. Voi lo conoscete perché egli rimane presso di voi e sarà in voi. 18Non vi lascerò orfani: verrò da voi. 19Ancora un poco e il mondo non mi vedrà più; voi invece mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete. 20In quel giorno voi saprete che io sono nel Padre mio e voi in me e io in voi».

 

I versetti oggi proclamati e che riportano le parole pronunciate da Gesù nel Cenacolo, legano all’amore dei discepoli, concretizzato nell’osservanza dei suoi comandamenti, la sua promessa, una volta tornato al Padre, di ottenere da lui  l’invio di «un altro Paraclito», ovvero dello Spirito Santo, quale loro guida e perenne assistenza (vv.15-16). Lo Spirito, mentre rimane sconosciuto al mondo a motivo dell’incredulità, è, al contrario, conosciuto ovvero sperimentato e presente nei discepoli (v.17). Segue la promessa di Gesù di far ritorno, dopo gli eventi pasquali  della sua morte e risurrezione, tra i suoi discepoli come il vivente che dona a essi la vita (vv.18-19) e che consiste nel credere che Gesù e “nel” Padre così come i discepoli sono “in” Gesù e Gesù “in” essi (v.20). 

 

Commento liturgico-pastorale

 

La preghiera liturgica raccolta nel formulario della Messa “della Vigilia” e in quello della Messa “nel giorno”, ci svela la grandezza dell’evento salvifico celebrato nell’odierna solennità «che, nel suo numero sacro e profetico (cioè il cinquantesimo giorno di Pasqua), ricorda arcanamente la raggiunta pienezza del mistero pasquale» (Prefazio, Messa “nel giorno”) ossia contiene, esprime e rende attiva l’inesauribile ricchezza dell’opera salvifica realizzata dal Signore con la sua morte in Croce, la sua Risurrezione e Ascensione alla destra di Dio. È ciò che leggiamo nel Prefazio della Messa “della Vigilia” che vede, nell’effusione dello Spirito Santo, la distribuzione dei doni della grazia divina e nei quali si può anzitutto riconoscere l’economia sacramentale con al vertice i sacramenti pasquali del Battesimo e dell’Eucaristia. Doni che, anticipando ai fedeli «le primizie dell’eredità eterna che sono chiamati a condividere con Cristo redentore», li  rende certi di «incontrarsi con lui nella gloria» in quanto, in tali doni di grazia, «l’esperienza dello Spirito è più inebriante e più viva». Il Prefazio della Messa “nel giorno”, dal canto suo, intende magnificare l’estensione all’intera umanità della grazia propria della Pentecoste vedendo in essa, alla luce del racconto biblico della torre di Babele (Genesi 11,1-9), proclamato nella Messa “della Vigilia”, la ricomposizione in unità della stessa umanità dalla «confusione che la superbia aveva portato agli uomini». Ricomposizione che, con allusione al racconto degli Atti degli apostoli (2,1-11), letto nella Messa “nel giorno”, è segnata dall’irruzione dello Spirito  significato dal «fragore improvviso» e grazie al quale gli Apostoli «accolgono la professione di un’unica fede e, con diversi linguaggi, a tutte le genti annunziano la gloria del vangelo di salvezza». Annunzio destinato a far sì che «i popoli dispersi si raccolgano e le diverse lingue si uniscano a proclamare la gloria del nome di Dio Padre» formando l’unico suo popolo santo (Orazione A Conclusione della Liturgia della Parola. Messa “nel giorno”).

Nel raduno eucaristico, specialmente domenicale, la Chiesa sulla quale aleggia in permanenza lo Spirito Santo promesso dal Signore prima di lasciare questo mondo, è invitata a un’esperienza sempre più profonda dello Spirito e a riconoscerne la misteriosa presenza e la multiforme attività. È lui, infatti, ad attivare la presenza reale del Signore e del suo universale mistero di salvezza trasformando il pane e il vino nel suo Corpo offerto e nel suo Sangue versato come segno ultimo del suo amore al Padre e del suo amore per l’intera umanità. È sempre lo Spirito Santo a rendere concreto nei fedeli ciò che Gesù ha detto a proposito del suo essere “nel” Padre e, dunque, della nostra partecipazione “in” lui alla comunione con Dio (cfr. Giovanni 14,20, Messa “nel giorno”). Ed è ancora lo Spirito a fare dei molti che mangiano dello stesso pane e bevono allo stesso calice, «un solo Corpo»; la Chiesa, come segno dell’unità di tutte le Genti nell’unico Corpo di Cristo. È lo Spirito Santo a donarci la grazia di udire, nelle Scritture, la viva voce del Signore e a porre in noi doni e carismi i più diversi perché concorriamo a rendere più bella la Chiesa e a edificarla da tutte le genti (cfr. 1 Corinzi 12,4ss., Messa “nel giorno”). È lo Spirito Santo ad aprire il nostro cuore e la nostra umana intelligenza al dono della fede che ci fa esclamare «Gesù è il Signore» (v.3), consegnando ogni nostra attesa, ogni nostra speranza e l’intera nostra vita a lui solo.

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12 maggio 2013 – Domenica dopo l’Ascensione


È la VII Domenica di Pasqua, incaricata di porre in evidenza che, con l’Ascensione, cessa la presenza fisica del Signore nella sua Chiesa. Presenza che, pertanto, andrà cercata e contemplata nei divini misteri.

 

Il Lezionario

 

Presenta i seguenti brani biblici: Lettura: Atti 7,48-57; Salmo 26 (27); Epistola: Efesini 1,17-23; Vangelo: Giovanni 17,1b.20-26. Il Vangelo della Risurrezione da leggere nella Messa vigiliare è preso da Giovanni 20,1-8. (Le orazioni e i canti della Messa sono quelli del giovedì della VI settimana di Pasqua nel Messale ambrosiano).

 

Lettura degli Atti degli Apostoli (7,48-57)

 

In quei giorni. Stefano disse: «48L’Altissimo tuttavia non abita in costruzioni fatte da mano d’uomo, come dice il profeta: / 49 “Il cielo è il mio trono / e la terra sgabello dei miei piedi. /
Quale casa potrete costruirmi, dice il Signore, / o quale sarà il luogo del mio riposo?/
50Non è forse la mia mano che ha creato tutte queste cose?”.

51 Testardi e incirconcisi nel cuore e nelle orecchie, voi opponete sempre resistenza allo Spirito Santo. Come i vostri padri, così siete anche voi. 52 Quale dei profeti i vostri padri non hanno perseguitato? Essi uccisero quelli che preannunciavano la venuta del Giusto, del quale voi ora siete diventati traditori e uccisori, 53voi che avete ricevuto la Legge mediante ordini dati dagli angeli e non l’avete osservata».

54 All’udire queste cose, erano furibondi in cuor loro e digrignavano i denti contro Stefano.
55Ma egli, pieno di Spirito Santo, fissando il cielo, vide la gloria di Dio e Gesù che stava alla destra di Dio 56e disse: «Ecco, contemplo i cieli aperti e il Figlio dell’uomo che sta alla destra di Dio.»57Allora, gridando a gran voce, si turarono gli orecchi e si scagliarono tutti insieme contro di lui.»

 

Il brano riporta i versetti conclusivi del discorso di Stefano davanti al Sinedrio (vv. 48-53), concernenti la presenza di Dio tra il suo popolo che egli, mediante il ricorso a Isaia 66,1-2a, cerca di svincolare da una concezione materiale e localistica a favore di una concezione spirituale e universale (vv. 49-50). Segue un’invettiva contro la durezza di cuore e la persecuzione scatenata contro i profeti annunziatori del “giusto”, ovvero  di Gesù, anch’egli perseguitato e ucciso (vv. 51-53). Il v. 54 annota la reazione furibonda dei presenti contro Stefano già in contemplazione delle realtà celesti e, in particolare della gloria di Gesù «che sta alla destra di Dio» (vv. 55-56). Il v. 57 , infine, introduce il racconto del martirio di Stefano (vv. 58-60).

 

Lettera di san Paolo apostolo agli Efesini (1,17-23)

 

Fratelli, 17il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria, vi dia uno spirito di sapienza e di rivelazione per una profonda conoscenza di lui; 18illumini gli occhi del vostro cuore per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i santi 19e qual è la straordinaria grandezza della sua potenza verso di noi, che crediamo, secondo l’efficacia della sua forza e del suo vigore.20Egli la manifestò in Cristo, /   quando lo risuscitò dai morti /  e lo fece sedere alla sua destra nei cieli, / 21al di sopra di ogni Principato e Potenza, / al di sopra di ogni Forza e Dominazione / e di ogni nome che viene nominato / non solo nel tempo presente ma anche in quello futuro. / 22«Tutto infatti egli ha messo sotto i suoi piedi» / e lo ha dato alla Chiesa come capo su tutte le cose: / 23essa è il corpo di lui, / la pienezza di colui che è il perfetto compimento di tutte le cose.

 

Il brano riporta alcuni passi della preghiera di ringraziamento e di lode per la comunità di Efeso. In essa, l’Apostolo, chiede a Dio per i fedeli «una profonda conoscenza» di ciò che egli ha operato in Cristo in loro favore, dispiegando la sua potenza salvifica (vv. 17-19). Potenza riscontrabile  nella risurrezione e nella esaltazione di Cristo alla destra di Dio, costituito Signore su ogni realtà creata, comprese quelle celesti (vv. 20-21). Nei vv. 22-23, infine, l’Apostolo precisa che il Signore Risorto è il «capo della Chiesa» la quale, pertanto, è il «corpo di lui».

 

Lettura del Vangelo secondo Giovanni (17,1b.20-26)

 

In quel tempo. Il Signore Gesù, 1balzati gli occhi al cielo, disse: «20Non prego solo per questi, ma anche per quelli che crederanno in me mediante la loro parola: 21perché tutti siano una sola cosa; come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato.

22E la gloria che tu hai dato a me, io l’ho data a loro, perché siano una sola cosa come noi siamo una sola cosa. 23Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell’unità e il mondo conosca che tu mi hai mandato e che li hai amati come hai amato me.

24Padre, voglio che quelli che mi hai dato siano anch’essi con me dove sono io, perché contemplino la mia gloria, quella che tu mi hai dato; poiché mi hai amato prima della creazione del mondo.

25Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto, ma io ti ho conosciuto, e questi hanno conosciuto che tu mi hai mandato. 26E io ho fatto conoscere loro il tuo nome e lo farò conoscere, perché l’amore con il quale mi hai amato sia in essi e io in loro».

 

Il brano evangelico riporta il versetto iniziale (1b) e la parte finale (20-26) di quello che viene identificato come l’ultimo dialogo tra Gesù, il Figlio, e il Padre. Qui il Signore Gesù chiede al Padre di custodire «in unità» quanti, a seguito della predicazione del Vangelo, crederanno in lui (vv. 20-23). Costoro devono formare «una sola cosa» esattamente come lui, il Figlio, e il Padre, sono «una sola cosa» (vv. 21; 22; 23). Il permanere dei discepoli nell’unità che, procedendo da quella tra le Persone Divine non è una semplice unione morale, è decisiva nella propagazione al mondo della fede in Gesù come l’Inviato di Dio per estendere ai credenti l’amore stesso con il quale il Padre ama lui, il Figlio (v. 23)! Il v. 24 contiene quella che possiamo chiamare l’ultima volontà di Gesù, che chiede al Padre di far partecipi i suoi discepoli, giunti definitivamente presso di lui, di quella condizione gloriosa propria del Figlio amato. I versetti conclusivi (25-26), riportano la constatazione del Signore circa la fede profonda dei discepoli in lui, come «mandato dal Padre» e la sua promessa di far loro conoscere il nome del Padre, vale a dire di portarli a sperimentare il suo amore che è lo stesso sperimentato dal Figlio.

 

Commento liturgico-pastorale

 

Il testo evangelico ci trasporta nel cenacolo di Gerusalemme dove il Signore Gesù, consapevole che è giunta la sua “ora”, si rivolge al Padre con un dialogo filiale che è allo stesso tempo una preghiera nella quale coinvolge i suoi discepoli di allora e quelli di tutti i tempi.

Dialogo e preghiera nella quale, come dicono i versetti evangelici oggi proclamati, Egli porta tutti coloro che, credendo in lui, diventeranno i “suoi” e che, in vista della conversione del mondo, devono aspirare a vivere in quella unità che fa di essi «una sola cosa» come il Padre e il Figlio (Cfr. Vangelo: Giovanni, 17, 20-21). Si tratta di una prima formidabile “consegna” del Signore ai discepoli del cenacolo e ai discepoli di tutti i tempi tra i quali, a seguito del suo ritorno al Padre, egli non sarà più fisicamente presente.

Tale consegna è legata alla missione dei discepoli, quella di condurre l’intera umanità a credere che Gesù è l’Inviato dal Padre per rivelare a tutti la sua misericordiosa bontà nella quale è possibile trovare salvezza. E sarà proprio l’unità di fede e di amore tra i discepoli qui in terra, riproduzione dell’indicibile unità delle divine Persone, il segreto dell’efficacia della loro missione nel mondo (v.21).

È una consegna, quella della “perfezione nell’unità” (v. 23), sulla quale occorre fondare la nostra vita e soprattutto la vita delle nostre comunità ecclesiali, certi che la preghiera del Signore Gesù è infallibilmente esaudita dal Padre. Occorre, pertanto, guardarsi dal ricadere sotto la schiavitù del peccato che spezza il vincolo d’amore con il Padre e il Figlio e, di conseguenza, porta la “divisione” tra i credenti e nelle comunità ecclesiali.

A tale proposito conviene riflettere sul perché tante nostre comunità non sono più in grado di testimoniare la fede nel Signore Gesù e di contagiare in essa gli altri? Il motivo è che, queste, sono attraversate dal demone della divisione e della discordia che non rende credibile l’annuncio evangelico del disegno d’amore al quale il Padre convoca, per mezzo del suo Figlio, quanti ascoltano la sua parola.

Occorre pertanto attivare continuamente in noi il dono della “perfetta unità” che riceviamo nei divini misteri dalla grazia dello Spirito Santo domandando senza sosta a Dio di continuare a prendersi cura dei suoi fedeli , di sostenerli e di rianimarli «con la certezza del suo affetto di Padre» (Orazione All’Inizio dell’Assemblea Liturgica). L’unità tra i suoi discepoli, così ricercata, implorata, donata e vissuta, è l’indispensabile premessa per la seconda richiesta di Gesù al Padre: «Voglio che quelli che mi hai dato siano anch’essi con me dove sono io» (v. 24).

È la richiesta tesa alla partecipazione dei discepoli a quella “gloria”, ossia a quella condizione in cui contempliamo il Signore Risorto che il Padre «fece sedere alla sua destra nei cieli, al di sopra di ogni Principato e Potenza, al di sopra di ogni Forza e Dominazione» (Epistola: Efesini 1,20).

A tale riguardo l’Apostolo domanda a Dio di far comprendere ai fedeli di Efeso e, in essi, anche a noi «a quale speranza vi ha chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i santi» (v.18). Si tratta, se ben comprendiamo, della partecipazione della nostra persona, già da questa vita terrena, a quella condizione che, ora, possiamo contemplare nel solo suo Figlio asceso al cielo.

È la visione che meritò di avere il primo martire santo Stefano che, dopo aver reso testimonianza al Signore con la sua parola, gli rese testimonianza con il suo sangue: «Ecco, contemplo i cieli aperti e il Figlio dell’uomo che sta alla destra di Dio» (Lettura: Atti degli Apostoli 7,56). In Stefano viene così esaudita la volontà del Signore (cfr. Giovanni 17,24), così come è continuamente esaudita nell’infinita schiera di martiri, di testimoni e di discepoli che si succedono, lungo i secoli.

A noi che viviamo in questa condizione di vita fugace, ci doni il Signore di cominciare a sperimentare con fede certa la nostra partecipazione alla sua “gloria” di Figlio che contempliamo “faccia a faccia” nella celebrazione del mistero del suo amore che è l’Eucaristia. In essa deve brillare in tutta verità la perfezione di quella unità che ci lega in unum con il Padre per mezzo del Figlio perché il mondo creda. È ciò che ci ricorda il canto Al Vangelo: «Tutti siano una sola cosa, dice il Signore, e il mondo creda che tu mi hai mandato» (cfr. Giovanni 17,21).




