2 settembre 2012


2 settembre 2012 – I domenica dopo il Martirio di San Giovanni il Precursore

Questa prima domenica mette in evidenza il carattere cristologico della testimonianza dell’Antica Alleanza che si conclude con quella del Battista. Quella testimonianza, che si riferisce al Signore Gesù, esaurisce di fatto la sua missione davanti a lui che è il Figlio di Dio, portatore della definitiva parola divina di salvezza.


Il Lezionario

Contempla la proclamazione dei seguenti brani biblici: Lettura: Isaia 29,13-21; Salmo 84 (85); Epistola: Ebrei 12,18-25; Vangelo: Giovanni 3,25-36. Alla Messa vigiliare del sabato viene letto: Luca 24,9-12 come Vangelo della Risurrezione. (Le orazioni e i canti della Messa sono quelli della XXII domenica del Tempo «per annum» del Messale Ambrosiano.


Lettura del profeta Isaia (29,13-21)

13Dice il Signore: «Poiché questo popolo / si avvicina a me solo con la sua bocca / e mi onora con le sue labbra, / mentre il suo cuore è lontano da me / e la venerazione che ha verso di me / è un imparaticcio di precetti umani, / 14perciò, eccomi, continuerò / a operare meraviglie e prodigi con questo popolo; / perirà la sapienza dei suoi sapienti / e si eclisserà l’intelligenza dei suoi intelligenti». / 15Guai a quanti vogliono sottrarsi alla vista del Signore / per dissimulare i loro piani, /a coloro che agiscono nelle tenebre, dicendo: / «Chi ci vede? Chi ci conosce?».
16Che perversità! Forse che il vasaio / è stimato pari alla creta? / Un oggetto può dire del suo / autore: / «Non mi ha fatto lui»? / E un vaso può dire del vasaio: «Non capisce»? / 17Certo, ancora un po’ / e il Libano si cambierà in un frutteto / e il frutteto sarà considerato una selva. / 18Udranno in quel giorno i sordi le parole del libro; / liberati dall’oscurità e dalle tenebre, / gli occhi dei ciechi vedranno. / 19Gli umili si rallegreranno di nuovo nel Signore, / i più poveri gioiranno nel Santo d’Israele. / 20Perché il tiranno non sarà più, sparirà l’arrogante, / saranno eliminati quanti tramano iniquità, / 21quanti con la parola rendono colpevoli gli altri, / quanti alla porta tendono tranelli al giudice / e rovinano il giusto per un nulla.

Il brano prende anzitutto di mira il vuoto ritualismo esteriore che non esige l’interiore partecipazione di chi lo compie e la pretesa sapienza e capacità politica dei consiglieri del re (vv. 13-14). Essi, infatti, confidano nelle loro trame oscure e segrete le quali, però, non possono certo rimanere tali agli occhi di Dio che conosce i cuori degli uomini da lui plasmati (vv. 15-16). Il brano è segnato al v. 17 da una svolta con un oracolo che riguarda la trasformazione spirituale del popolo e in particolare degli umili e dei più poveri (vv. 18-19). Viene, inoltre, annunciata la scomparsa del tiranno come dell’arrogante disonesto e ingiusto (vv. 20-21).


Lettera agli Ebrei (12,18-25)

Fratelli, 18voi infatti non vi siete avvicinati a qualcosa di tangibile né a un fuoco ardente né a oscurità, tenebra e tempesta, 19né a squillo di tromba e a suono di parole, mentre quelli che lo udivano scongiuravano Dio di non rivolgere più a loro la parola. 20Non potevano infatti sopportare quest’ordine: «Se anche una bestia toccherà il monte, sarà lapidata». 21Lo spettacolo, in realtà, era così terrificante che Mosè disse: «Ho paura e tremo». 22Voi invece vi siete accostati al monte Sion, alla città del Dio vivente, alla Gerusalemme celeste e a migliaia di angeli, all’adunanza festosa 23e all’assemblea dei primogeniti i cui nomi sono scritti nei cieli, al Dio giudice di tutti e agli spiriti dei giusti resi perfetti, 24a Gesù, mediatore dell’alleanza nuova, e al sangue purificatore, che è più eloquente di quello di Abele. 25Perciò guardatevi bene dal rifiutare Colui che parla, perché, se quelli non trovarono scampo per aver rifiutato colui che proferiva oracoli sulla terra, a maggior ragione non troveremo scampo noi, se volteremo le spalle a Colui che parla dai cieli.

