21 aprile 2013 – IV domenica di Pasqua

Le Scritture oggi proclamate mettono in luce come il Signore Gesù, nella sua Pasqua, diviene guida, per quanti credono in lui, nell’esperienza dell’amore filiale per Dio sorgente dell’amore fraterno.

 

Il Lezionario

 

Sono proposti i seguenti testi della Scrittura: Lettura: Atti 21,8b-14; Salmo 15 (16); Epistola: Filippesi 1,8-14; Vangelo: Giovanni 15,9-17. Nella Messa vigiliare viene letto Luca 24,9-12 come Vangelo della risurrezione. (Le orazioni e i canti della Messa sono quelli propri della IV domenica di Pasqua nel Messale Ambrosiano).

 

Lettura degli Atti degli Apostoli (21,8b-14)

 

In quei giorni.8bEntrati nella casa di Filippo l’evangelista, che era uno dei Sette, restammo presso di lui. 9Egli aveva quattro figlie nubili, che avevano il dono della profezia. 10Eravamo qui da alcuni giorni, quando scese dalla Giudea un profeta di nome Àgabo. 11Egli venne da noi e, presa la cintura di Paolo, si legò i piedi e le mani e disse: «Questo dice lo Spirito Santo: l’uomo al quale appartiene questa cintura, i Giudei a Gerusalemme lo legheranno così e lo consegneranno nelle mani dei pagani». 12All’udire queste cose, noi e quelli del luogo pregavamo Paolo di non salire a Gerusalemme. 13Allora Paolo rispose: «Perché fate così, continuando a piangere e a spezzarmi il cuore? Io sono pronto non soltanto a essere legato, ma anche a morire a Gerusalemme per il nome del Signore Gesù». 14E poiché non si lasciava persuadere, smettemmo di insistere dicendo: «Sia fatta la volontà del Signore!».

 

La scena si svolge a Cesarea, ultima tappa del viaggio di Paolo a Gerusalemme dove, in seguito ai tumulti scoppiati per la sua presenza nel Tempio sarebbe stato arrestato e, a motivo del suo “appello a Cesare”, imbarcato per Roma dove avrebbe subito un primo processo con esito favorevole. Più in particolare la scena è ambientata a casa del diacono Filippo (vv. 8-9). Qui l’Apostolo è raggiunto da Àgabo, un “profeta” che con il gesto di legargli mani e piedi, illustra efficacemente ciò che sarebbe accaduto in occasione della sua visita a Gerusalemme dove sarebbe stato consegnato prigioniero ai Romani (vv. 10-11). Di qui l’accorata supplica della comunità cristiana di non salire a Gerusalemme e la risposta di Paolo disposto «a morire per il nome del Signore Gesù» (v. 13). Il brano si conclude con la decisione di rimettersi alla volontà del Signore (v. 14).

 

Lettera di san Paolo apostolo ai Filippesi (1,8-14)

 

Fratelli,8Dio mi è testimone del vivo desiderio che nutro per tutti voi nell’amore di Cristo Gesù. 9E perciò prego che la vostra carità cresca sempre più in conoscenza e in pieno discernimento, 10perché possiate distinguere ciò che è meglio ed essere integri e irreprensibili per il giorno di Cristo, 11ricolmi di quel frutto di giustizia che si ottiene per mezzo di Gesù Cristo, a gloria e lode di Dio.

12Desidero che sappiate, fratelli, come le mie vicende si siano volte piuttosto per il progresso del Vangelo, 13al punto che, in tutto il palazzo del pretorio e dovunque, si sa che io sono prigioniero per Cristo. 14In tal modo la maggior parte dei fratelli nel Signore, incoraggiati dalle mie catene, ancor più ardiscono annunciare senza timore la Parola.

 

Nei vv. 8-11, l’Apostolo manifesta i suoi affettuosi sentimenti nei riguardi della comunità cristiana di Filippi, da lui fondata, e insieme supplica il Signore perché essa cresca nella carità e nella vita integra del Vangelo. Nei vv. 12-14, Paolo allude alla sua condizione di prigioniero, che non gli impedisce di predicare il Vangelo e che rinvigorisce anche i credenti ad annunciare senza timore la Parola.

 

Lettura del Vangelo secondo Giovanni (15,9-17)

 

In quel tempo. Il Signore Gesù disse ai discepoli: «9Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. 10Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. 11Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena.

Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi. 13Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici. 14Voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando. 15Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi. 16Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga; perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome ve lo conceda. Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri».