9 Maggio 2013 – Ascensione del Signore

 

 

La recente riforma del Calendario liturgico della nostra Chiesa ambrosiana (2008) ha  sapientemente riportato questa grande solennità nel “quarantesimo giorno”,  segnato dalla gioia della presenza del Risorto tra i suoi ai quali promette, una volta tornato al Padre, di mandare lo Spirito Santo per tener viva la sua Parola e l’efficacia della sua Pasqua fino alla consumazione dei tempi.

L’importanza dell’odierna solennità, nella nostra tradizione liturgica, è riscontrabile nella proposta di una Lettura vigiliare per la Messa vespertina della Vigilia e dai due formulari eucologici per la stessa Messa “della Vigilia” e per la Messa “nel giorno”.

 

Il Lezionario

 

Presenta il seguente ordinamento di lezioni bibliche: Lettura: Atti degli Apostoli 1, 1-11, alla Messa “della vigilia” e Atti degli Apostoli 1,6-13a alla Messa “nel giorno”; Salmo 46(47); Epistola: Efesini 4,7-13; Vangelo: Luca 24, 36b-53. (Le orazioni e i canti della Messa “della vigilia” e “nel giorno”, sono quelli propri della solennità nel Messale ambrosiano).

 

Messa “della Vigilia”: Lettura degli Atti degli Apostoli (1,1-11)

 

1Nel primo racconto, o Teòfilo, ho trattato di tutto quello che Gesù fece e insegnò dagli inizi 2fino al giorno in cui fu assunto in cielo, dopo aver dato disposizioni agli apostoli che si era scelti per mezzo dello Spirito Santo. 3Egli si mostrò a essi vivo, dopo la sua passione, con molte prove, durante quaranta giorni, apparendo loro e parlando delle cose riguardanti il regno di Dio. 4Mentre si trovava a tavola con essi, ordinò loro di non allontanarsi da Gerusalemme, ma di attendere l’adempimento della promessa del Padre, «quella – disse – che voi avete udito da me: 5Giovanni battezzò con acqua, voi invece, tra non molti giorni, sarete battezzati in Spirito Santo». 6Quelli dunque che erano con lui gli domandavano: «Signore, è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno per Israele?». 7Ma egli rispose: «Non spetta a voi conoscere tempi o momenti che il Padre ha riservato al suo potere, 8ma riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino ai confini della terra». 9Detto questo, mentre lo guardavano, fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi. 10Essi stavano fissando il cielo mentre egli se ne andava, quand’ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro 11e dissero: «Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo».

 

Il brano si apre con la presentazione da parte di Luca del suo nuovo libro che fa seguito al «primo racconto», ossia al Vangelo riguardante ciò che Gesù «fece e insegnò» nella sua vita terrena culminata, dopo la sua passione e risurrezione, nel giorno «in cui fu assunto in cielo» (vv. 1-5). I vv. 6-8 riportano l’ultimo dialogo tra Gesù e i suoi discepoli nel quale viene loro annunciato il dono dello Spirito Santo che li trasformerà in suoi testimoni «fino ai confini della terra». Il brano si conclude con il racconto dell’ascensione e con l’annunzio ai discepoli fatto da «due uomini in bianche vesti» riguardante il ritorno del Signore dal cielo nel giorno della Parusia, alla fine dei tempi (vv. 9-11).

 

Messa “nel giorno”: Lettura degli Atti degli Apostoli (1,6-13)

 

In quei giorni. 6Quelli dunque che erano con lui gli domandavano: «Signore, è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno per Israele?». 7Ma egli rispose: «Non spetta a voi conoscere tempi o momenti che il Padre ha riservato al suo potere, 8ma riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino ai confini della terra». 9Detto questo, mentre lo guardavano, fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi. 10Essi stavano fissando il cielo mentre egli se ne andava, quand’ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro 11e dissero: «Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo». 12Allora ritornarono a Gerusalemme dal monte degli Ulivi, che è vicino a Gerusalemme quanto il cammino permesso in giorno di sabato. 13Entrati in città, salirono nella stanza al piano superiore, dove erano soliti riunirsi.

 

Riporta parte della Lettura vigiliare (vv. 6-11) che completa dicendo che gli Apostoli, testimoni dell’elevazione «in alto» del loro Maestro e Signore, una volta tornati a Gerusalemme, «salirono nella stanza al piano superiore, dove erano soliti riunirsi» (v. 13). Si tratta di un particolare di grande importanza perché il loro essere riuniti insieme forma visibilmente la Chiesa, quella del Signore, sulla quale egli ha promesso di far scendere «la forza dello Spirito Santo» (v. 8)  che la abilita a dare testimonianza a Gesù ovunque e fino al suo ritorno glorioso dal Cielo.

 

Lettera di san Paolo apostolo agli Efesini (4,7-13)

 

Fratelli, 7a ciascuno di noi è stata data la grazia secondo la misura del dono di Cristo. 8Per questo è detto: «Asceso in alto, ha portato con sé prigionieri, ha distribuito doni agli uomini.

9Ma cosa significa che ascese, se non che prima era disceso quaggiù sulla terra? 10Colui che discese è lo stesso che anche ascese al di sopra di tutti i cieli, per essere pienezza di tutte le cose.

11Ed egli ha dato ad alcuni di essere apostoli, ad altri di essere profeti, ad altri ancora di essere evangelisti, ad altri di essere pastori e maestri, 12per preparare i fratelli a compiere il ministero, allo scopo di edificare il corpo di Cristo, 13finché arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, fino all’uomo perfetto, fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo».

 

L’Apostolo riflettendo sul mistero dell’Ascensione al Cielo del Signore afferma, con riferimento al Salmo 68,19, citato al v. 8, che egli «asceso in alto ha portato con sé prigionieri». Si tratta dell’intera umanità da lui liberata, nel mistero della sua Pasqua, dalla schiavitù del male, del peccato e della morte. In pari tempo, il Signore una volta asceso al Cielo «ha distribuito doni agli uomini», allusione, forse, ai doni carismatici con i quali lo Spirito Santo abilita alcuni a svolgere quei ministeri idonei a «edificare il corpo di Cristo» (v.12), ossia la Chiesa, e a far sì che tutti gli uomini arrivino «all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio» (v.13).

 

Lettura del Vangelo secondo Luca (24,36b-53)

 

In quel tempo. 36BIl Signore Gesù in persona stette in mezzo a loro e disse: «Pace a voi!». 37Sconvolti e pieni di paura, credevano di vedere un fantasma . 38Ma egli disse loro: «Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? 39Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa, come vedete che io ho». 40  Dicendo questo, mostrò loro le mani e i piedi. 41Ma poiché per la gioia non credevano ancora ed erano pieni di stupore, disse: «Avete qui qualche cosa da mangiare?». 42Gli offrirono una porzione  di pesce arrostito; 43egli lo prese e lo mangiò davanti a loro.

44Poi disse: «Sono queste le parole che io vi dissi quando ero ancora con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella legge di Mosè, nel Profeti e nei Salmi».45Allora aprì loro la mente per comprendere le Scritture 46e disse loro: «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, 47e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. 48Di questo voi siete testimoni. 49Ed ecco, io mando su di voi colui che il Padre mio ha promesso; ma voi restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall’alto».

50Poi li condusse fuori verso Betania e, alzate le mani, li benedisse. 51Mentre li benediceva, si staccò da loro e veniva portato su in cielo. 52Ed essi di prostrarono davanti a lui; poi tornarono a Gerusalemme con grande gioia 53e stavano sempre nel tempio lodando Dio.

 

Il brano segue immediatamente quello dei due discepoli di Emmaus. Esso appare diviso in tre parti: nella prima: vv. 36-43 viene narrata l’apparizione del Signore agli Undici e ai discepoli radunati insieme e con la quale si dà a conoscere nella verità di Crocifisso/Risorto, il Vivente. Nella seconda parte (vv. 44-49), rifacendosi a quanto aveva già fatto con i discepoli di Emmaus, Gesù «aprì loro la mente per comprendere le Scritture» mostrando come esse concordano nell’annunziare che il Cristo, ossia il Messia, «patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno» secondo l’ineffabile disegno di Dio di universale salvezza. Questo dovrà essere «predicato a tutti i popoli» e «testimoniato» dai discepoli sui quali promette l’invio dello Spirito Santo. Nei versetti finali (50-53), l’evangelista riferisce l’evento dell’Ascensione del Signore che produce nel cuore dei discepoli grande gioia e lode a Dio.

 

Commento liturgico-pastorale

 

L’evento salvifico dell’Ascensione si colloca al “quarantesimo giorno” della presenza del Signore Risorto tra i suoi discepoli. In questi giorni, con le sue apparizioni, Gesù ha inteso irrobustire la fede dei suoi nella veridicità della sua risurrezione addirittura mangiando con loro (Vangelo: Luca 24,40-41). Una fede che va riposta in lui quale Figlio obbediente al volere del Padre il quale non lo ha abbandonato nella rete tenebrosa della morte, ma lo ha risuscitato e, ora, nell’Ascensione, lo innalza «al di sopra di tutti i cieli per essere pienezza di tutte le cose» (Epistola: Efesini 4,10).

In questi giorni, inoltre, il Signore Risorto ha dato le sue ultime istruzioni ai suoi in vista del raduno dei futuri credenti nella sua Chiesa e, soprattutto, ha promesso di mandare, una volta tornato al Padre, lo Spirito Santo per tenere viva tra di essi la sua parola e le sue azioni destinate alla salvezza del mondo intero.

Parola e gesti salvifici dei quali Gesù costituisce testimoni i suoi apostoli i quali dovranno recare «fino ai confini della terra» (Lettura: Atti 1,8); e «a tutti i popoli» (Luca 24,47), l’annunzio che la salvezza è in Cristo Crocifisso e Risorto.

Al fine di compiere una tale impresa, impari alle forze umane, Gesù promette ai suoi il «battesimo nello Spirito Santo», ovvero di immergerli nell’infuocata divina potenza che viene «dall’alto» (Luca 24,49) e che li abiliterà alla missione destinata ad abbracciare indistintamente, a partire da Gerusalemme, e da «tutta la Giudea e la Samaria» (Atti 1,8), tutte le genti.

Lo Spirito, inoltre, abiliterà gli apostoli a «compiere il ministero» in qualche modo già significato nel loro stare radunati insieme, vale a dire quello di «edificare il corpo di Cristo» (Efesini 4,12), facendo pervenire, attraverso la predicazione e la riproposizione dei gesti salvifici del Signore, «all’unità della fede» quanti credono e, questo, «fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo» (v.13).

I testi della preghiera liturgica, dal canto loro, amplificano la grazia propria racchiusa nel mistero pasquale che, nell’Ascensione, porta a compimento il disegno salvifico del Padre: quello che nel Figlio fatto uomo e che sale al di sopra dei cieli, in realtà, viene «restituito al genere umano lo splendore dei doni divini» e, in tal modo, viene «vinto e umiliato il demonio» che, inducendolo al peccato, ha fatto cadere l’uomo nell’abisso dell’umiliazione e della morte, annunzio della rovina eterna (cfr. Prefazio della Messa della vigilia).

Anche la preghiera A Conclusione della Liturgia della Parola della Messa “nel giorno” celebra la dignità alla quale, «nel Cristo asceso al Cielo è stato oggi elevato l’uomo», mentre quella Dopo la Comunione della stessa Messa, afferma che «nello slancio della sua ascensione all’alto dei cieli» il Signore Gesù «ha potentemente tratto con sé anche noi, liberandoci dalla schiavitù del peccato». Si tratta di realtà che fanno nascere nel cuore dei fedeli un’attenzione stupita e ammirata.

Mentre viviamo nella condizione provvisoria di questa vita terrena, la preghiera della Chiesa ci dice, infatti, che siamo in qualche modo già elevati alle altezze divine, diventati abitanti di quella Casa celeste nella quale il Signore ci ha preceduti per prepararci un posto così da stare per sempre dove lui è (cfr. Canto Allo Spezzare del Pane della Messa “nel giorno”). Sicché l’Ascensione del Signore rivela anche a noi, suoi fedeli, ciò che ci è preparato dalla bontà e dalla potenza divina per il nostro “oggi” eterno, a partire da questo nostro “oggi” provvisorio.

La celebrazione eucaristica è il luogo nel quale, accostandoci al Corpo e al Sangue del Signore, possiamo già sperimentare, le inesauribili ricchezze che sgorgano per noi e per ogni uomo dalla sua Pasqua.

Se ne fa efficace interprete l’orazione All’Inizio dell’Assemblea Liturgica della Messa “nel giorno”: «Con la parola del tuo vangelo tu insegni alla tua Chiesa, o Dio, a gustare le realtà sublimi ed eterne cui oggi è asceso il salvatore del mondo; donaci di contemplare nell’intelligenza della fede la gloria di Cristo risorto perché al suo ritorno possiamo conseguire le ricchezze sperate».

 

 


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5 maggio 2013 – VI domenica di Pasqua

Precede immediatamente la solennità pasquale dell’Ascensione, considerata come preludio alla missione dello Spirito della verità che rende viva nel cuore dei fedeli la Parola del Signore Gesù.

 

Il Lezionario

 

Fa leggere i seguenti testi biblici: Lettura: Atti  21,40b-22,22; Salmo: 66 (67); Epistola: Ebrei 7,17-26; Vangelo: Giovanni 16,12-22. Il Vangelo della Risurrezione da proclamare nella Messa vigiliare del sabato è preso da Giovanni 21,1-14.  (Le orazioni e i canti della Messa sono quelli propri della VI domenica di Pasqua nel Messale ambrosiano).

 

Lettura degli Atti degli Apostoli (21,40b-22,22)

 

In quei giorni. 40bPaolo, in piedi sui gradini, fece cenno con la mano al popolo, si fece un grande silenzio ed egli si rivolse loro ad alta voce in lingua ebraica, dicendo:

22,1 «Fratelli e padri, ascoltate ora la mia difesa davanti a voi». 2Quando sentirono che parlava loro in lingua ebraica, fecero ancora più silenzio. Ed egli continuò:3«Io sono un Giudeo, nato a Tarso in Cilìcia, ma educato in questa città, formato alla scuola di Gamaliele nell’osservanza scrupolosa della Legge dei padri, pieno di zelo per Dio, come oggi siete tutti voi. 4Io perseguitai a morte questa Via, incatenando e mettendo in carcere uomini e donne, 5come può darmi testimonianza anche il sommo sacerdote e tutto il collegio degli anziani. Da loro avevo anche ricevuto lettere per i fratelli e mi recai a Damasco per condurre prigionieri a Gerusalemme anche quelli che stanno là, perché fossero puniti.

6 Mentre ero in viaggio e mi stavo avvicinando a Damasco, verso mezzogiorno, all’improvviso una grande luce dal cielo sfolgorò attorno a me; 7caddi a terra e sentii una voce che mi diceva: “Saulo, Saulo, perché mi perséguiti?”. 8Io risposi: “Chi sei, o Signore?”. Mi disse: “Io sono Gesù il Nazareno, che tu perséguiti”. 9Quelli che erano con me videro la luce, ma non udirono la voce di colui che mi parlava. 10Io dissi allora: “Che devo fare, Signore?”. E il Signore mi disse: “Àlzati e prosegui verso Damasco; là ti verrà detto tutto quello che è stabilito che tu faccia”. 11E poiché non ci vedevo più, a causa del fulgore di quella luce, guidato per mano dai miei compagni giunsi a Damasco.

12 Un certo Anania, devoto osservante della Legge e stimato da tutti i Giudei là residenti, 13venne da me, mi si accostò e disse: “Saulo, fratello, torna a vedere!”. E in quell’istante lo vidi. 14Egli soggiunse: “Il Dio dei nostri padri ti ha predestinato a conoscere la sua volontà, a vedere il Giusto e ad ascoltare una parola dalla sua stessa bocca, 15perché gli sarai testimone davanti a tutti gli uomini delle cose che hai visto e udito. 16E ora, perché aspetti? Àlzati, fatti battezzare e purificare dai tuoi peccati, invocando il suo nome”.

17 Dopo il mio ritorno a Gerusalemme, mentre pregavo nel tempio, fui rapito in estasi 18e vidi lui che mi diceva: “Affréttati ed esci presto da Gerusalemme, perché non accetteranno la tua testimonianza su di me”. 19E io dissi: “Signore, essi sanno che facevo imprigionare e percuotere nelle sinagoghe quelli che credevano in te; 20e quando si versava il sangue di Stefano, tuo testimone, anche io ero presente e approvavo, e custodivo i vestiti di quelli che lo uccidevano”. 21Ma egli mi disse: “Va’, perché io ti manderò lontano, alle nazioni”».