Nei vv. 18-21 vengono evocati i fenomeni cosmici che hanno accompagnato la stipula dell’alleanza tra Dio e Israele tramite la mediazione di Mosè (cfr. Esodo 19,12-13; Deuteronomio 9,19) e che sono stati motivo di timore e spavento tra il popolo. Al contrario l’alleanza nuova stipulata tramite la mediazione di Gesù è descritta come un’adunanza festosa nella Gerusalemme celeste, immagine della Chiesa (vv. 22-24). Di qui l’esortazione a non rifiutare il Signore Gesù e a non voltargli le spalle per non andare incontro a una punizione ben più grave di quella inflitta al popolo della prima alleanza che non aveva voluto ascoltare Mosè (v. 25).


Lettura del Vangelo secondo Giovanni (3,25-36)

In quel tempo. 25Nacque allora una discussione tra i discepoli di Giovanni e un Giudeo riguardo alla purificazione rituale. 26Andarono da Giovanni e gli dissero: «Rabbì, colui che era con te dall’altra parte del Giordano e al quale hai dato testimonianza, ecco, sta battezzando e tutti accorrono a lui». 27Giovanni rispose: «Nessuno può prendersi qualcosa se non gli è stata data dal cielo. 28Voi stessi mi siete testimoni che io ho detto: “Non sono io il Cristo”, ma: “Sono stato mandato avanti a lui”. 29Lo sposo è colui al quale appartiene la sposa; ma l’amico dello sposo, che è presente e l’ascolta, esulta di gioia alla voce dello sposo. Ora questa mia gioia è piena. 30Lui deve crescere; io, invece, diminuire». 31Chi viene dall’alto è al di sopra di tutti; ma chi viene dalla terra, appartiene alla terra e parla secondo la terra. Chi viene dal cielo è al di sopra di tutti. 32Egli attesta ciò che ha visto e udito, eppure nessuno accetta la sua testimonianza. 33Chi ne accetta la testimonianza, conferma che Dio è veritiero. 34Colui infatti che Dio ha mandato dice le parole di Dio: senza misura egli dà lo Spirito. 35Il Padre ama il Figlio e gli ha dato in mano ogni cosa. 36Chi crede nel Figlio ha la vita eterna; chi non obbedisce al Figlio non vedrà la vita, ma l’ira di Dio rimane su di lui.



Il brano, nella prima parte: vv. 25-30, riporta l’ultima “testimonianza” data a Gesù dal Battista e occasionata da una disputa sorta intorno all’attività battesimale di Gesù e dei suoi discepoli (3,22 ss.). La controversia che agita i seguaci del Battista, riguarda il successo dell’attività di Gesù (v. 25). I vv. 27-30 contengono la risposta del Battista che riconosce anzitutto l’origine divina della capacità attrattiva di Gesù (v. 27) e inquadra la propria attività come un precorrere l’arrivo del Cristo (v. 28). Giovanni, inoltre, si paragona «all’amico dello sposo», che è il Messia e con il quale condivide la gioia, tratto caratteristico dell’era messianica e, nella consapevolezza di essere oramai al termine della sua missione, afferma con chiarezza la “necessità” divina della crescita dell’influenza di Gesù rispetto alla sua (vv. 29-30).

La seconda parte (vv. 31-36) riporta un discorso di rivelazione-testimonianza su Gesù stesso di cui si afferma l’origine divina (v. 31) e, di conseguenza, ciò che egli dice di Dio lo dice perché ne ha esperienza diretta. Eppure persino a lui viene opposto un rifiuto (v. 32). Altri, invece, accolgono la sua “testimonianza”, vale a dire la rivelazione portata da Gesù dal Cielo, e con ciò proclamano e confermano che dietro il messaggio di Gesù vi è Dio stesso che ha dato al rivelatore, che è il Figlio, la pienezza dello Spirito (vv. 33-34). Questo perché il Padre ama senza misura il Figlio (v. 35). Il brano si conclude al v. 36 con un forte appello a “credere nel Figlio” per ricevere da subito la salvezza e con un minaccioso avvertimento per quanti perseverano nell’incredulità andando così incontro al giudizio di condanna.