 

Il testo evangelico è ambientato nel Cenacolo di Gerusalemme e riproduce quella parte del discorso di rivelazione introdotto dall’affermazione di Gesù di essere la «vite vera» e il Padre il «vignaiolo» (v. 1). Qui viene presentato il Padre come sorgente dell’amore. Da lui, dal suo amore per il Figlio, scaturisce quello di Gesù per i suoi discepoli i quali sono invitati a “rimanere” nel suo amore e, dunque, in quello del Padre (v. 9). Il v.10 chiarisce che rimanere nell’amore significa, molto concretamente, obbedire ai suoi comandamenti sul modello dell’obbedienza di Gesù al Padre. Tale obbedienza fa gioire il discepolo della stessa gioia del Figlio che fa la volontà del Padre (v. 11). A questo punto Gesù presenta l’amore fraterno come il “suo” comandamento (v. 12). La sua osservanza prova che il discepolo rimane nell’amore stesso di atto supremo del suo amore! L’amore assoluto di Gesù motiva la fedeltà del discepolo al suo comandamento. Chi lo osserva è amico di Gesù (v. 14) e non più suo servo, titolo che nella Scrittura sta a indicare chi è fedele a Dio. Al suo amico Gesù rivela la sua intima relazione filiale con il Padre (v. 15). Il v. 16 chiarisce che è Gesù in persona a scegliere i suoi discepoli e ad assicurarli che anch’essi porteranno frutto duraturo mantenendosi nella fede e nell’amore in lui e nell’osservanza del suo comandamento a cui vengono ancora una volta esortati (v. 17).

 

Commento liturgico-pastorale

 

I testi biblici proclamati in questa domenica di Pasqua ci offrono la possibilità di cogliere il significato più alto di quell’evento, ciò che esso esprime, ciò che da esso viene a noi e, di conseguenza, quanto esso ci domanda.

Alla luce di quanto abbiamo ascoltato nella pagina evangelica dobbiamo dire che la ragione che ha spinto il Signore Gesù a «dare la sua vita» (Vangelo: Giovanni 15,13) è l’amore «più grande» che arde nel suo cuore.

Un amore che lo unisce al Padre fonte dell’amore stesso del suo Figlio e che egli fa traboccare su «i suoi», su quanti accolgono con fede la sua parola di rivelazione. Si tratta, però, non di un amore sentimentale e semplicemente rivelatore di un affetto, ma molto concretamente della totale piena disponibilità di Gesù, il Figlio, a obbedire ai comandamenti del Padre suo, a fare cioè la sua volontà. La sua Pasqua di morte e di risurrezione, perciò, è simultaneamente l’epifania suprema dell’amore di Gesù, il Figlio, per il Padre e del suo amore per i suoi.

Amore che nella preghiera liturgica è cantato come la motivazione di fondo di tutto ciò che il Signore Gesù ha fatto per noi: «Mosso a compassione per l’umanità che si era smarrita, egli si degnò di nascere dalla vergine Maria; morendo ci liberò dalla morte e risorgendo ci comunicò la vita immortale» (Prefazio). 

A ben guardare, però, occorre precisare che Gesù partecipa ai suoi discepoli il suo stesso amore per il Padre e insegna a essi a fare altrettanto, a obbedire cioè anch’essi al suo comandamento: quello dell’amore fraterno che, di fatto, esige la disponibilità a «dare la propria vita» (v. 13).

È l’amore incandescente che riscontriamo nell’apostolo Paolo il quale considera del tutto positiva la sua condizione di «prigioniero per Cristo» (Epistola: Filippesi 1,13) che, tra l’altro, infiamma i suoi fratelli nella fede ad annunziare «senza timore la Parola» (v. 14). Un amore, quello di Paolo, che in totale uniformità al suo Signore, si manifesta nella convinta disponibilità «a morire a Gerusalemme per il nome del Signore Gesù» (Lettura: Atti degli Apostoli 21, 14).

A tale riguardo è possibile anche a noi verificare l’esistenza nel nostro spirito dell’amore “di” Gesù e “per” Gesù se avvertiamo nell’intimo dei nostri cuori un’irresistibile inclinazione alla carità fraterna concretamente vissuta. È questo, infatti, il «frutto» portato da Gesù nella sua Pasqua ed è questo il «frutto» duraturo che siamo chiamati anche noi, come suoi discepoli, a portare in questo mondo.

Un simile amore, spinto fino al dono di sé, non nasce spontaneamente nel cuore dell’uomo, ma è dono che procede dalla Pasqua del Signore Gesù dispensato nei sacramenti pasquali e, massimamente, nell’Eucaristia. Essa, infatti, ci fa partecipare dell’amore vicendevole del Padre e del Figlio. Un amore che, in Gesù, si è reso a tutti visibile come obbedienza al volere salvifico del Padre che, nel dono della vita del suo unigenito, intende fare degli uomini i suoi figli!

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In queste pagine potete trovare il commento alla liturgia domenicale e festiva secondo il RITO AMBROSIANO, curata da don Alberto Fusi.

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