22Fino a queste parole erano stati ad ascoltarlo, ma a questo punto alzarono la voce gridando: «Togli di mezzo costui; non deve più vivere!».

 

Il capitolo 22 contiene il discorso di autodifesa tenuto da Paolo a Gerusalemme in occasione del suo drammatico soggiorno conclusosi con il suo arresto e il suo appello a Cesare in qualità di cittadino romano. In particolare nei vv. 1-5 l’Apostolo si presenta come un giudeo osservante della Legge e persecutore della fede cristiana indicata con il termine Via. Nei vv. 6-11 narra ciò che avvenne sulla strada nelle vicinanze di Damasco dove si stava recando per annientare la locale comunità cristiana e del dialogo avuto con la voce che gli parlava da una grande luce, ovvero con Gesù Nazareno. I vv. 12-16 riferiscono dell’incontro a Damasco con Anania che gli rivela il volere di Dio nei suoi riguardi e lo battezza facendogli recuperare la vista persa nell’incontro folgorante con la grande luce. I vv. 17-21, infine, parlano dell’estasi avuta da Paolo nel tempio di Gerusalemme e del mandato ricevuto da Gesù: «Va’ perché io ti manderò lontano, alle nazioni!», ossia ai popoli pagani. Il v. 22 riferisce della reazione ostile della folla a conclusione del discorso di Paolo.

 

Lettera agli Ebrei (7,17-26)

 

Fratelli, 17a Cristo è resa questa testimonianza: «Tu sei sacerdote per sempre / secondo l’ordine di Melchìsedek».

18Si ha così l’abrogazione di un ordinamento precedente a causa della sua debolezza e inutilità – 19la Legge infatti non ha portato nulla alla perfezione – e si ha invece l’introduzione di una speranza migliore, grazie alla quale noi ci avviciniamo a Dio.20Inoltre ciò non avvenne senza giuramento. Quelli infatti diventavano sacerdoti senza giuramento; 21costui al contrario con il giuramento di colui che gli dice: «Il Signore ha giurato e non si pentirà: / tu sei sacerdote per sempre».

22Per questo Gesù è diventato garante di un’alleanza migliore.23Inoltre, quelli sono diventati sacerdoti in gran numero, perché la morte impediva loro di durare a lungo. 24Egli invece, poiché resta per sempre, possiede un sacerdozio che non tramonta. 25Perciò può salvare perfettamente quelli che per mezzo di lui si avvicinano a Dio: egli infatti è sempre vivo per intercedere a loro favore.

26 Questo era il sommo sacerdote che ci occorreva: santo, innocente, senza macchia, separato dai peccatori ed elevato sopra i cieli.

 

Il brano riprende ancora una volta il tema del sacerdozio di Cristo nella linea, non di quello levitico, ma secondo «l’ordine di Melchisedek» (v. 17). Questo rappresenta l’abrogazione del precedente ordinamento che si è mostrato debole e inutile (vv. 18-19). Inoltre, diversamente dal precedente, il sacerdozio di Gesù si fonda su un giuramento di Dio (vv. 20-21) e, di conseguenza, quello di Gesù «è un sacerdozio che non tramonta» (vv. 22-25). Il brano si conclude al v. 26 con la descrizione delle caratteristiche di Gesù sommo sacerdote.

 

Lettura del Vangelo secondo Giovanni (16,12-22)

 

In quel tempo. Il Signore Gesù disse ai suoi discepoli: 12«Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. 13Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future. 14Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà. 15Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà.16Un poco e non mi vedrete più; un poco ancora e mi vedrete». 17Allora alcuni dei suoi discepoli dissero tra loro: «Che cos’è questo che ci dice: “Un poco e non mi vedrete; un poco ancora e mi vedrete”, e: “Io me ne vado al Padre”?». 18Dicevano perciò: «Che cos’è questo “un poco”, di cui parla? Non comprendiamo quello che vuol dire».

19Gesù capì che volevano interrogarlo e disse loro: «State indagando tra voi perché ho detto: “Un poco e non mi vedrete; un poco ancora e mi vedrete”? 20In verità, in verità io vi dico: voi piangerete e gemerete, ma il mondo si rallegrerà. Voi sarete nella tristezza, ma la vostra tristezza si cambierà in gioia.

21La donna, quando partorisce, è nel dolore, perché è venuta la sua ora; ma, quando ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più della sofferenza, per la gioia che è venuto al mondo un uomo. 22Così anche voi, ora, siete nel dolore; ma vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno potrà togliervi la vostra gioia».

 

Il brano fa parte dei discorsi di addio pronunciati da Gesù nel Cenacolo prima della sua morte. Qui, in particolare, sviluppa ciò che aveva già detto sullo Spirito Santo come conseguenza “positiva” della sua dipartita. Lo Spirito, infatti, è lo Spirito della verità che aiuterà i discepoli a comprendere in pienezza la rivelazione del Signore e riverserà su di essi tutti i tesori di grazia che appartengono a lui (vv. 12-15). I vv. 16-22 parlano di una nuova presenza di Gesù che non sarà più a livello fisico ma «nello Spirito». La sua presenza porterà gioia ai suoi discepoli tristi per la sua dipartita e la conseguente loro solitudine tra le prove di questo mondo.

 

Commento liturgico-pastorale

 

I testi biblici oggi proclamati, e in particolare il brano evangelico, illuminano il cammino della Chiesa sino al ritorno definitivo del Signore risorto e vivente presso il Padre.

Nel momento di congedarsi dai suoi prima della sua passione, Gesù dimostra di essere consapevole che la sua opera di rivelazione non si è ancora completamente conclusa perché i discepoli non sono «capaci di portarne il peso» (Vangelo: Giovanni 16,12). Essi, cioè, non sono ancora in grado di comprendere fino in fondo il senso ultimo e la portata della sua Pasqua e dei momenti che la contraddistinguono. Inoltre il Signore sa che la sua separazione provocherà in essi pianto, gemito e tristezza (v. 20) e sperimenteranno la paura di fronte agli avvenimenti che li riguarderanno da vicino.

Ciò che il Signore dice in riferimento alle conseguenze del suo pur momentaneo allontanamento dai suoi con la sua morte prima e con la sua ascensione al cielo, è destinato a orientare anche oggi la vita della Chiesa e di ogni credente.

Il suo allontanamento, infatti, permette il sopravvenire sui suoi di Colui che è designato come lo Spirito della verità (v. 13), il quale non ha un messaggio suo personale da recare ai discepoli ma porterà a compimento quelle cose che Gesù voleva ancora dire ad essi (cfr. v. 12), ossia dirà nel cuore della Chiesa le cose che egli stesso riceve da Gesù.

Lo Spirito Santo, pertanto, portando ai discepoli il messaggio di Gesù, rende viva e presente la sua persona dotata di tutto quello «che il Padre possiede» (v. 15) e che gli appartiene a motivo del suo essere Figlio!

Con il messaggio, perciò, lo Spirito porta tra i discepoli tutti i tesori di grazia che appartengono a Gesù Crocifisso e Risorto ed elevato sopra i cieli da dove, come sommo sacerdote, è in grado di «salvare perfettamente quelli che per mezzo di lui si avvicinano a Dio» (Epistola: Ebrei 7,25).

Lo Spirito Santo, pertanto, lungo i tempi trasmette la rivelazione portata storicamente nel mondo, dal Verbo fatto uomo, e partecipa ai fedeli, mediante il sacrificio eucaristico e gli altri sacramenti, tutti i tesori di grazia e di salvezza che Gesù, il Crocifisso/Risorto, esaltato presso il Padre, possiede. Egli, perciò, continua a essere presente tra i suoi “spiritualmente”, grazie cioè all’azione dello Spirito che lo rende perennemente attivo nella sua Chiesa.

Questa sperimenterà, nell’intervallo interposto tra la dipartita del Signore e il suo ritorno, il pianto e la tristezza. Il mondo, infatti, che nel Vangelo di Giovanni può indicare quella realtà pregiudizialmente e irriducibilmente ostile a Gesù e, dunque, a quanti aderiscono a lui, si opporrà, anche con la persecuzione violenta, all’ opera di evangelizzazione e di annuncio di «una speranza migliore» (Ebrei 7,19) che è stata introdotta nel mondo dal sacrificio pasquale del Signore Gesù. Sarà lui, il Signore risorto, sulla via di Damasco, a trasformare Saulo, «formato alla scuola di Gamaliele nell’osservanza scrupolosa della Legge dei padri» (Lettura: Atti degli Apostoli 22,3) e persecutore della «Via» (v.4), ossia della nascente fede cristiana, nell’Apostolo mandato «lontano, alle nazioni» (v.21) a predicare proprio quella Via perché in essa possano essere salvate.

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28 aprile 2013 – V domenica di Pasqua

I testi biblici, oggi proclamati, orientano l’assemblea liturgica verso il compimento dei giorni pasquali nel mistero dell’Ascensione, preludio dell’invio, da parte del Signore risorto, dello Spirito Santo.

 

Il Lezionario

 

Riporta i seguenti brani biblici: Lettura: Atti degli Apostoli 4,32-37; Salmo 132 (133); Epistola: 1Corinzi 12,31-13,8a; Vangelo: Giovanni 13,31b-35. Il Vangelo della Risurrezione da proclamare nella Messa vigiliare è preso da: Matteo 28,8-10. (Le orazioni e i canti sono quelli propri della V domenica di Pasqua nel Messale Ambrosiano).

 

Lettura degli Atti degli Apostoli (4,32-37)

 

In quei giorni. 32La moltitudine di coloro che erano diventati credenti aveva un cuore solo e un’anima sola e nessuno considerava sua proprietà quello che gli apparteneva, ma fra loro tutto era comune. 33Con grande forza gli apostoli davano testimonianza della risurrezione del Signore Gesù e tutti godevano di grande favore. 34Nessuno infatti tra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano il ricavato di ciò che era stato venduto 35e lo deponevano ai piedi degli apostoli; poi veniva distribuito a ciascuno secondo il suo bisogno.
36Così Giuseppe, soprannominato dagli apostoli Bàrnaba, che significa “figlio dell’esortazione”, un levita originario di Cipro, 37padrone di un campo, lo vendette e ne consegnò il ricavato deponendolo ai piedi degli apostoli.

 

I versetti qui riportati concludono il capitolo che narra della testimonianza offerta da Pietro e Giovanni davanti al Sinedrio (4,1-31). Al v. 32 si parla della mirabile concreta comunione che unisce in unum la prima comunità cristiana di Gerusalemme. Ciò rende particolarmente efficace la predicazione degli apostoli e attira le simpatie e il favore della gente (v. 33). I vv. 34-35 esemplificano, nella condivisione dei beni materiali, la portata della comunione all’interno della comunità. È ciò che è spinto a fare anche un ebreo della diaspora, Barnaba, che avrà poi il grande merito di introdurre Paolo, una volta convertito, nella Chiesa (vv.36-37).

 

Prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi (12,31-13,8a)

 

Fratelli, 31desiderate intensamente i carismi più grandi. E allora vi mostro la via più sublime.

13,1Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sarei come bronzo che rimbomba o come cimbalo che strepita.

2 E se avessi il dono della profezia, se conoscessi tutti i misteri e avessi tutta la conoscenza, se possedessi tanta fede da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sarei nulla.

3E se anche dessi in cibo tutti i miei beni e consegnassi il mio corpo per averne vanto, ma non avessi la carità, a nulla mi servirebbe.

4La carità è magnanima, benevola è la carità; non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia d’orgoglio, 5non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, 6non gode dell’ingiustizia ma si rallegra della verità. 7Tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta.

8La carità non avrà mai fine.

 

Il brano, con il v.31, si collega a quanto l’Apostolo dice nel capitolo 12 a proposito dei carismi, che sono doni dello Spirito per l’edificazione della Chiesa. Per l’Apostolo esiste una «via più sublime» dei vari carismi ed è la carità, ovvero l’amore proprio di Dio che in Cristo ci è stato donato. Nei vv. 1-3 del capitolo 13 pone in raffronto i diversi carismi con la carità, evidenziando l’inutilità dei primi in mancanza di essa. Nei vv. 4-7, con una serie di negazioni e di affermazioni, descrive la natura della carità. Essa, a differenza dei carismi, che riguardano l’esistenza nel tempo, è destinata a non avere «mai fine» (v. 8a).

 

Lettura del Vangelo secondo Giovanni (13,31b-35)

 

In quel tempo. 31bIl Signore Gesù disse: «Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e Dio è stato glorificato in lui. 32Se Dio è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà da parte sua e lo glorificherà subito. 33Figlioli, ancora per poco sono con voi; voi mi cercherete ma, come ho detto ai Giudei, ora lo dico anche a voi: dove vado io, voi non potete venire. 34Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. 35Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri».

 

Il brano è ambientato nel cenacolo dove Gesù consuma l’ultimo pasto con i suoi, lava i piedi degli apostoli e rivela, tra di essi, la presenza del traditore. In particolare i vv. 31b-32 riportano le parole di Gesù dopo l’uscita di Giuda dal cenacolo. Con l’affermazione iniziale Gesù  si riferisce alla sua morte, che è l’“ora” verso la quale converge tutta la sua esistenza terrena (v.31b). La sua ora segna la sua “glorificazione” da parte di Dio, perché Gesù ha accettato la morte come compimento del disegno salvifico del Padre. L’azione di Dio volta a glorificare il Figlio rivela la gloria stessa di Dio! Il v. 32 ribadisce che Dio glorificherà «subito» il Figlio ovvero nell’ora della sua morte oramai imminente. I vv. 33-35 introducono, nel discorso di addio, il tema della partenza di Gesù che egli rivolge ai suoi, identificati con il termine familiare «figlioli». Essi, al pari dei giudei, non sono ancora in grado di raggiungerlo nella sfera divina nella quale va dopo la sua morte. E questo a causa della persistente incredulità (v. 33). Segue ai vv. 34-35 la rivelazione del comandamento nuovo e la precisazione della natura di tale amore. Il comandamento dell’amore vicendevole tra i discepoli è nuovo in quanto nel loro amore, si manifesta, in realtà, l’amore con il quale Gesù li ha amati e dona ad essi la grazia di amare (v. 34). Tale amore ha come risultato il fatto della riconoscibilità di essi come discepoli di Gesù (v. 35).

 

Commento liturgico-pastorale

 

I passi biblici proclamati in questa domenica ci aiutano a penetrare più a fondo nella comprensione del mistero della Pasqua del Signore che culmina con il suo ritorno al Padre e con l’invio dello Spirito Paraclito, il Consolatore, che subentra, al suo posto, tra i suoi. Anche la preghiera liturgica sottolinea che «in questo tempo santo» la Chiesa è consacrata  «a contemplare e a rivivere gli eventi salvifici della pasqua di Cristo» (Prefazio).

Il brano evangelico, in particolare, ci trasporta nel cenacolo dove Gesù stesso, nel guardare in faccia la sua morte, oramai imminente, la chiama glorificazione! In essa, infatti, lui, quale Figlio obbediente, “glorifica” il Padre, ossia manifesta il disegno salvifico in essa racchiuso. A sua volta, il Padre, “glorifica” il Figlio facendolo penetrare nell’intimità della comunione divina alla quale potranno accedere anche coloro che avranno creduto in lui.

Da ciò impariamo anche noi a dare “gloria” al Padre del Cielo compiendo in noi, al pari del suo Figlio, la sua volontà. Il Padre non mancherà di donarci, così come ha fatto con il suo Figlio, l’esperienza sublime della comunione con lui che, essenzialmente, è esperienza di amore. Quello che Gesù ha reso visibile, e a tutti concretamente riconoscibile nella sua Pasqua e, segnatamente, nella sua “ora”, ossia nella sua Croce!

Si comprende, perciò, come il Signore, nel momento di prendere congedo dai suoi, consegna ad essi il suo comandamento, che egli dice «nuovo» in quanto consiste nell’amare di quell’amore con il quale sono stati amati da lui. Un simile amore, è evidente, non ci è connaturato, né si persegue mediante i nostri sforzi, ma procede dall’amore con il quale Gesù ci ha amati e che ci rende capaci di manifestare nell’amore reciproco verso i fratelli.