Commento liturgico-pastorale

Il dono pasquale dello Spirito elargito dal Crocifisso, il Risorto, “esaltato” alla destra di Dio, apre la nostra intelligenza a comprendere la testimonianza che la Scrittura offre al Signore Gesù e, insieme, ci spinge a dare al mondo la nostra testimonianza su di lui nel quale, soltanto, è possibile salpare al giudizio di condanna e godere fin da questa vita la salvezza che l’evangelista indica con l’espressione “vita eterna” (Vangelo: Giovanni 3,36). Giovanni il Battista con la sua persona e la sua opera, segna la decisiva svolta impressa da Dio alla storia della salvezza.

Egli, infatti, ha il compito di dare testimonianza a Gesù presente nel mondo e di riconoscerlo pubblicamente come investito dal cielo per «attestare ciò che ha visto e udito» presso Dio del quale, perciò, «dice la Parola» che reca salvezza a quanti la accolgono (cfr. v. 32 e v. 34). In Gesù, dunque, si realizza l’annunzio profetico che svela l’intenzione di Dio di porre fine alla condizione di estraneità del suo popolo che lo avvicina «solo con la bocca» e lo onora «solo con le labbra», mentre il «suo cuore» è lontano da lui (Lettura: Isaia, 29,13).

Il Profeta, perciò, parla di un deciso cambiamento operato da Dio «in quel giorno» nel quale gli ostinati e gli increduli, paragonati ai sordi e ai ciechi, udranno finalmente «le parole del libro» e verranno così liberati «dall’oscurità delle tenebre gli occhi dei ciechi» (v. 18). Giovanni il Battista, unico tra i Profeti, può proclamare che «quel giorno» è finalmente giunto con la venuta del Signore Gesù, di colui che «viene dall’alto ed è al di sopra di tutti» (Giovanni 3,31).

Per questo egli «dice le parole di Dio» ossia è il rivelatore definitivo davanti al quale deve oramai diminuire, in pratica concludersi, la missione del Battista così come quella dei Profeti dell’Antica Alleanza. Da questo momento ogni uomo è chiamato a prendere davanti a Gesù, che è il Figlio amato dal Padre e che è stato da lui rivestito del suo Spirito (cfr. vv. 34-35), una decisione carica di conseguenze: chi lo accoglie e crede in lui entra fin da ora nella “vita eterna”, sperimenta cioè la gioia della salvezza e, dunque, diversamente da chi lo rifiuta, non va incontro al giudizio distruttivo che Dio pronuncia sull’incredulità e sul peccato (v.36).

A tale riguardo l’Epistola mette in guardia quanti, mediante la fede e i sacramenti, si sono accostati «a Gesù mediatore dell’alleanza nuova, e al sangue purificatore» (Ebrei 12,24), dal tornare a vivere come sordi e ciechi, vale a dire da increduli i quali pensano di essere vicini e graditi a Dio rendendogli un culto frutto della bocca e delle labbra e non del cuore (cfr. Isaia 29,13). Un simile comportamento che l’Epistola descrive concretamente come un «voltare le spalle a Colui che parla dai cieli» (v.25), visualizzando in tal modo il rifiuto di credere nel Signore, è meritevole di una condanna ben più grave di quella che si è abbattuta su quanti hanno «rifiutato colui che proferiva oracoli sulla terra» ossia la testimonianza dei Profeti (v.25).

Partecipando all’Eucaristia nella purezza e nella sincerità del cuore domandiamo la grazia di ascoltare nelle divine Scritture la voce dello Sposo (Giovanni 3,29) che ci stabilisca in una fede ferma, ci rassicuri del suo amore, tenga viva la nostra speranza, ci doni di sperimentare quella gioia che non ci verrà più tolta, e la comunione al suo Corpo e al suo Sangue ci trasformi in una testimonianza vivente di lui da tutti immediatamente riconoscibile.

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26 agosto 2012 - XIII Domenica dopo Pentecoste


26 Agosto 2012 – Domenica che precede il Martirio di San Giovanni il Precursore


Tiene il posto della tredicesima domenica dopo Pentecoste e prepara la svolta che la prossima festa del Martirio di San Giovanni il Precursore (28 agosto) imprimerà al tempo liturgico dopo Pentecoste.