Del resto egli, nel sacramento del suo Corpo immolato e del suo Sangue versato, ci trasmette intatto e di continuo il suo amore, spinto fino al dono supremo di sé, e ci abilita a far sprigionare da noi, che «partecipiamo del suo Corpo e del suo Sangue», lo stesso suo amore!

È la solenne consegna del Signore che sta per avviarsi alla Croce, ai suoi discepoli. Essi l’hanno accolta, messa in pratica e trasmessa come eredità preziosa alle future generazioni di credenti fino ad oggi. È la consegna che la Chiesa oggi è chiamata a vivere in faccia a questo nostro mondo: rendere visibile il suo amore per tutti! Si pensi, a tale riguardo, al ruolo che l’apostolo Paolo assegna alla carità nella vita e nell’attività delle comunità cristiane delle origini e, dunque, della Chiesa di tutti i tempi. Essa dovrà sempre desiderare «i carismi più grandi» (Epistola: 1Corinzi 12,31), vale a dire quei doni spirituali capaci di farla crescere, di sostenere la sua vita e di rendere efficace la sua attività missionaria. Tali carismi, di per sé provvisori, sono tutti compresi nel dono della carità la quale, invece, «non avrà mai fine» (13,8).

L’amore vicendevole, quello stesso del Signore, che i credenti si donano reciprocamente,  mentre li identifica nel tempo come discepoli di Gesù, rappresenta la forma più alta ed efficace di evangelizzazione. Tutto ciò è stato ben compreso fin dalle origini della comunità cristiana come ci testimonia la Lettura: «La moltitudine di coloro che erano diventati credenti aveva un cuore solo e un’anima sola» (Atti degli Apostoli 4,32). Ciò permetteva agli apostoli di dare concreta «testimonianza alla risurrezione del Signore Gesù» (v. 33) e alla comunità di godere di autentico prestigio tra la gente.

Mentre nell’assemblea liturgica partecipiamo al sacramento della carità di Cristo, facciamo risuonare in noi ciò che abbiamo ripetuto più volte nel Salmo Responsoriale: «Dove la carità è vera, abita il Signore». Stiano, inoltre, fisse nei nostri cuori le parole dell’apostolo intenzionato a mostrarci «la via più sublime» che è la carità, ovvero l’amore del Signore riversato in tutti noi nel suo celeste sacramento e che, per sua grazia, deve da noi traboccare sui nostri fratelli di fede e sugli uomini del nostro tempo.

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21 aprile 2013 – IV domenica di Pasqua

Le Scritture oggi proclamate mettono in luce come il Signore Gesù, nella sua Pasqua, diviene guida, per quanti credono in lui, nell’esperienza dell’amore filiale per Dio sorgente dell’amore fraterno.

 

Il Lezionario

 

Sono proposti i seguenti testi della Scrittura: Lettura: Atti 21,8b-14; Salmo 15 (16); Epistola: Filippesi 1,8-14; Vangelo: Giovanni 15,9-17. Nella Messa vigiliare viene letto Luca 24,9-12 come Vangelo della risurrezione. (Le orazioni e i canti della Messa sono quelli propri della IV domenica di Pasqua nel Messale Ambrosiano).

 

Lettura degli Atti degli Apostoli (21,8b-14)

 

In quei giorni.8bEntrati nella casa di Filippo l’evangelista, che era uno dei Sette, restammo presso di lui. 9Egli aveva quattro figlie nubili, che avevano il dono della profezia. 10Eravamo qui da alcuni giorni, quando scese dalla Giudea un profeta di nome Àgabo. 11Egli venne da noi e, presa la cintura di Paolo, si legò i piedi e le mani e disse: «Questo dice lo Spirito Santo: l’uomo al quale appartiene questa cintura, i Giudei a Gerusalemme lo legheranno così e lo consegneranno nelle mani dei pagani». 12All’udire queste cose, noi e quelli del luogo pregavamo Paolo di non salire a Gerusalemme. 13Allora Paolo rispose: «Perché fate così, continuando a piangere e a spezzarmi il cuore? Io sono pronto non soltanto a essere legato, ma anche a morire a Gerusalemme per il nome del Signore Gesù». 14E poiché non si lasciava persuadere, smettemmo di insistere dicendo: «Sia fatta la volontà del Signore!».

 

La scena si svolge a Cesarea, ultima tappa del viaggio di Paolo a Gerusalemme dove, in seguito ai tumulti scoppiati per la sua presenza nel Tempio sarebbe stato arrestato e, a motivo del suo “appello a Cesare”, imbarcato per Roma dove avrebbe subito un primo processo con esito favorevole. Più in particolare la scena è ambientata a casa del diacono Filippo (vv. 8-9). Qui l’Apostolo è raggiunto da Àgabo, un “profeta” che con il gesto di legargli mani e piedi, illustra efficacemente ciò che sarebbe accaduto in occasione della sua visita a Gerusalemme dove sarebbe stato consegnato prigioniero ai Romani (vv. 10-11). Di qui l’accorata supplica della comunità cristiana di non salire a Gerusalemme e la risposta di Paolo disposto «a morire per il nome del Signore Gesù» (v. 13). Il brano si conclude con la decisione di rimettersi alla volontà del Signore (v. 14).

 

Lettera di san Paolo apostolo ai Filippesi (1,8-14)

 

Fratelli,8Dio mi è testimone del vivo desiderio che nutro per tutti voi nell’amore di Cristo Gesù. 9E perciò prego che la vostra carità cresca sempre più in conoscenza e in pieno discernimento, 10perché possiate distinguere ciò che è meglio ed essere integri e irreprensibili per il giorno di Cristo, 11ricolmi di quel frutto di giustizia che si ottiene per mezzo di Gesù Cristo, a gloria e lode di Dio.

12Desidero che sappiate, fratelli, come le mie vicende si siano volte piuttosto per il progresso del Vangelo, 13al punto che, in tutto il palazzo del pretorio e dovunque, si sa che io sono prigioniero per Cristo. 14In tal modo la maggior parte dei fratelli nel Signore, incoraggiati dalle mie catene, ancor più ardiscono annunciare senza timore la Parola.

 

Nei vv. 8-11, l’Apostolo manifesta i suoi affettuosi sentimenti nei riguardi della comunità cristiana di Filippi, da lui fondata, e insieme supplica il Signore perché essa cresca nella carità e nella vita integra del Vangelo. Nei vv. 12-14, Paolo allude alla sua condizione di prigioniero, che non gli impedisce di predicare il Vangelo e che rinvigorisce anche i credenti ad annunciare senza timore la Parola.

 

Lettura del Vangelo secondo Giovanni (15,9-17)

 

In quel tempo. Il Signore Gesù disse ai discepoli: «9Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. 10Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. 11Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena.

Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi. 13Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici. 14Voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando. 15Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi. 16Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga; perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome ve lo conceda. Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri».

 

Il testo evangelico è ambientato nel Cenacolo di Gerusalemme e riproduce quella parte del discorso di rivelazione introdotto dall’affermazione di Gesù di essere la «vite vera» e il Padre il «vignaiolo» (v. 1). Qui viene presentato il Padre come sorgente dell’amore. Da lui, dal suo amore per il Figlio, scaturisce quello di Gesù per i suoi discepoli i quali sono invitati a “rimanere” nel suo amore e, dunque, in quello del Padre (v. 9). Il v.10 chiarisce che rimanere nell’amore significa, molto concretamente, obbedire ai suoi comandamenti sul modello dell’obbedienza di Gesù al Padre. Tale obbedienza fa gioire il discepolo della stessa gioia del Figlio che fa la volontà del Padre (v. 11). A questo punto Gesù presenta l’amore fraterno come il “suo” comandamento (v. 12). La sua osservanza prova che il discepolo rimane nell’amore stesso di atto supremo del suo amore! L’amore assoluto di Gesù motiva la fedeltà del discepolo al suo comandamento. Chi lo osserva è amico di Gesù (v. 14) e non più suo servo, titolo che nella Scrittura sta a indicare chi è fedele a Dio. Al suo amico Gesù rivela la sua intima relazione filiale con il Padre (v. 15). Il v. 16 chiarisce che è Gesù in persona a scegliere i suoi discepoli e ad assicurarli che anch’essi porteranno frutto duraturo mantenendosi nella fede e nell’amore in lui e nell’osservanza del suo comandamento a cui vengono ancora una volta esortati (v. 17).

 

Commento liturgico-pastorale

 

I testi biblici proclamati in questa domenica di Pasqua ci offrono la possibilità di cogliere il significato più alto di quell’evento, ciò che esso esprime, ciò che da esso viene a noi e, di conseguenza, quanto esso ci domanda.

Alla luce di quanto abbiamo ascoltato nella pagina evangelica dobbiamo dire che la ragione che ha spinto il Signore Gesù a «dare la sua vita» (Vangelo: Giovanni 15,13) è l’amore «più grande» che arde nel suo cuore.

Un amore che lo unisce al Padre fonte dell’amore stesso del suo Figlio e che egli fa traboccare su «i suoi», su quanti accolgono con fede la sua parola di rivelazione. Si tratta, però, non di un amore sentimentale e semplicemente rivelatore di un affetto, ma molto concretamente della totale piena disponibilità di Gesù, il Figlio, a obbedire ai comandamenti del Padre suo, a fare cioè la sua volontà. La sua Pasqua di morte e di risurrezione, perciò, è simultaneamente l’epifania suprema dell’amore di Gesù, il Figlio, per il Padre e del suo amore per i suoi.

Amore che nella preghiera liturgica è cantato come la motivazione di fondo di tutto ciò che il Signore Gesù ha fatto per noi: «Mosso a compassione per l’umanità che si era smarrita, egli si degnò di nascere dalla vergine Maria; morendo ci liberò dalla morte e risorgendo ci comunicò la vita immortale» (Prefazio). 

A ben guardare, però, occorre precisare che Gesù partecipa ai suoi discepoli il suo stesso amore per il Padre e insegna a essi a fare altrettanto, a obbedire cioè anch’essi al suo comandamento: quello dell’amore fraterno che, di fatto, esige la disponibilità a «dare la propria vita» (v. 13).

È l’amore incandescente che riscontriamo nell’apostolo Paolo il quale considera del tutto positiva la sua condizione di «prigioniero per Cristo» (Epistola: Filippesi 1,13) che, tra l’altro, infiamma i suoi fratelli nella fede ad annunziare «senza timore la Parola» (v. 14). Un amore, quello di Paolo, che in totale uniformità al suo Signore, si manifesta nella convinta disponibilità «a morire a Gerusalemme per il nome del Signore Gesù» (Lettura: Atti degli Apostoli 21, 14).

A tale riguardo è possibile anche a noi verificare l’esistenza nel nostro spirito dell’amore “di” Gesù e “per” Gesù se avvertiamo nell’intimo dei nostri cuori un’irresistibile inclinazione alla carità fraterna concretamente vissuta. È questo, infatti, il «frutto» portato da Gesù nella sua Pasqua ed è questo il «frutto» duraturo che siamo chiamati anche noi, come suoi discepoli, a portare in questo mondo.

Un simile amore, spinto fino al dono di sé, non nasce spontaneamente nel cuore dell’uomo, ma è dono che procede dalla Pasqua del Signore Gesù dispensato nei sacramenti pasquali e, massimamente, nell’Eucaristia. Essa, infatti, ci fa partecipare dell’amore vicendevole del Padre e del Figlio. Un amore che, in Gesù, si è reso a tutti visibile come obbedienza al volere salvifico del Padre che, nel dono della vita del suo unigenito, intende fare degli uomini i suoi figli!

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14 aprile 2013 – III domenica di Pasqua

Questa, come le successive tre domeniche, scandisce la prima parte del Tempo di Pasqua, vale a dire i quaranta giorni della permanenza del Risorto tra i suoi discepoli prima sua ascensione al cielo, ovvero del suo ritorno glorioso al Padre. In particolare le Scritture lette in questa domenica nelle nostre assemblee liturgiche proclamano che il Signore, nella sua Risurrezione, è la luce che, diffusa nel mondo dalla predicazione degli apostoli suoi testimoni, deve illuminare l’intera umanità.

 

Il Lezionario

 

Presenta i seguenti brani biblici: Lettura: Atti 28,16-28; Salmo: 96 (97); Epistola: Romani 1,1-16b; Vangelo: Giovanni 8,12-19. Nella Messa vigiliare del sabato viene proclamato Marco 16,1-8a come Vangelo della Risurrezione. (Le orazioni e i canti della Messa sono quelli propri della III domenica di Pasqua del Messale Ambrosiano).

 

Lettura degli Atti degli Apostoli (28,16-28)

 

In quei giorni. 16Arrivati a Roma, fu concesso a Paolo di abitare per conto suo con un soldato di guardia.
17Dopo tre giorni, egli fece chiamare i notabili dei Giudei e, quando giunsero, disse loro: «Fratelli, senza aver fatto nulla contro il mio popolo o contro le usanze dei padri, sono stato arrestato a Gerusalemme e consegnato nelle mani dei Romani. 18Questi, dopo avermi interrogato, volevano rimettermi in libertà, non avendo trovato in me alcuna colpa degna di morte. 19Ma poiché i Giudei si opponevano, sono stato costretto ad appellarmi a Cesare, senza intendere, con questo, muovere accuse contro la mia gente. 20Ecco perché vi ho chiamati: per vedervi e parlarvi, poiché è a causa della speranza d’Israele che io sono legato da questa catena». 21Essi gli risposero: «Noi non abbiamo ricevuto alcuna lettera sul tuo conto dalla Giudea né alcuno dei fratelli è venuto a riferire o a parlar male di te. 22Ci sembra bene tuttavia ascoltare da te quello che pensi: di questa setta infatti sappiamo che ovunque essa trova opposizione».
23E, avendo fissato con lui un giorno, molti vennero da lui, nel suo alloggio. Dal mattino alla sera egli esponeva loro il regno di Dio, dando testimonianza, e cercava di convincerli riguardo a Gesù, partendo dalla legge di Mosè e dai Profeti. 24Alcuni erano persuasi delle cose che venivano dette, altri invece non credevano. 25Essendo in disaccordo fra di loro, se ne andavano via, mentre Paolo diceva quest’unica parola: «Ha detto bene lo Spirito Santo, per mezzo del profeta Isaia, ai vostri padri:26“Va’ da questo popolo e di’: / Udrete, sì, ma non comprenderete;/ guarderete, sì, ma non vedrete. / 27 Perché il cuore di questo popolo è diventato insensibile, / sono diventati duri di orecchi / e hanno chiuso gli occhi, / perché non vedano con gli occhi,
non ascoltino con gli orecchi / e non comprendano con il cuoree non si convertano, e io li guarisca!” / 28Sia dunque noto a voi che questa salvezza di Dio fu inviata alle nazioni, ed esse ascolteranno!».

 

Il brano riguarda la prima predicazione dell’apostolo Paolo a Roma in occasione della sua prigionia dopo l’appello fatto a Cesare in seguito ai tumulti scoppiati a Gerusalemme (si veda, per questo, Atti degli Apostoli 21,27-40 e i capitoli dal 22 al 28). I vv. 17-22 parlano del primo positivo incontro avuto da Paolo con i notabili dei Giudei della città, ai quali afferma che egli è prigioniero «a causa della speranza d’Israele». Nel suo secondo incontro: vv. 23-28, Paolo presenta la figura e il messaggio di Gesù come intimamente connessi alla rivelazione vetero-testamentaria, trovando in alcuni suoi interlocutori pronta accoglienza e, in altri, il deciso rifiuto a credere. Rifiuto che l’Apostolo commenta con la citazione di Isaia 6, 9-10 nella quale si annuncia l’indurimento di Israele nel credere alla parola di Dio (vv.25-27), per concludere che la che la salvezza che è in Cristo Signore viene ora annunciata e offerta alle nazioni (v. 28), ossia ai popoli pagani che si mostreranno disponibili ad accoglierla (v.28).

 

 

Lettera di san Paolo apostolo ai Romani (1,1-16b)

 

1Paolo, servo di Cristo Gesù, apostolo per chiamata, scelto per annunciare il vangelo di Dio – 2che egli aveva promesso per mezzo dei suoi profeti nelle sacre Scritture 3e che riguarda il Figlio suo, nato dal seme di Davide secondo la carne, 4costituito Figlio di Dio con potenza, secondo lo Spirito di santità, in virtù della risurrezione dei morti, Gesù Cristo nostro Signore; 5per mezzo di lui abbiamo ricevuto la grazia di essere apostoli, per suscitare l’obbedienza della fede in tutte le genti, a gloria del suo nome, 6e tra queste siete anche voi, chiamati da Gesù Cristo –, 7a tutti quelli che sono a Roma, amati da Dio e santi per chiamata, grazia a voi e pace da Dio, Padre nostro, e dal Signore Gesù Cristo!

8 Anzitutto rendo grazie al mio Dio per mezzo di Gesù Cristo riguardo a tutti voi, perché della vostra fede si parla nel mondo intero. 9Mi è testimone Dio, al quale rendo culto nel mio spirito annunciando il vangelo del Figlio suo, come io continuamente faccia memoria di voi, 10chiedendo sempre nelle mie preghiere che, in qualche modo, un giorno, per volontà di Dio, io abbia l’opportunità di venire da voi. 11Desidero infatti ardentemente vedervi per comunicarvi qualche dono spirituale, perché ne siate fortificati, 12o meglio, per essere in mezzo a voi confortato mediante la fede che abbiamo in comune, voi e io. 13Non voglio che ignoriate, fratelli, che più volte mi sono proposto di venire fino a voi – ma finora ne sono stato impedito – per raccogliere qualche frutto anche tra voi, come tra le altre nazioni. 14Sono in debito verso i Greci come verso i barbari, verso i sapienti come verso gli ignoranti: 15sono quindi pronto, per quanto sta in me, ad annunciare il Vangelo anche a voi che siete a Roma.

16Io infatti non mi vergogno del Vangelo, perché è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede.

 

Il brano si apre con una prima parte dedicata alla presentazione del mittente della lettera (v. 1), del suo mandato apostolico, del contenuto essenziale della sua predicazione (vv. 2-6) e con l’indicazione dei destinatari della lettera stessa con il saluto iniziale (v. 7). Nei vv. 8-12 l’Apostolo fa continuo riferimento al suo desiderio di venire a Roma dove esiste già una comunità cristiana della cui fede «si parla nel mondo intero». In particolare l’Apostolo, più che il Vangelo già in essa annunziato, afferma di voler comunicare ai fedeli di Roma «qualche dono spirituale» (v. 11) e soprattutto trarre conforto, «mediante la fede che abbiamo in comune, voi e io» (v. 12). L’Apostolo deve però constatare che questo suo desiderio non si è potuto ancora realizzare (v. 13). Quindi dichiara di sentirsi in debito verso tutti gli uomini del suo impegno missionario che è l’essenza della sua vocazione (v. 14; Cfr. v.1) e che ora intende saldare dicendosi pronto ad «annunciare il Vangelo anche a voi che siete in Roma» (v. 15), nell’assoluta convinzione che esso è «potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede» (v. 16).

 

Lettura del Vangelo secondo Giovanni (8,12-19)

 

In quel tempo. 12Il Signore Gesù parlò agli scribi e ai farisei e disse: «Io sono la luce del mondo; chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita». 13Gli dissero allora i farisei: «Tu dai testimonianza di te stesso; la tua testimonianza non è vera». 14Gesù rispose loro: «Anche se io do testimonianza di me stesso, la mia testimonianza è vera, perché so da dove sono venuto e dove vado. Voi invece non sapete da dove vengo o dove vado. 15Voi giudicate secondo la carne; io non giudico nessuno. 16E anche se io giudico, il mio giudizio è vero, perché non sono solo, ma io e il Padre che mi ha mandato. 17E nella vostra Legge sta scritto che la testimonianza di due persone è vera. 18Sono io che do testimonianza di me stesso, e anche il Padre, che mi ha mandato, dà testimonianza di me». 19Gli dissero allora: «Dov’è tuo padre?». Rispose Gesù: «Voi non conoscete né me né il Padre mio; se conosceste me, conoscereste anche il Padre mio».

 

Il presente brano riporta quasi per intero la prima parte dell’insegnamento di Gesù nel Tempio in occasione della festa delle Capanne (vv. 12-30) e che occupa l’intero ottavo capitolo. In particolare, i versetti, oggi proclamati, si aprono con la solenne rivelazione: «Io sono la luce del mondo» (v.12) si badi, non del solo Israele, ma di tutte le genti. L’umanità intera, perciò, è invitata a seguire Gesù, a credere in lui per raggiungere la vita che Dio le offre. Il v. 13 riporta la contestazione da parte dei farisei i quali rifiutano di accogliere la sua rivelazione perché priva di testimoni che ne attestino la veridicità. La risposta di Gesù (vv. 14-18) si articola nel rivendicare anzitutto la veridicità della sua testimonianza in quanto egli ha perfetta coscienza circa la sua origine dal Padre e circa il suo destino che contempla il suo ritorno al Padre, al contrario dei suoi interlocutori che giudicano secondo la carne (v. 15) ossia secondo le umane apparenze, privi come sono della fede. Gesù, inoltre, è veritiero in quanto, oltre alla sua, può portare la testimonianza del  Padre, della cui Parola egli è il rivelatore supremo (vv. 16-18). Alla  nuova domanda dei farisei: «Dov’è tuo padre?» (v. 19a), Gesù risponde stigmatizzando la loro incredulità che impedisce loro di conoscere lui e il Padre. Solo la fede in lui, dunque offre il dono di comprendere che conoscere lui equivale a conoscere il Padre (v. 19b).

 

Commento liturgico-pastorale

 

I giorni pasquali rappresentano una grande opportunità per dilatare gli spazi della nostra fede, del nostro amore e della nostra speranza nel Signore Gesù risorto dai morti.

Occorre, perciò, vivere questi giorni chiedendo senza interruzione al Padre del Cielo: «Donaci occhi, Signore, per vedere la tua gloria» (Salmo 96/97). La gloria di Dio, come sappiamo e crediamo, brilla sopra ogni umana capacità e comprensione nel suo Figlio, il Risorto dalle orribili tenebre della morte!

Il Signore Gesù, pertanto, è, in tutta verità, «la luce del mondo» (Vangelo: Giovanni 8,12). Egli, cioè, rivela e proclama a tutte le nazioni e ad ogni uomo che il suo destino, quello di Figlio glorificato e definitivamente sottratto al potere della morte, è il destino che attende ogni uomo che crede in lui non soltanto come rivelatore ma come Figlio di Dio, il Padre! È questo il Vangelo che gli apostoli hanno predicato e testimoniato a tutti i popoli della terra.

Ne è esemplare testimonianza ciò che abbiamo letto nella Lettura che riporta la ferma, serena consapevolezza dell’apostolo Paolo che la luce salvifica che brilla sul volto del Signore deve essere portata a tutti indistintamente: non solo al popolo della prima Alleanza ma, come egli stesso afferma: «Sia dunque noto a voi che questa salvezza  di Dio fu inviata alle nazioni, ed esse ascolteranno!» (Atti degli Apostoli 28,28).

Una consapevolezza che gli fa dire, nell’avviare la sua lettera alla comunità cristiana di Roma composta sia da fedeli provenienti dal giudaismo che dal mondo pagano, che egli è stato chiamato ad essere apostolo «per annunziare il vangelo di Dio…», «che riguarda il Figlio suo… costituito Figlio di Dio con potenza, secondo lo Spirito di santità, in virtù della risurrezione dei morti» e questo «per suscitare l’obbedienza della fede in tutte le genti» (Epistola: Romani 1,1-5).

Si tratta di parole di permanente stringente attualità. Siamo, infatti, consapevoli che il Vangelo della Risurrezione del Signore Gesù e il significato salvifico in essa racchiuso, deve ancora essere predicato alla stragrande maggioranza degli uomini oggi esistenti sulla faccia della terra.

Siamo inoltre consapevoli che il Vangelo della Risurrezione debba essere di nuovo annunciato anche alle nostre comunità, a tutti noi che, «santi per chiamata»  (Romani 1,6), corriamo il rischio concreto di diventare duri di orecchi e ciechi (cfr. Atti degli Apostoli 28,27), a motivo dell’indifferenza più sorda e opaca che sembra oggi avere la meglio anche tra noi.

Le nostre comunità, al contrario, sono chiamate a seguire le orme apostoliche nella convinzione che la luce che promana dal Signore Risorto è il dono che il mondo attende da noi.

Si tratta, come direbbe l’Apostolo, di un debito che tutti noi, discepoli del Signore, abbiamo nei confronti degli uomini e delle donne del nostro tempo (cfr. Romani 1,14). Un debito che saremo in grado di saldare nella misura in cui gli effetti della Risurrezione saranno visibili e riconoscibili nella nostra esistenza. Ciò dipende dalla nostra convinta adesione di fede nel Signore Gesù rivelatore di Dio e Figlio unigenito del Padre che, nella partecipazione ai sacramenti pasquali ci attraversa con la potenza della sua Risurrezione. Nel Battesimo, infatti, il Padre ha «infuso in noi una vita che viene dal cielo» (Prefazio) quella, cioè, del suo Figlio che, alimentata alla mensa eucaristica, comincia a far brillare già da ora la luce della Risurrezione in un’esistenza pienamente uniformata alla sua.

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7 aprile 2013 – II domenica di Pasqua

Conclude lottava di Pasqua ed è tradizionalmente denominata “In Albis depositis” perché i battezzati nella Veglia pasquale, a partire dal giorno precedente, si presentavano avendo «oramai tolto le vesti battesimali».

 

Il Lezionario

 

Presenta  ogni anno i seguenti brani biblici: Lettura: Atti degli Apostoli 4,8-24a; Salmo: 117 (118); Epistola: Colossesi 2,8-15; Vangelo: Giovanni 20,19-31. Alla Messa vespertina del sabato viene proclamato: Giovanni 7,37-39a quale Lettura vigiliare. (Le orazioni e i canti della Messa sono quelli propri per questa Domenica proposti nel Messale Ambrosiano).

 

Lettura degli Atti degli Apostoli (4,8-24a) 

 

In quei giorni. 8Pietro, colmato di Spirito Santo, disse loro: «Capi del popolo e anziani, 9visto che oggi veniamo interrogati sul beneficio recato a un uomo infermo e cioè per mezzo di chi egli sia stato salvato, 10sia noto a tutti voi e a tutto il popolo d’Israele: nel nome di Gesù Cristo il Nazareno, che voi avete crocifisso e che Dio ha risuscitato dai morti, costui vi sta innanzi risanato. 11Questo Gesù è la pietra che è stata scartata da voi, costruttori, e che è diventata la pietra d’angolo. 12In nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti, sotto il cielo, altro nome dato agli uomini, nel quale è stabilito che noi siamo salvati». 13Vedendo la franchezza di Pietro e di Giovanni e rendendosi conto che erano persone semplici e senza istruzione, rimanevano stupiti e li riconoscevano come quelli che erano stati con Gesù. 14Vedendo poi in piedi, vicino a loro, l’uomo che era stato guarito, non sapevano che cosa replicare. 15Li fecero uscire dal sinedrio e si misero a consultarsi fra loro dicendo: 16«Che dobbiamo fare a questi uomini? Un segno evidente è avvenuto per opera loro; esso è diventato talmente noto a tutti gli abitanti di Gerusalemme che non possiamo negarlo. 17Ma perché non si divulghi maggiormente tra il popolo, proibiamo loro con minacce di  parlare ancora ad alcuno in quel nome». 18Li richiamarono e ordinarono loro di non parlare in alcun modo né di insegnare nel nome di Gesù. 19Ma Pietro e Giovanni replicarono: «Se sia giusto innanzi a Dio obbedire a voi invece che a Dio, giudicatelo voi. 20Noi non possiamo tacere quello che abbiamo visto e ascoltato». 21Quelli allora, dopo averli ulteriormente minacciati, non trovando in che modo poterli punire, li lasciarono andare a causa del popolo, perché tutti glorificavano Dio per l’accaduto. 22L’uomo infatti nel quale era avvenuto questo miracolo della guarigione aveva più di quarant’anni. 23Rimessi in libertà, Pietro e Giovanni andarono dai loro fratelli e riferirono quanto avevano detto loro i capi dei sacerdoti e gli anziani. 24Quando udirono questo, tutti insieme innalzarono la loro voce a Dio.

 

Il brano riporta il discorso fatto da Pietro davanti al Sinedrio (vv. 8-12) dopo essere stato arrestato con Giovanni in seguito alla guarigione dello storpio alla porta Bella del Tempio (Atti 3,1-11). I vv. 13-15 registrano lo stupore del Sinedrio davanti alla “franchezza” con la quale Pietro e Giovanni annunziavano il nome del Signore di cui vengono riconosciuti come «quelli che erano stati con Gesù». Segue ai vv. 15-18 il resoconto della consultazione tra i membri del Sinedrio sul da farsi e della decisione di proibire agli Apostoli «di non parlare in alcun modo né di insegnare nel nome di Gesù». Proibizione alla quale Pietro e Giovanni non intendono uniformarsi (vv. 19-20). Il brano si conclude con il rilascio di Pietro e Giovanni (vv. 21-22) che riferiscono prontamente alla comunità dei fratelli quanto era loro accaduto (vv. 23-24).

 

Lettera di san Paolo apostolo ai Colossesi (2,8-15)

 

Fratelli, 8fate attenzione che nessuno faccia di voi sua preda con la filosofia e con vuoti raggiri ispirati alla tradizione umana, secondo gli elementi del mondo e non secondo Cristo. 9È in lui che abita corporalmente tutta la pienezza della divinità, 10e voi partecipate della pienezza di lui, che è il capo di ogni Principato e di ogni Potenza. 11In lui voi siete stati anche circoncisi non mediante una circoncisione fatta da mano d’uomo con la spogliazione del corpo di carne, ma con la circoncisione di Cristo: 12con lui sepolti nel battesimo, con lui siete anche risorti mediante la fede nella potenza di Dio, che lo ha risuscitato dai morti. 13Con lui Dio ha dato vita anche a voi, che eravate morti a causa delle colpe e della non circoncisione della vostra carne, perdonandoci tutte le colpe e 14annullando il documento scritto contro di noi che, con le prescrizioni, ci era contrario: lo ha tolto di mezzo inchiodandolo alla croce. 15Avendo privato della loro forza i Principati e le Potenze, ne ha fatto pubblico spettacolo, trionfando su di loro in Cristo.

 

L’Apostolo che ha appena esortato i cristiani di Colosse a rimanere saldi nella fede in Cristo Gesù (2,6-7), passa ora a metterli in guardia dalle dottrine mondane e ingannevoli che si oppongono al Vangelo (v.8). Ai vv. 9-12 leggiamo la proclamazione di fede sulla divinità di Cristo della cui “pienezza” partecipano i credenti (vv.9-10). I vv. 11-13 sviluppano le modalità di una simile partecipazione a partire dal Battesimo che rappresenta la “circoncisione di Cristo”. In esso si fa esperienza personale di ciò che rappresenta, a livello salvifico, la morte, la sepoltura e la risurrezione del Signore a partire dal perdono di «tutte le colpe» e dall’annullamento del «documento scritto», che decreta la condanna dei peccatori (vv.13-14). Nella Pasqua del suo Figlio, pertanto, Dio stesso ha trionfato su ogni potenza contraria ai suoi progetti di salvezza (v.15).

 

Lettura del Vangelo secondo Giovanni (20,19-31)

 

In quel tempo. 19La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». 20Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. 21Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». 22Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. 23A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati».

24Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. 25Gli dicevano gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!». Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo».

26Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: «Pace a voi!». 27Poi disse a Tommaso: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!». 28Gli rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!». 29Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto: beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!».

30Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro. 31Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome.

 

Il testo evangelico si presenta chiaramente diviso in due parti riguardanti rispettivamente l’apparizione del Signore Risorto la sera di Pasqua  (vv. 19-23) e il successivo suo incontro “otto giorni dopo” con la presenza, stavolta, dell’apostolo Tommaso (vv. 24-29). I vv. 30-31, infine, riportano alcune considerazioni conclusive dell’evangelista in ordine al suo Vangelo, messo per iscritto con l’intento di suscitare la fede in Gesù come Messia e Figlio di Dio e, ottenere in tal modo, la “vita” ossia la comunione filiale, per mezzo di Cristo, con il Padre.