Il Lezionario

Fa oggi proclamare le seguenti le seguenti lezioni bibliche: Lettura: 2 Maccabei 7,1-2.20-41; Salmo 16 (17); Epistola: 2Corinzi 4,7-14; Vangelo: Matteo 10,28-42. Il Vangelo della Risurrezione da leggere nella Messa vigiliare del sabato è preso da Marco 16,1-8a. (Le orazioni e i canti della Messa sono quelli della XXI Domenica del Tempo «per annum» del Messale Ambrosiano).


Lettura del secondo libro dei Maccabei (7,1-2. 20-41)

In quei giorni. 1Ci fu anche il caso di sette fratelli che, presi insieme alla loro madre, furono costretti dal re, a forza di flagelli e nerbate, a cibarsi di carni suine proibite. 2Uno di loro, facendosi interprete di tutti, disse: «Che cosa cerchi o vuoi sapere da noi? Siamo pronti a morire piuttosto che trasgredire le leggi dei padri». 20Soprattutto la madre era ammirevole e degna di gloriosa memoria, perché, vedendo morire sette figli in un solo giorno, sopportava tutto serenamente per le speranze poste nel Signore. 21Esortava ciascuno di loro nella lingua dei padri, piena di nobili sentimenti e, temprando la tenerezza femminile con un coraggio virile, diceva loro: 22«Non so come siate apparsi nel mio seno; non io vi ho dato il respiro e la vita, né io ho dato forma alle membra di ciascuno di voi. 23Senza dubbio il Creatore dell’universo, che ha plasmato all’origine l’uomo e ha provveduto alla generazione di tutti, per la sua misericordia vi restituirà di nuovo il respiro e la vita, poiché voi ora per le sue leggi non vi preoccupate di voi stessi». 24Antioco, credendosi disprezzato e sospettando che quel linguaggio fosse di scherno, esortava il più giovane che era ancora vivo; e non solo a parole, ma con giuramenti prometteva che l’avrebbe fatto ricco e molto felice, se avesse abbandonato le tradizioni dei padri, e che l’avrebbe fatto suo amico e gli avrebbe affidato alti incarichi. 25Ma poiché il giovane non badava per nulla a queste parole, il re, chiamata la madre, la esortava a farsi consigliera di salvezza per il ragazzo. 26Esortata a lungo, ella accettò di persuadere il figlio; 27chinatasi su di lui, beffandosi del crudele tiranno, disse nella lingua dei padri: «Figlio, abbi pietà di me, che ti ho portato in seno nove mesi, che ti ho allattato per tre anni, ti ho allevato, ti ho condotto a questa età e ti ho dato il nutrimento. 28Ti scongiuro, figlio, contempla il cielo e la terra, osserva quanto vi è in essi e sappi che Dio li ha fatti non da cose preesistenti; tale è anche l’origine del genere umano. 29Non temere questo carnefice, ma, mostrandoti degno dei tuoi fratelli, accetta la morte, perché io ti possa riavere insieme con i tuoi fratelli nel giorno della misericordia». 30Mentre lei ancora parlava, il giovane disse: «Che aspettate? Non obbedisco al comando del re, ma ascolto il comando della legge che è stata data ai nostri padri per mezzo di Mosè. 31Tu però, che ti sei fatto autore di ogni male contro gli Ebrei, non sfuggirai alle mani di Dio. 32Noi, in realtà, soffriamo per i nostri peccati. 33Se ora per nostro castigo e correzione il Signore vivente per breve tempo si è adirato con noi, di nuovo si riconcilierà con i suoi servi. 34Ma tu, o sacrilego e il più scellerato di tutti gli uomini, non esaltarti invano, alimentando segrete speranze, mentre alzi la mano contro i figli del Cielo, 35perché non sei ancora al sicuro dal giudizio del Dio onnipotente che vede tutto. 36Già ora i nostri fratelli, che hanno sopportato un breve tormento, per una vita eterna sono entrati in alleanza con Dio. Tu invece subirai nel giudizio di Dio il giusto castigo della tua superbia. 37Anch’io, come già i miei fratelli, offro il corpo e la vita per le leggi dei padri, supplicando Dio che presto si mostri placato al suo popolo e che tu, fra dure prove e flagelli, debba confessare che egli solo è Dio; 38con me invece e con i miei fratelli possa arrestarsi l’ira dell’Onnipotente, giustamente attirata su tutta la nostra stirpe». 39Il re, divenuto furibondo, si sfogò su di lui più crudelmente che sugli altri, sentendosi invelenito dallo scherno. 40Così anche costui passò all’altra vita puro, confidando pienamente nel Signore. 41Ultima dopo i figli, anche la madre incontrò la morte.