 

Commento liturgico-pastorale

 

Il presente brano evangelico, che  ogni anno viene proclamato nella seconda domenica di Pasqua, è di decisiva importanza per la comprensione dell’esistenza stessa della Chiesa e della sua missione. Va anzitutto sottolineata l’importante precisazione riguardante il raduno dei discepoli «la sera di quel giorno», quello, s’intende, della Risurrezione, in un unico luogo (v. 19). Ciò sembra indicare che, quanto viene narrato, riguarda la comunità ecclesiale di allora, come di oggi e di sempre. Al centro dell’attenzione c’è il Signore Gesù che si presenta ai suoi riuniti a porte chiuse «per timore dei Giudei». Viene così evidenziato che non vi sono ostacoli e barriere che possano impedire al Signore di “stare in mezzo” alla sua Chiesa e di offrire il dono pasquale della pace, dovuta proprio alla sua presenza. Con il Signore Risorto, perciò, nel cuore dei discepoli la pace subentra al timore. A essi Gesù si fa riconoscere mostrando «loro le mani e il fianco», con i segni della trafittura dei chiodi e della lancia del soldato romano, facendo sgorgare la gioia nei loro cuori alla vista del  Maestro che videro pendere dalla Croce (v. 20).

A essi il Crocifisso/Risorto può ora consegnare il mandato per la specifica missione che dovranno compiere e che la Chiesa dovrà continuare lungo i tempi. Egli, che è l’inviato dal Padre, a sua volta manda i suoi discepoli e, in essi, quanti lungo i secoli formeranno la sua Chiesa, a compiere la sua stessa missione di salvezza garantendone l’efficacia mediante il dono dello Spirito, indicato nel gesto molto espressivo del soffiare su di essi (v. 22). La missione consiste essenzialmente nell’estendere a ogni uomo il frutto della Pasqua, vale a dire la remissione e il perdono dei peccati e con la potenza dello Spirito il dono di una vita nuova. In tal modo la Chiesa può portare nel mondo la “vita”, quella che nel Signore Gesù ha trionfato sul peccato e dunque sulla morte nella cui oscurità giace il mondo e, in esso, l’intera umanità.

In questa zona oscura si colloca Tommaso, «uno dei Dodici», con il deciso rifiuto di accogliere la testimonianza dei discepoli: «Abbiamo visto il Signore!» (v. 25).

Tommaso, che «non era con loro quando venne Gesù» la sera del giorno della sua risurrezione (v. 24), rappresenta tutti coloro che, nei secoli, dovranno fidarsi e affidarsi alla testimonianza che la comunità dei credenti offre su Gesù, il Vivente, senza esigere perciò di vedere e di mettere personalmente la mano nelle sue ferite. Tommaso supererà questa pretesa “otto giorni dopo” allorché il Signore tornerà tra i suoi recando il dono della pace e gli chiederà di mettere il suo dito e la sua mano nelle sue ferite esortandolo a «non essere più incredulo, ma credente!» (v. 27). Esortazione che va compresa, in realtà, rivolta a ogni futuro discepolo e, in prospettiva, a ogni uomo chiamato a diventarlo.

La reazione di Tommaso è quella di chi oramai è diventato credente. Ora non è più interessato a  vedere e a toccare le ferite del Signore, ma si rivolge a lui con una proclamazione di fede assoluta: «Mio Signore e mio Dio!». Con ciò riconosce che il suo Maestro, morto sulla Croce, deposto nel sepolcro, è il Risorto, è Dio!

Le parole conclusive del Signore (v. 29) sono anch’esse rivolte, tramite Tommaso, ai futuri credenti e, dunque, anche a noi che oggi le ascoltiamo nella proclamazione liturgica dell’evangelo. Fin da ora siamo da Gesù stesso proclamati beati perché crediamo in lui senza poterlo vedere e toccare. Vedere e toccare il Risorto è l’esperienza propria dei Dodici. D’ora in poi la fede dei credenti dovrà poggiarsi sulla loro testimonianza guardandosi, come avverte l’Apostolo, di cadere vittima della vuota pretesa di chi pensa e ragiona «secondo gli elementi del mondo e non secondo Cristo» (Epistola: Colossesi 2,8). Per questo abbiamo così pregato nell’orazione All’Inizio dell’Assemblea Liturgica: «Dio… avvinci a te il cuore dei tuoi servi; tu che ci hai liberato dalle tenebre dello spirito non lasciarci allontanare più dalla tua luce».

Nella celebrazione eucaristica, scandita dal solenne ritmo domenicale istituito dalle apparizioni del Risorto, è possibile per noi vivere, nel mistero, l’esperienza degli Apostoli: crescere nella fede e nell’amore del Signore e accogliere, con il “soffio” del suo Spirito, il mandato che ci abilita alla missione evangelica nel mondo.

La Lettura mostra come questa missione è stata da subito attuata dagli stessi Apostoli, i quali annunziano con estrema chiarezza che «in nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti, sotto il cielo, altro nome dato agli uomini, nel quale è stabilito che noi siamo salvati»  (Atti degli Apostoli 4,12). L’esperienza che essi hanno fatto del Risorto, la missione ricevuta nella potenza dello Spirito Santo, è insopprimibile nei loro cuori e li spinge ad annunziare a tutti, anche a costo della vita, la reale unica possibilità di salvezza che è in Cristo Signore: «Noi non possiamo tacere quello che abbiamo visto e ascoltato» (Atti 4,20).

Anche noi, di domenica in domenica, impariamo a «camminare nella nuova realtà dello Spirito», nella quale siamo stati stabiliti dai sacramenti pasquali. In tal modo «ci è dato di superare il rischio orrendo della morte eterna, ed è serbata ai credenti la lieta speranza della vita senza fine» (Prefazio) che ci è già donata nella partecipazione al Corpo e al Sangue del Signore, nel quale «abita corporalmente tutta la pienezza della divinità» ( Colossesi 2,9).

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31 marzo 2012 – Domenica di Pasqua

La “grande domenica”, la “festa che dà origine a tutte le feste”, prende avvio nella Veglia Pasquale cuore e centro dell’intero anno liturgico, nel quale la Chiesa rivive ogni anno il mistero della salvezza portato a compimento nella morte e risurrezione del Signore. Essa dà inizio ai cinquanta giorni della gioia pasquale, considerati come un prolungamento festivo della “grande domenica”. Tra di essi spiccano i primi otto giorni, vale a dire la settimana “in albis”, che la nostra tradizione liturgica celebra con solennità.

La medesima tradizione, propria della nostra Chiesa Ambrosiana prevede, per questa domenica, due distinte celebrazioni: la “Messa per i battezzati”, da celebrare qualora vi fossero dei battesimi, e la “Messa nel giorno” che qui proponiamo.

 

Il Lezionario per la “Messa nel giorno”

 

Sono previste le seguenti lezioni bibliche: Lettura: Atti degli Apostoli 1,1-8a; Salmo 117; Epistola 1Corinzi 15,3-10a; Vangelo: Giovanni 20,11-18.

 

Lettura degli Atti degli Apostoli (1,1-8a)

 

1Nel mio primo racconto, o Teòfilo, ho trattato di tutto quello che Gesù fece e insegnò dagli inizi 2fino al giorno in cui fu assunto in cielo, dopo aver dato disposizioni agli apostoli che si era scelti per mezzo dello Spirito Santo.

3Egli si mostrò ad essi vivo, dopo la sua passione, con molte prove, durante quaranta giorni, apparendo loro e parlando delle cose riguardanti il regno di Dio. 4Mentre si trovava a tavola con essi, ordinò loro di non allontanarsi da Gerusalemme, ma di attendere l’adempimento della promessa del Padre, «quella – disse – che voi avete udito da me: 5Giovanni battezzò con acqua, voi invece, tra non molti giorni sarete battezzati in Spirito Santo».

6Quelli dunque che erano con lui gli domandavano: «Signore, è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno per Israele?». 7Ma egli rispose: «Non spetta a voi conoscere tempi o momenti che il Padre ha riservato al suo potere, 8ma riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi»

 

Il brano riporta il prologo del libro nel quale l’autore si riallaccia a quanto ha scritto «nel primo racconto», ossia nel Vangelo, a proposito di quanto Gesù ha detto e fatto nella sua vita terrena fino alla sua ascensione in cielo, ovvero con il suo ritorno glorioso al Padre (vv. 1-2).

I vv. 3-5 riferiscono le disposizioni impartite agli Apostoli dal Signore risorto nei giorni prima della sua ascensione e parlano della promessa del battesimo «in Spirito Santo» nel quale saranno battezzati al compiersi dei giorni pasquali.

Agli apostoli, interessati alla restaurazione del regno per Israele, il Signore risponde che ciò dipende dagli imperscrutabili disegni di Dio e che l’effusione dello Spirito darà ad essi la forza di annunziare e di testimoniare ciò che la sua potenza ha compiuto in Cristo (vv. 6-8).

 

Prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi (15,3-10a)

 

Fratelli, 3a voi ho trasmesso, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto, cioè che Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture e che 4fu sepolto e che è risorto il terzo giorno secondo le Scritture 5e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici.

6In seguito apparve a più di cinquecento fratelli in una sola volta: la maggior parte di essi vive ancora, mentre alcuni sono morti. 7Inoltre apparve a Giacomo, e quindi a tutti gli apostoli. 8Ultimo fra tutti apparve anche a me come a un aborto. 9Io infatti sono il più piccolo tra gli apostoli e non sono degno di essere chiamato apostolo perché ho perseguitato la Chiesa di Dio. 10Per grazia di Dio, però, sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana.

 

I versetti riportati gravitano attorno all’essenziale proclamazione di fede che Paolo “trasmette” ai fedeli di Corinto e che a sua volta ha “ricevuto”. Essa è fondata sul fatto storico con portata salvifica qual è la morte, la sepoltura, e la risurrezione il terzo giorno del Signore Gesù (vv. 3-5). I vv. 6-8 documentano la veridicità della risurrezione del Signore a partire dalla sua apparizione «a Cefa e quindi ai Dodici» (v. 5) e a numerosi fratelli, fino a quella riservata sulla via di Damasco (cfr. Atti degli Apostoli 9,1-6) proprio a lui, fino ad allora persecutore della Chiesa e, ora, apostolo per grazia di Dio (vv. 9-10).

 

Lettura del Vangelo secondo Giovanni ( 20,11-18)

 

In quel tempo. 11Maria di Magdala stava all’esterno, vicino al sepolcro, e piangeva. Mentre piangeva, si chinò verso il sepolcro 12e vide due angeli in bianche vesti, seduti l’uno dalla parte del capo e l’altro dei piedi, dove era stato posto il corpo di Gesù. 13Ed essi le dissero: «Donna, perché piangi?». Rispose loro: «Hanno portato via il mio Signore e non so dove l’hanno posto». 14Detto questo, si voltò indietro e vide Gesù, in piedi; ma non sapeva che fosse Gesù. 15Le disse Gesù: «Donna, perché piangi? Chi cerchi?». Ella, pensando che fosse il custode del giardino, gli disse: «Signore, se l’hai portato via tu, dimmi dove l’hai posto e io andrò a prenderlo». 16Gesù le disse: «Maria!». Ella si voltò e gli disse in ebraico: «Rabbunì!» che significa: «Maestro!». 17Gesù le disse: «Non mi trattenere, perché non sono ancora salito al Padre; ma va’ dai miei fratelli e di’ loro: “Salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro”». 18Maria di Magdala andò ad annunciare ai discepoli: «Ho visto il Signore!» e ciò che le aveva detto.

 

Il brano odierno segue immediatamente il racconto della “corsa” fatta al sepolcro da Pietro e Giovanni ai quali proprio Maria di Magdala, recatasi di buon mattino al sepolcro, aveva annunziato: «Hanno portato via il Signore dalla tomba e non sappiamo dove l’hanno posto!» (20,1-10). Il v. 11 presenta Maria nuovamente presso il sepolcro nel quale aveva già constatato l’assenza del corpo del Signore. I vv. 12-13 riferiscono la visione di due angeli biancovestiti e del loro dialogo con Maria. Segue la visione di Gesù che Maria però non riconosce subito (vv. 14-15) fino a che il Signore stesso la chiama per nome e si fa riconoscere (v. 16). A lei affida il compito di recare agli apostoli l’annunzio del suo ritorno al Padre che, da quel momento, sarà il Dio e il Padre di chi crede (v.17). Compito che Maria prontamente esegue annunciando ciò che ha visto e udito dal Signore (v.18).

 

Commento liturgico-pastorale

 

Questo racconto, come quello dell’esperienza di Pietro e di Giovanni al sepolcro vuoto, intende proporre a tutti il lettori e gli ascoltatori del Vangelo l’annunzio della risurrezione del Signore come fondamento per la loro adesione di fede in lui. Un’adesione che, normalmente, procede per gradi come avvenne in Maria. Ella, totalmente sopraffatta dal dolore per la morte e ora per la scomparsa del corpo di Gesù, non riconosce nei due suoi pur speciali interlocutori, i portatori e i testimoni celesti della risurrezione di Cristo. Le loro vesti bianche e la loro posizione, «seduti l’uno dalla parte del capo e l’altro dei piedi, dove era stato posto il corpo di Gesù» (Vangelo: Giovanni 20,12), segnalano, infatti, in tutta evidenza la loro origine celeste che Maria, però, non riesce a cogliere perché, pur amando più di se stessa il Signore, questi, alla fine, è oramai per lei solo un corpo esanime! Tutto ciò rappresenta, in questa donna, un primo passo nel suo cammino di fede destinato a crescere in pienezza solo nell’incontro faccia a faccia con il Risorto.

L’iniziale equivoco di Maria che scambia Gesù con il “custode del giardino” (v. 15), vuole significare che il Maestro da lei conosciuto e amato ora non è più di questo mondo e, pertanto, per poterlo “riconoscere”, è necessario che lui le si manifesti nella sua nuova condizione di vita. Perciò, d’ora in poi, Gesù non andrà più cercato, come fa Maria, tra i morti, ma nella sua nuova identità di Figlio glorificato.

Per questo Gesù, chiamando Maria per nome, la costringe ad andare oltre il dolore per la sua morte e a riconoscerlo finalmente come vivente! Ciò è reso evidente nel grido della donna: «Rabbunì!», il titolo, cioè, con il quale si è sempre rivolta a lui. È il grido del riconoscimento di fede oramai piena e definitiva: il Maestro che ha visto pendere dalla croce e deporre nel sepolcro è davanti a lei vivo!

Le parole consegnate a Maria per i discepoli, che il Signore glorificato chiama «miei fratelli», costituiscono l’apice dell’intero racconto: «Salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro» (v. 17). Con questo solenne messaggio Gesù afferma che il suo ritorno al Padre, vale a dire la sua esaltazione e glorificazione avviata con la salita sulla Croce, sta per diventare definitiva anche nelle conseguenze riguardanti i discepoli e tutti coloro che, lungo i secoli, crederanno in lui.

Questi, infatti, d’ora in poi potranno con lui chiamare Dio “Padre”, assumendo così una vera relazione filiale ed entrando in quel rapporto di amore che unisce il Padre e il Figlio dall’eternità.

Trova, così, risposta la domanda formulata dagli apostoli al Risorto: «Signore, è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno per Israele?» (Lettura: Atti degli Apostoli 1,6). Nella sua pasqua Gesù non ha ricostituito il regno per una nazione soltanto, ma in lui tutte le genti possono rivolgersi a Dio come al loro Dio, il Dio che assicura ad essi la sua alleanza, che non verrà mai meno perché inaugurata ed «esaltata nel sangue del Signore» (Prefazio).

L’annunzio che Maria deve recare ai discepoli divenuti fratelli è l’annunzio che la Chiesa, comunità dei credenti, deve recare a tutti gli uomini e che l’Apostolo ha sinteticamente così formulato: «Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture e che fu sepolto e che è risorto il terzo giorno secondo le Scritture» (Epistola: 1Corinzi 15,3-4).

Si tratta di un annuncio liberante perché, nella sua morte, il Signore «ha portato i peccati di tutti e di tutti ha cancellato la colpa» (Prefazio), togliendo di mezzo la causa della rovina temporale ed eterna dell’uomo.

Possiamo perciò a ragione affermare che con la sua morte il Signore ha tratto «dall’abisso del peccato» il mondo intero e con la sua risurrezione «il terzo giorno» ha introdotto fin da ora i credenti «nel regno dei cieli» (Prefazio).

La celebrazione eucaristica continua a trasmettere non solo l’annunzio evangelico del Risorto, ma la sua attualizzazione nei santi misteri che ci donano di sperimentare, fin da questa vita, la reale consistenza della nostra partecipazione alla sua Pasqua come comunione d’amore con il Padre, per mezzo del suo Figlio, nello Spirito Santo.