Il brano riporta il resoconto del martirio del più giovane dei sette fratelli Maccabei (7,1-19) e della loro madre fatti uccidere dal re Antioco IV Epifane (175-164 a.C.) nel tentativo di introdurre nei suoi domini e, dunque, anche in Palestina, i costumi e le leggi del mondo greco. I vv. 20-29 riferiscono le parole di incitamento della madre ai suoi sette figli a morire piuttosto che rinnegare la Legge. I vv. 30-38 tramandano le nobili parole con le quali il fratello più giovane dichiara di voler obbedire alla Legge e si scaglia contro il re per il quale preannunzia il castigo divino. I vv. 39-41 infine parlano della sua morte e di quella della madre.


Seconda lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi (4,7-14)

Fratelli, 7Noi però abbiamo questo tesoro in vasi di creta, affinché appaia che questa straordinaria potenza appartiene a Dio, e non viene da noi. 8In tutto, infatti, siamo tribolati, ma non schiacciati; siamo sconvolti, ma non disperati; 9perseguitati, ma non abbandonati; colpiti, ma non uccisi, 10portando sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo. 11Sempre infatti, noi che siamo vivi, veniamo consegnati alla morte a causa di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nella nostra carne mortale. 12Cosicché in noi agisce la morte, in voi la vita.. 13Animati tuttavia da quello stesso spirito di fede di cui sta scritto: «Ho creduto, perciò ho parlato», anche noi crediamo e perciò parliamo, 14convinti che colui che ha risuscitato il Signore Gesù, risusciterà anche noi con Gesù e ci porrà accanto a lui insieme con voi.

Il passo si riferisce alle tribolazioni a cui vanno incontro i missionari del Vangelo paragonati dall’Apostolo a vasi di creta (v. 7). Segue l’elenco delle tribolazioni che hanno il loro culmine nell’essere «consegnati alla morte a causa di Gesù» (vv. 8-12). Nonostante ciò i predicatori del Vangelo continuano a mantenere la fede nella potenza divina capace di richiamarli dalla morte come è avvenuto nella risurrezione del Signore Gesù (vv. 13-14).


Lettura del Vangelo secondo Matteo (10,28-42)

In quel tempo. Il Signore Gesù disse: 28«E non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima; abbiate paura piuttosto di colui che ha il potere di far perire nella Geènna e l’anima e il corpo. 29Due passeri non si vendono forse per un soldo? Eppure nemmeno uno di essi cadrà a terra senza il volere del Padre vostro. 30Perfino i capelli del vostro capo sono tutti contati. 31Non abbiate dunque paura: voi valete più di molti passeri! 32Perciò chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli; 33chi invece mi rinnegherà davanti agli uomini, anch’io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli. 34Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; sono venuto a portare non pace, ma spada. 35Sono infatti venuto a separare “l’uomo da suo padre e la figlia da sua madre e la nuora da sua suocera”; 36e “nemici dell’uomo saranno quelli della sua casa”. 37Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me; chi ama figlio o figlia più di me, non è degno di me; 38chi non prende la propria croce e non mi segue, non è degno di me. 39Chi avrà tenuto per sé la propria vita, la perderà, e chi avrà perduto la propria vita per causa mia, la troverà.
40Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato. 41Chi accoglie un profeta perché è un profeta, avrà la ricompensa del profeta, e chi accoglie un giusto perché è un giusto, avrà la ricompensa del giusto. 42Chi avrà dato da bere anche un solo bicchiere d’acqua fresca a uno di questi piccoli perché è un discepolo, in verità io vi dico: non perderà la sua ricompensa»
.

Il brano riporta la seconda parte del discorso di Gesù ai suoi discepoli inviati in missione, che si presenta con una serie di esortazioni e di avvertimenti riguardanti la persecuzione a cui andranno incontro così come è accaduto al loro Maestro. In tutto ciò essi dovranno perseverare in una fiducia irremovibile nel Padre. Di qui l’esortazione di Gesù a non temere la morte proprio perché il Padre vigila su di essi (vv. 28-31) ed essere pronti a dare testimonianza della loro fede in Cristo (vv. 32-33). I vv. 34-39 menzionano l’attività missionaria dello stesso Signore Gesù che ha provocato una dolorosa spaccatura persino all’interno degli affetti familiari e indicano, nella disponibilità a seguirlo fino alla morte, la condizione richiesta a quanti vogliono farsi suoi discepoli. I vv. 40-42 riguardanti l’accoglienza dei missionari del Vangelo fanno capire che, anche nella persecuzione, non saranno del tutto abbandonati e troveranno chi si prende cura di essi.