Esperienza questa a cui la preghiera liturgica invita l’umanità intera: «O popoli, venite con timore e fiducia a celebrare l’immortale e santissimo mistero. Le mani siano pure e avremo parte al dono che ci trasforma il cuore. Cristo, agnello di Dio, si è offerto al Padre, vittima senza macchia. Lui solo adoriamo, a lui diciamo gloria, cantando con gli angeli: Alleluia» (Alla Comunione).

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24 marzo 2013 - Domenica delle Palme

È la domenica che inaugura la settimana santa che la nostra tradizione liturgica ambrosiana chiama “Autentica”.  In essa il cammino quaresimale viene coronato dalla celebrazione del Triduo Pasquale della morte, sepoltura e risurrezione del Signore, che dispiega l’evento di salvezza posto a fondamento della fede e della vita della Chiesa, vale a dire la Pasqua, partecipata ai credenti nei sacramenti del Battesimo, della Cresima e dell’Eucaristia.

 In questa domenica la nostra tradizione liturgica prevede due distinte celebrazioni: la Messa per la benedizione delle Palme e la Messa “nel giorno”.

 

MESSA PER LA BENEDIZIONE DELLE PALME

 

Viene celebrata quando la Messa è preceduta dal rito della benedizione e successiva processione delle palme. Essa intende far memoria del solenne ingresso di Gesù in Gerusalemme riconosciuto come Messia.

 

Il Lezionario

 

Vengono proclamati i seguenti brani biblici: Lettura: Zaccaria 9,9-10; Salmo 47; Epistola: Colossesi 1,15-20; Vangelo: Giovanni 12,12-16. (Le orazioni e i canti sono quelli propri della Messa per la benedizione delle Palme del Messale Ambrosiano).

 

Lettura del profeta Zaccaria (9,9-10)

 

Così dice il Signore Dio: 9«Esulta grandemente, figlia di Sion, giubila, figlia di Gerusalemme! Ecco, a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso, umile, cavalca un asino, un puledro figlio d’asina. 10Farà sparire il carro da guerra da Èfraim e il cavallo da Gerusalemme, l’arco di guerra sarà spezzato, annuncerà la pace alle nazioni, il suo dominio sarà da mare a mare e dal Fiume fino ai confini della terra».

 

Si tratta dell’oracolo messianico nel quale il profeta, in un contesto di esultanza e di grande gioia per Gerusalemme e, dunque, per tutto il popolo d’Israele, annunzia la venuta di un re che godrà della protezione divina e che, a differenza degli altri sovrani, si distinguerà per la sua umiltà, di cui è segno la cavalcatura da lui scelta: «un puledro figlio d’asina» (v. 9). Egli pacificherà e riunirà il popolo in un unico regno di pace che si estenderà ad abbracciare altri popoli e altre nazioni (v.10). Questa profezia, nella comprensione di fede della Chiesa, si è compiuta con l’ingresso di Gesù in Gerusalemme acclamato dal popolo come Messia.

 

Lettera di san Paolo apostolo ai Colossesi (1,15-20)

 

Fratelli, 15Cristo è immagine del Dio invisibile, primogenito di tutta la creazione, 16perché in lui furono create tutte le cose nei cieli e sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili: Troni, Dominazioni, Principati e Potenze, tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui. 17Egli è prima di tutte le cose e tutte in lui sussistono. 18Egli è anche il capo del corpo, della Chiesa. Egli è principio, primogenito di quelli che risorgono dai morti, perché sia lui ad avere il primato su tutte le cose. 19È piaciuto infatti a Dio che abiti in lui tutta la pienezza 20e che per mezzo di lui e in vista di lui siano riconciliate tutte le cose, avendo pacificato con il sangue della sua croce sia le cose che stanno sulla terra, sia quelle che stanno nei cieli.

 

Il brano, oggi proclamato, riporta un inno del cristianesimo delle origini. Si tratta di una proclamazione di fede nel Signore Gesù, di cui si esalta la preesistenza e il ruolo avuto nella creazione di tutto ciò che esiste e, dunque, di tutte le cose visibili, come il mondo e l’uomo e quelle invisibili, ossia gli spiriti incorporei di cui l’Apostolo offre un elenco (vv.15-16). Il v. 17 sottolinea la preesistenza di Cristo alla creazione stessa, ovvero la sua divinità, mentre nel v. 18 viene proclamo «capo del corpo», cioè della Chiesa, a motivo del suo essere il primo risuscitato e il principio nell’ordine della salvezza. I vv. 19-20, infatti, evidenziano il disegno salvifico di Dio che coinvolge l’universo intero nell’azione di riconciliazione e di pacificazione, compiuta da Gesù con il suo sangue.

 

Lettura del Vangelo secondo Giovanni (12,12-16).

 

In quel tempo. 12La grande folla che era venuta per la festa, udito che Gesù veniva a Gerusalemme, 13prese dei rami di palme e uscì incontro a lui gridando: «Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore, il re d’Israele!».

14Gesù, trovato un asinello, vi montò sopra, come sta scritto:15«Non temere, figlia di Sion!Ecco, il tuo re viene, seduto su un puledro d’asina».

16I suoi discepoli sul momento non compresero queste cose; ma, quando Gesù fu glorificato, si ricordarono che di lui erano state scritte queste cose e che a lui essi le avevano fatte.

 

Il brano segue immediatamente quello dell’“unzione” di Gesù in casa di Lazzaro da lui «risuscitato dai morti» (Gv 12,1-11) e che viene proclamato nella Messa del giorno. I vv. 12-13 riportano l’iniziativa spontanea della folla presente in Gerusalemme per l’imminente festa di Pasqua che va incontro a Gesù  recando, non semplici fronde strappate dagli alberi, ma palme, simbolo di vittoria. Con le palme l’evangelista registra il grido della folla preso dal Salmo 118,25-29 con il quale lo acclama quale inviato da Dio e re d’Israele.

I vv. 14-15 mettono in luce, nel gesto di Gesù di montare su un asinello, che la sua regalità si differenzia da quella dei sovrani di questo mondo. Anzi, con l’esplicita citazione del profeta Zaccaria (cfr. 9,9), viene chiarito che egli è il re umile e pacifico destinato, nel disegno divino, a governare non un solo popolo ma tutte le genti.

Il brano si chiude al v. 16 con l’indicazione preziosa anche per noi: sarà soltanto nell’ora della sua     “glorificazione”, ovvero della Croce, che i discepoli di allora e di sempre saranno pienamente illuminati e potranno comprendere in pienezza le parole profetiche e i fatti riguardanti il Signore Gesù.

 

Commento liturgico- pastorale

 

Le Sacre Scritture ci introducono, in questa domenica in cui prende avvio la solenne distesa celebrazione del mistero pasquale del Signore, a una comprensione più profonda di tale mistero aiutandoci a riconoscerlo come il Messia inviato da Dio al suo popolo come Re. Un re «giusto e vittorioso» la cui venuta reca gioia in quanto «farà sparire il carro di guerra da Efraim e il cavallo da Gerusalemme» (Lettura: Zaccaria 9, 9s), ossia porterà la pace al suo popolo. Egli sarà soprattutto un re umile, come si desume dalla cavalcatura da lui scelta per il suo ingresso regale: «un asino, un puledro figlio d’asina» (v. 9), ed estenderà il suo regno «fino ai confini della Terra» (v. 10) ossia a tutti i popoli ai quali recherà pure come dono la pace. La parola profetica trova il suo compimento ed è pienamente compresa nell’evento riportato nel brano evangelico di Giovanni riguardante l’ingresso di Gesù in Gerusalemme «seduto su un puledro d’asina» (Vangelo: Giovanni 12,14). È pertanto lui, Gesù di Nazaret, il Messia inviato da Dio come Re d’Israele per pacificare e risollevare il regno promesso a Davide come regno che non avrà fine e che in lui abbraccerà il mondo intero, ma nella modalità del tutto inedita e sorprendente della sua umiltà e della sua mitezza, allusive della sua passione e della sua morte violenta.

La preghiera liturgica commenta in modo insuperabile l’evento salvifico di cui oggi si fa memoria cogliendo il senso spirituale dell’avvenimento evangelico dell’ingresso messianico del Signore, e motiva così il rendere grazie che coinvolge «qui e in ogni luogo» la Chiesa: «Tu hai mandato in questo mondo Gesù, tuo Figlio, a salvarci perché, abbassandosi fino a noi e condividendo il dolore umano, risollevasse fino a te la nostra vita» (Prefazio). L’Epistola paolina iscrive l’opera del pacifico e umile Messia, re d’Israele nel disegno divino di riconciliare ogni realtà che esiste in terra e nei cieli, per mezzo di lui, umiliato fino alla morte di croce e il cui sangue è dato come garanzia di riconciliazione e di pacificazione tra tutte le realtà creata e Dio stesso (v.20).

Al pari dei discepoli anche noi comprenderemo in pienezza ciò che è avvenuto e ciò che è significato nell’ingresso messianico a Gerusalemme, soltanto nell’ora nella quale il Signore «fu glorificato» ossia, nell’ora della sua esaltazione in Croce. Ricordando ovvero “facendo memoria” di quanto egli ha fatto, impariamo anche noi, suoi discepoli, che la “regalità” secondo il disegno inaccessibile di Dio non consiste nella forza e nella potenza mondane, ma nell’obbedienza al volere di Dio che addita anche a noi, Chiesa santa del suo Figlio, la via indicata al suo Unigenito: la via della piccolezza, dell’umiliazione e della mitezza, la via della Croce. Nel sangue della sua Croce, infatti, il Re umile venuto a noi dal Cielo, ha riconciliato e pacificato il mondo intero invitandolo ad entrare nel suo Regno di gioia. È l’invito che ripete incessantemente la Chiesa in questo giorno che inaugura i giorni della nostra salvezza: «Venite tutti ad adorare il Re dell’universo: sei giorni mancano alla sua passione: viene il Signore nella sua città, secondo le Scritture. Accorrono lieti i fanciulli, si stendono a terra i mantelli. In alto levando l’ulivo acclamiamo a gran voce: “Osanna nell’alto dei cieli. Benedetto tu sei che vieni al tuo popolo: abbi di noi pietà”».

 

MESSA  NEL GIORNO

 

Viene celebrata quando non si fa la processione delle palme benedette. Le letture bibliche e i testi del Messale pongono in rilievo la passione e la morte del Signore che segue l’ingresso trionfale a Gerusalemme.

 

Il Lezionario

 

Riporta i seguenti brani della Scrittura: Lettura: Isaia 52,13-53,12; Salmo 87 (88); Epistola: Ebrei 12,1b-3; Vangelo: Giovanni 11,55-12,11. Alla messa vespertina del sabato viene letto Giovanni 2,13-22 come Lettura vigiliare. ( Le orazione e i canti della Messa sono quelli propri della Messa “nel giorno” del Messale Ambrosiano).

 

Lettura del profeta Isaia (52,13-53,12)

 

Così dice il Signore Dio:52,13«Ecco il mio servo avrà successo, sarà onorato, esaltato e  innalzato grandemente.14 Come molti si stupirono di lui – tanto era sfigurato per essere d’uomo il suo aspetto e diversa la sua forma da quella dei figli dell’uomo – 15così si meraviglieranno di lui molte nazioni;i re davanti a lui si chiuderanno la bocca, poiché vedranno un fatto mai ad essi raccontato
e comprenderanno ciò che mai avevano udito.53,1Chi avrebbe creduto al nostro annuncio?
A chi sarebbe stato manifestato il braccio del Signore? 2È cresciuto come un virgulto davanti a lui
e come una radice in terra arida. Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per poterci piacere.3Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia, era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima. 4Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato. 5Egli è stato trafitto per le nostre colpe, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti. 6Noi tutti eravamo sperduti come un gregge, ognuno di noi seguiva la sua strada; il Signore fece ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti. 7Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca; era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, e non aprì la sua bocca. 8Con oppressione e ingiusta sentenza fu tolto di mezzo;
chi si affligge per la sua posterità? Sì, fu eliminato dalla terra dei viventi, per la colpa del mio popolo fu percosso a morte. 9Gli si diede sepoltura con gli empi, con il ricco fu il suo tumulo, sebbene non avesse commesso violenza né vi fosse inganno nella sua bocca. 10Ma al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori. Quando offrirà se stesso in sacrificio di riparazione, vedrà una discendenza, vivrà a lungo, si compirà per mezzo suo la volontà del Signore. 11Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce e si sazierà della sua conoscenza; il giusto mio servo giustificherà molti, egli si addosserà la loro iniquità.12Perciò io gli darò in premio le moltitudini, dei potenti egli farà bottino, perché ha spogliato se stesso alla morte ed è stato annoverato fra gli empi mentre egli portava il peccato di molti e intercedeva per i colpevoli».

 

Il brano riporta il quarto canto del servo di Dio sofferente concepito come un dialogo tra Dio che pronuncia un oracolo sul suo “servo” (53,13-15) e i popoli e i re della terra (53, 1-10) e si conclude con un nuovo intervento divino che annunzia il successo della missione del servo (vv.11-12). Nel suo primo intervento Dio annuncia il trionfo del suo servo una volta affrontate le prove e le sofferenze estreme alle quali verrà sottoposto (52, 13-15). Nella loro risposta i re della terra e le nazioni enumerano le sofferenze del servo riconoscendo che esse sono causate dalle loro colpe e dalle loro iniquità. Il canto si chiude con la riaffermazione del pieno successo della missione del servo di Dio.

 

Lettera agli Ebrei (12,1b-3)

 

Fratelli, 1bavendo deposto tutto ciò che è di peso e il peccato che ci assedia, corriamo con perseveranza nella corsa che ci sta davanti, 2tenendo fisso lo sguardo su Gesù, colui che dà origine alla fede e la porta a compimento. Egli, di fronte alla gioia che gli era posta dinanzi, si sottopose alla croce, disprezzando il disonore, e si siede alla destra del trono di Dio. 3Pensate attentamente a colui che ha sopportato contro di sé una così grande ostilità dei peccatori, perché non vi stanchiate perdendovi d’animo.

 

Il brano esorta i credenti, una volta sbarazzatisi della presenza opprimente del peccato, alla perseveranza nella fede, concepita come una corsa verso la meta che è lo stesso Cristo autore della fede (vv. 1-2). A lui occorre riferirsi sempre e in ogni cosa perché, avendo accettato la morte infamante di Croce, ha portato a compimento l’opera di salvezza e ora «siede alla destra del trono di Dio» (v. 2b). Il brano si conclude con l’esortazione a non smarrirsi tra le prove della vita e per questo occorre contemplare senza sosta la passione del Signore Gesù (v.3) che, per obbedienza al volere del Padre, si è sottoposto alla Croce.

 

Lettura del Vangelo secondo Giovanni (11,55-12,11) 

 

In quel tempo. 55Era vicina la Pasqua dei Giudei e molti dalla regione salirono a Gerusalemme prima della Pasqua per purificarsi. 56Essi cercavano Gesù e, stando nel tempio, dicevano tra loro: «Che ve ne pare? Non verrà alla festa?». 57Intanto i capi dei sacerdoti e i farisei avevano dato ordine che chiunque sapesse dove si trovava lo denunciasse, perché potessero arrestarlo.

1Sei giorni prima della Pasqua, Gesù andò a Betania, dove si trovava Lazzaro, che egli aveva risuscitato dai morti. 2E qui fecero per lui una cena. Marta serviva e Lazzaro era uno dei commensali. 3Maria allora prese trecento grammi di profumo di puro nardo, assai prezioso, ne cosparse i piedi di Gesù, poi li asciugò con i suoi capelli, e tutta la casa si riempì dell’aroma di quel profumo. 4Allora Giuda Iscariota, uno dei suoi discepoli, che stava per tradirlo, disse: 5«Perché non si è venduto questo profumo per trecento denari e non si sono dati ai poveri?». 6Disse questo non perché gli importasse dei poveri, ma perché era un ladro e, siccome teneva la cassa, prendeva quello che vi mettevano dentro. 7Gesù allora disse: «Lasciala fare, perché essa lo conservi per il giorno della mia sepoltura. 8I poveri infatti li avete sempre con coi, ma non potete sempre avere me».