Commento liturgico-pastorale

La tradizione liturgica della nostra Chiesa ambrosiana, nell’imminenza della festa del martirio di san Giovanni Battista, il Precursore del Signore (29 agosto), che segna una svolta nel tempo liturgico “dopo Pentecoste”, presenta, ogni anno, l’eroica testimonianza di fedeltà alla Legge di Dio offerta da alcuni appartenenti al popolo d’Israele, al quale il re Antioco IV Epifane voleva imporre la religione e la cultura greca, dominante anche nel vicino Oriente dopo la conquista di Alessandro Magno.

La Lettura, infatti, ci ha presentato il racconto dettagliato del martirio del più giovane di sette fratelli e della loro madre. In lui, come nella madre, colpisce la fermezza nel mantenersi fermo nella volontà di ascoltare e di obbedire al «comando della legge che è stata data ai nostri padri per mezzo di Mosè» (2 Maccabei 7,30). Il martirio dei Maccabei, il martirio del Precursore del Signore, annunziano quello del Signore Gesù e, di conseguenza, dei missionari del suo Vangelo.

Questi sono chiamati a rendersi disponibili nella sequela del Signore anche a costo di «perdere la propria vita», vale a dire l’esistenza terrena (Vangelo: Matteo 10,39 ). È l’esperienza che ha vissuto la Chiesa delle origini con l’uccisione di santo Stefano e di cui dà testimonianza l’Epistola paolina che descrive dettagliatamente la vita tribolata degli Apostoli «consegnati alla morte a causa di Gesù» (2Corinzi 4,11).

È l’esperienza che ha segnato e continua a segnare il cammino della Chiesa. Non passa giorno, infatti, che da diversi Paesi non giungano notizie di marginalizzazioni, esclusioni, soprusi, violenze e uccisione di nostri fratelli proprio a causa della loro fede in Cristo. Del resto ognuno di noi sa che in ogni momento è chiamato a dare testimonianza di fede e di amore per Gesù anche negli ambienti apparentemente meno ostili come può essere quello familiare.

Proprio lì si comprende se davvero l’amore per il Signore occupa il nostro cuore e la nostra persona orientando rettamente quello «del padre o della madre, del figlio o della figlia» (cfr. Matteo 10,37) e addirittura quello per la nostra stessa vita (v. 39). Viene poi per tutti l’ora della croce, l’ora della sofferenza, l’ora della testimonianza suprema nella quale, pure, occorre seguire il Signore.

La testimonianza, ovvero il “martirio”, è una grazia, è un dono che hanno ricevuto i fratelli Maccabei e la loro madre così come il Precursore e gli Apostoli del Signore e, con essi, una serie infinita di uomini e donne, vecchi e bambini che non hanno rinnegato Gesù «davanti agli uomini» (v. 33) e che lui non ha rinnegato ma ha riconosciuto come suoi «davanti al Padre che è nei cieli» (v. 33). Perché ci sia dato il dono della testimonianza è necessario nutrire la nostra fede alle sorgenti purissime della Parola e del Pane eucaristico.

In tal modo, tra le prove e le tribolazioni sofferte per Cristo, cresce la consapevolezza che Dio è più potente di ogni pur potente avversario capace perfino di toglierci la vita (cf. 2Maccabei 7) e, soprattutto, si fa sempre più forte la certezza che: «Colui che ha risuscitato il Signore Gesù, risusciterà anche noi con Gesù e ci porrà accanto a lui» ( 2Corinzi 4,14).