9Intanto una grande folla di Giudei venne a sapere che egli si trovava là e accorse, non solo per Gesù, ma anche per vedere Lazzaro che egli aveva risuscitato dai morti. 10I capi dei sacerdoti allora decisero di uccidere anche Lazzaro, 11perché molti Giudei se ne andavano a causa di lui e credevano in Gesù.

 

Il brano, incentrato sul racconto dell’unzione di Gesù nella casa di Lazzaro (12,1-8), è come incorniciato dai versetti iniziali 11,55-57 e quelli finali 12,9-11. I primi riportano il desiderio della gente, venuta a Gerusalemme per la festa di Pasqua, di poter incontrare Gesù la cui fama, dopo la risurrezione di Lazzaro, si era sparsa ovunque suscitando la reazione ostile delle autorità (v. 57). I versetti finali (vv. 9-10) riferiscono della decisione presa dai capi dei sacerdoti di mettere a morte anche Lazzaro a causa del quale molti lasciavano la Sinagoga per aderire a Gesù.

Il racconto dell’unzione (v. 12,3) è collocato nel contesto di un pranzo familiare consumato da Gesù a casa di Lazzaro e delle sorelle Marta e Maria, ardenti di fede e di amore verso di lui che si sta incamminando verso la sua Pasqua (12,1-3)! Il pranzo può forse rappresentare la gioia della futura risurrezione mentre l’unzione che Maria fa sui piedi di Gesù annunzia la sua sepoltura.

Il significato profondo del gesto di Maria, non capito da Giuda, il traditore (vv. 5-6), consiste nell’anticipare, pur senza saperlo, quello che ella avrebbe presto compiuto sul corpo esanime del Signore e da lui stesso così interpretato (v. 7). Il brano si chiude con una parola rivolta non solo a Giuda (v. 5), ma anche a tutti coloro che ascoltano e ascolteranno nei secoli la sua Parola. Gesù, in pratica, riafferma il precetto divino di prendersi cura dei poveri, un precetto valido per sempre (cfr. Deuteronomio 15,11), ma giustifica, per questa volta, l’attenzione rivolta a lui che sta per andare incontro alla morte (v. 8).  

 

Commento liturgico-pastorale

 

 I testi della Scrittura, proclamati nel giorno che inaugura la Settimana Autentica, dirigono l’attenzione orante della comunità radunata in assemblea liturgica, sull’evento della morte del Signore Gesù che in quel raduno viene attualizzata a livello sacramentale. La celebrazione liturgica della passione e morte del Signore è illuminata da ciò che abbiamo ascoltato nella Lettura profetica a proposito del “servo sofferente” che nel misterioso disegno di Dio è destinato ad aver “successo”, a essere «onorato e innalzato grandemente» (Isaia 52,13). Di più, a motivo della sua totale sottomissione al volere divino, fino a subire gli oltraggi, le umiliazioni più infamanti e la stessa morte, egli riceve da Dio «in premio le moltitudini», ossia l’umanità intera dei cui peccati e delle cui iniquità egli si è addossato, eliminandoli proprio con la sua morte. Il testo profetico, infatti, mette in bocca alle nazioni e ai re (cfr. Isaia 52,15) la solenne dichiarazione che rivela il significato delle sofferenze del “servo” ascrivibili al disegno di Dio inaccessibile per la nostra mente: «È stato trafitto per le nostre colpe, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti» (Isaia 53,5). Il messaggio biblico è stato ben compreso dalla preghiera liturgica che esalta il perenne universale valore salvifico della morte del Signore nel quale viene portata a compimento la parola profetica: «Cristo tuo Figlio, il giusto che non conobbe la colpa, accettò di patire per noi e, consegnandosi a una ingiusta condanna, portò il peso dei nostri errori. La sua morte ha distrutto il peccato, la sua risurrezione ha ricreato la nostra innocenza» (Prefazio). Ed è ancora la preghiera liturgica a esprimere la certezza che l’efficacia della morte del Signore è intatta nel sacramento del suo amore: «Nel Figlio del suo amore tutto dal nostro Dio ci fu donato, il sangue del Signore ogni peccato nostro ci ha lavato. Perdona il nostro errore, medica le ferite del peccato» (Alla Comunione).

 Di conseguenza, l’ascolto della Parola e la sua attualizzazione sacramentale, spingono tutta la Chiesa e, ogni fedele, a tenere «fisso lo sguardo su Gesù» che si è sottoposto volontariamente alla croce «disprezzando il disonore» che essa rappresenta e, ora, «siede alla destra del Padre» (Epistola: Ebrei 12,). È questa la meta verso la quale i credenti sono esortati a correre «con perseveranza», accettando di condividere quella condizione di “servo” che Gesù ha accettato di rivestire per la nostra salvezza.

Ci doni, perciò, il Padre del Cielo di avere in noi lo stesso amore per Gesù che spinse Maria a cospargere i suoi piedi con «trecento grammi di profumo di puro nardo» annunziando, in tal modo, la preziosità della morte del suo e nostro Maestro (cfr. Vangelo: Giovanni 12,3). La Chiesa santa è quella casa ripiena dell’aroma del profumo che spande in essa l’amore del Signore Gesù nel suo consegnarsi alla morte per noi e per tutti. Un amore che chiede anzitutto a tutti noi, suoi discepoli, di condividere la sua sorte di “servo” totalmente disponibile ai superiori disegni salvifici del Padre. Al Padre buono del cielo che per la passione del suo Unigenito «fatto nostro fratello» rinnova il mondo intero, così ci rivolgiamo nell’orazione All’Inizio dell’Assemblea Liturgica: «Conserva in noi l’azione della tua misericordia perché celebrando questo mistero ti offriamo in ogni tempo la nostra vita».   

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17 Marzo 2013 – Domenica “di Lazzaro” – Anno C

È la quinta domenica di Quaresima, caratterizzata dall’annuale lettura del Vangelo della risurrezione di Lazzaro.

IL LEZIONARIO

Prescrive la proclamazione dei seguenti brani biblici: Lettura: Deuteronomio 6,4a; 26,5-11; Salmo 104 (105); Epistola: Romani: 1,18-23a; Vangelo: Giovanni 11,1-53. Alla Messa del sabato la Lettura Vigiliare è presa da Matteo 12, 38-40. (Le orazioni e i canti della Messa sono quelli propri della V Domenica di Quaresima nel Messale Ambrosiano).

 

Lettura del libro del Deuteronomio (6,4a; 26,5-11)

 

In quei giorni. Mosè disse: «6,4aAscolta Israele: 5tu pronuncerai queste parole davanti al Signore, tuo Dio: “Mio padre era un Arameo errante; scese in Egitto, vi stette come un forestiero con poca gente e vi diventò una nazione grande, forte e numerosa. 6Gli Egiziani ci maltrattarono, ci umiliarono e ci imposero una dura schiavitù. 7Allora gridammo al Signore, al Dio dei nostri padri, e il Signore ascoltò la nostra voce, vide la nostra umiliazione, la nostra miseria e la nostra oppressione; 8il Signore ci fece uscire dall’Egitto con mano potente e con braccio teso, spargendo terrore e operando segni e prodigi. 9Ci condusse in questo luogo e ci diede questa terra, dove scorrono latte e miele. 10Ora, ecco, io presento le primizie dei frutti del suolo che tu, Signore, mi hai dato”. Le deporrai davanti al Signore, tuo Dio, e ti prostrerai davanti al Signore, tuo Dio. 11Gioirai, con il levita e con il forestiero che sarà in mezzo a te, di tutto il bene che il Signore, tuo Dio, avrà dato a te e alla tua famiglia».

 

Il brano è preso dal secondo discorso di Mosè al popolo che sta per entrare nella terra promessa. Qui ci si riferisce a ciò che avveniva ogni anno, nella festa della mietitura o Pentecoste, nella quale venivano offerte a Dio le primizie del raccolto come segno che esse erano dono di lui. In quella circostanza l’offerente doveva pronunciare una formula di professione di fede che passava in rassegna gli atti salvifici di Dio a favore del suo popolo a cominciare dalla discesa in Egitto del patriarca d’Israele, Giacobbe (v. 5), alla dura schiavitù imposta a Israele dagli Egiziani, dalla quale li liberò Dio «con mano potente e con braccio teso» (vv. 6-8), il quale poi li introdusse in una terra magnifica (v. 9). I frutti della terra verranno presentati al Signore e condivisi con gioia con leviti e forestieri i quali, come è noto, non possedevano la terra (vv. 10-11).

 

Lettera di san Paolo apostolo ai Romani (1,18-23a)

 

Fratelli, 18l’ira di Dio si rivela dal cielo contro ogni empietà e ogni ingiustizia di uomini che soffocano la verità nell’ingiustizia, 19poiché ciò che di Dio si può conoscere è loro manifesto; Dio stesso lo ha manifestato a loro. 20Infatti le sue perfezioni invisibili, ossia la sua eterna potenza e divinità, vengono contemplate e comprese dalla creazione del mondo attraverso le opere da lui compiute. Essi dunque non hanno alcun motivo di scusa 21perché, pur avendo conosciuto Dio, non lo hanno glorificato né ringraziato come Dio, ma si sono perduti nei loro vani ragionamenti e la loro mente ottusa si è ottenebrata. 22Mentre si dichiaravano sapienti, sono diventati stolti 23e hanno scambiato la gloria del Dio incorruttibile con un’immagine e una figura di uomo corruttibile.

Nella prima parte “dottrinale” della lettera, nella quale l’Apostolo argomenta sulla giustificazione dell’uomo peccatore mediante la fede in Cristo, nei versetti oggi proclamati viene mostrato come sia sui pagani come sui Giudei, incombe l’ira di Dio, ossia il giudizio divino per «ogni empietà e ogni ingiustizia» da essi commesse (v. 18). Qui, in particolare, sono presi di mira i pagani, i quali attraverso la creazione erano in grado di contemplare e di comprendere le perfezioni invisibili di Dio (vv. 19-20). Di qui la condizione dei pagani, inescusabili agli occhi di Dio e perduti nei loro vani ragionamenti, diventati stolti al punto di scambiare «la gloria del Dio incorruttibile» con un’immagine e una figura di uomo, cioè caduti nell’idolatria.

 

Vangelo secondo Giovanni (11,1-53)

 

In quel tempo. 1Un certo Lazzaro di Betània, il villaggio di Maria e di Marta sua sorella, era malato.2Maria era quella che cosparse di profumo il Signore e gli asciugò i piedi con i suoi capelli; suo fratello Lazzaro era malato. 3Le sorelle mandarono dunque a dirgli: «Signore, ecco, colui che tu ami è malato».

4All’udire questo, Gesù disse: «Questa malattia non porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa il Figlio di Dio venga glorificato». 5Gesù amava Marta e sua sorella e Lazzaro. 6Quando sentì che era malato, rimase per due giorni nel luogo dove si trovava. 7Poi disse ai discepoli: «Andiamo di nuovo in Giudea!». 8I discepoli gli dissero: «Rabbì, poco fa i Giudei cercavano di lapidarti e tu ci vai di nuovo?». 9Gesù rispose: «Non sono forse dodici le ore del giorno? Se uno cammina di giorno, non inciampa, perché vede la luce di questo mondo; 10ma se cammina di notte, inciampa, perché la luce non è in lui».

11Disse queste cose e poi soggiunse loro: «Lazzaro, il nostro amico, si è addormentato; ma io vado a svegliarlo». 12Gli dissero allora i discepoli: «Signore, se si è addormentato, si salverà». 13Gesù aveva parlato della morte di lui; essi invece pensarono che parlasse del riposo del sonno. 14Allora Gesù disse loro apertamente: «Lazzaro è morto 15e io sono contento per voi di non essere stato là, affinché voi crediate; ma andiamo da lui!». 16Allora Tommaso, chiamato Dìdimo, disse agli altri discepoli: "Andiamo anche noi a morire con lui!».

17Quando Gesù arrivò, trovò Lazzaro che già da quattro giorni era nel sepolcro. 18Betània distava da Gerusalemme meno di tre chilometri 19e molti Giudei erano venuti da Marta e Maria a consolarle per il fratello. 20Marta dunque, come udì che veniva Gesù, gli andò incontro; Maria invece stava seduta in casa. 21Marta disse a Gesù: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto! 22Ma anche ora so che qualunque cosa tu chiederai a Dio, Dio te la concederà». 23Gesù le disse: «Tuo fratello risorgerà». 24Gli rispose Marta: «So che risorgerà nella risurrezione dell’ultimo giorno».25Gesù le disse: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; 26chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno. Credi questo?». 27Gli rispose: «Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo».
28Dette queste parole, andò a chiamare Maria, sua sorella, e di nascosto le disse: «Il Maestro è qui e ti chiama». 29Udito questo, ella si alzò subito e andò da lui. 30Gesù non era entrato nel villaggio, ma si trovava ancora là dove Marta gli era andata incontro. 31Allora i Giudei, che erano in casa con lei a consolarla, vedendo Maria alzarsi in fretta e uscire, la seguirono, pensando che andasse a piangere al sepolcro.

32Quando Maria giunse dove si trovava Gesù, appena lo vide si gettò ai suoi piedi dicendogli: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!». 33Gesù allora, quando la vide piangere, e piangere anche i Giudei che erano venuti con lei, si commosse profondamente e, molto

piangere, e piangere anche i Giudei che erano venuti con lei, si commosse profondamente e, molto turbato, 34domandò: «Dove lo avete posto?». Gli dissero: «Signore, vieni a vedere!». 35Gesù scoppiò in pianto. 36Dissero allora i Giudei: «Guarda come lo amava!». 37Ma alcuni di loro dissero: «Lui, che ha aperto gli occhi al cieco, non poteva anche far sì che costui non morisse?». 38Allora Gesù, ancora una volta commosso profondamente, si recò al sepolcro: era una grotta e contro di essa era posta una pietra.

39Disse Gesù: «Togliete la pietra!». Gli rispose Marta, la sorella del morto: «Signore, manda già cattivo odore; è lì da quattro giorni». 40Le disse Gesù: «Non ti ho detto che, se crederai, vedrai la gloria di Dio?». 41Tolsero dunque la pietra: Gesù allora alzò gli occhi e disse: «Padre, ti rendo grazie perché mi hai ascoltato. 42Io sapevo che mi dai sempre ascolto, ma l’ho detto per la gente che mi sta attorno, perché credano che tu mi hai mandato». 43Detto questo, gridò a gran voce: «Lazzaro, vieni fuori!». 44Il morto uscì, i piedi e le mani legati con bende, e il viso avvolto da un sudario. Gesù disse loro: «Liberatelo e lasciatelo andare».

45Molti dei Giudei che erano venuti da Maria, alla vista di ciò che egli aveva compiuto, credettero  in lui. 46Ma alcuni di loro andarono dai farisei e riferirono loro quello che Gesù aveva fatto.

47Allora i capi dei sacerdoti e i farisei riunirono il sinedrio e dissero: «Che cosa facciamo? Quest’uomo compie molti segni. 48Se lo lasciamo continuare così, tutti crederanno in lui, verranno i Romani e distruggeranno il nostro tempio e la nostra nazione». 49Ma uno di loro, Caifa, che era sommo sacerdote quell’anno, disse loro: «Voi non capite nulla! 50Non vi rendete conto che è conveniente per voi che un solo uomo muoia per il popolo, e non vada in rovina la nazione intera!». 51Questo però non lo disse da se stesso, ma, essendo sommo sacerdote quell’anno, profetizzò che Gesù doveva morire per la nazione; 52e non soltanto per la nazione, ma anche per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi. 53Da quel giorno dunque decisero di ucciderlo.

Il brano evangelico ampio e impegnativo può essere così suddiviso: i vv. 1-6 preparano il successivo racconto e ne presentano i personaggi; i vv. 7-16 riportano il dialogo tra Gesù e i discepoli incentrato sul suo ritorno in Giudea. I vv. 17-32 collocano la scena presso il sepolcro di Lazzaro e riferiscono dell’incontro di Gesù con Marta e Maria sorelle del morto. I vv. 33-40a sono caratterizzati dalla profonda commozione e dal pianto del Signore davanti al sepolcro di Lazzaro suo amico. Il racconto del miracolo vero e proprio occupa i vv. 40b-44 a cui fanno seguito i vv. 45-53 con la reazione dei testimoni dell’evento prodigioso e il raduno del Sinedrio per decidere di uccidere Gesù.

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In queste pagine potete trovare il commento alla liturgia domenicale e festiva secondo il RITO AMBROSIANO, curata da don Alberto Fusi.

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