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19 agosto 2012 - XII Domenica dopo Pentecoste

Matteo (10,5b-15)

In quel tempo. Il Signore Gesù inviò i Dodici, ordinando loro: «Non andate fra i pagani e non entrate nelle città dei Samaritani; rivolgetevi piuttosto alle pecore perdute della casa d’Israele. Strada facendo, predicate, dicendo che il regno dei cieli è vicino. Guarite gli infermi, risuscitate i morti, purificate i lebbrosi, scacciate i demòni. Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date. Non procuratevi oro né argento né denaro nelle vostre cinture, né sacca da viaggio, né due tuniche, né sandali, né bastone, perché chi lavora ha diritto al suo nutrimento. In qualunque città o villaggio entriate, domandate chi là sia degno e rimanetevi finché non sarete partiti. Entrando nella casa, rivolgetele il saluto. Se quella casa ne è degna, la vostra pace scenda su di essa; ma se non ne è degna, la vostra pace ritorni a voi. Se qualcuno poi non vi accoglie e non dà ascolto alle vostre parole, uscite da quella casa o da quella città e scuotete la polvere dei vostri piedi. In verità io vi dico: nel giorno del giudizio la terra di Sòdoma e Gomorra sarà trattata meno duramente di quella città».

Il brano fa parte del discorso di Gesù riguardante la sua missione (Matteo 9,35-38) e quella dei Dodici (Matteo 10,1-5a).

Qui vengono riportare le istruzioni impartite ai Dodici in vista della loro attività missionaria. Esse riguardano anzitutto i destinatari (vv.5b-6), individuati nei soli appartenenti al popolo di Israele in quanto a esso è in primo luogo inviato il Messia.

I vv. 7-8d illustrano il programma di massima della missione, che consiste nell’annuncio del Regno dei cieli avvalorata da miracoli e da guarigioni secondo la parola dei profeti. Ai missionari viene suggerito di tenere un comportamento contrassegnato da grande essenzialità e sobrietà (vv. 8e-10) e vengono avvertiti che la loro attività può andare incontro sia al successo come al fallimento ovvero al rifiuto che espone, chi lo compie, al giudizio divino di condanna (vv. 11-15).

La Lettura vetero-testamentaria pone in rilievo l’attività profetica di Geremia, il grande profeta che preannunzia l’evento luttuoso della presa di Gerusalemme da parte di Nabucodonosor, re dei babilonesi (587 a.C.), la fine del regno di Giuda sopravvissuto a quello di Israele annientato dagli Assiri nel 721 a.C.
Il profeta tiene a indicare con precisione il notevole numero di anni, ventitré, spesi nel parlare al popolo «con premura e insistenza», ottenendo sempre un rifiuto (Geremia 25,3). Invano, dunque, Geremia, come del resto tutti i profeti che lo hanno preceduto, ha esortato in continuazione il popolo ad abbandonare «la sua condotta perversa e le sue opere malvagie» (v. 4).
Si spiega, dunque, con l’ostinazione nel seguire altri dei (v. 6) il motivo per il quale Dio fa cadere sul suo popolo il castigo tramite Nabucodonosor, che egli chiama «mio servo» (v. 9 ) e, perciò, strumento dei disegni divini che contemplano, dopo «settanta anni» di deportazione a Babilonia (v. 11), il ritorno del “resto” nella propria terra.
La figura e l’attività profetica di Geremia trovano il loro compimento nel Signore Gesù che non è uno dei profeti, ma il “Figlio” nel quale Dio può manifestare pienamente e definitivamente la sua fedeltà e il suo amore per il suo popolo. Gesù, infatti, concepisce la sua missione come un essere mandato «alle pecore perdute della casa d’Israele» (Vangelo: Matteo 10,6), depositaria della promessa divina riguardante il Messia. È il compito inizialmente affidato ai suoi Apostoli ai quali, per il momento, vieta di andare tra i pagani e di entrare nelle città dei Samaritani a essi equiparati (v. 5 ).

Questo perché Dio ha stipulato con Israele un’alleanza irrevocabile al pari della sua elezione tra tutti i popoli della terra (Epistola: Romani 11,29). Sappiamo, però, che l’amore di predilezione di Dio per Israele rappresenta e anticipa ciò che egli ha in serbo per tutti i popoli della terra. Questi, al pari di Israele, sono stati rinchiusi «tutti nella disobbedienza» (v.32). Di conseguenza, ebrei e pagani, ossia l’intera umanità, è come rinchiusa nel peccato, meritevole perciò dei castighi annunciati dai profeti e minacciati da Gesù su coloro che si ostinano nell’incredulità (cfr. Matteo 10,14-15). Dio, invece, ha deciso di «essere misericordioso verso tutti» (Romani 11,32).
Sarà il Signore risorto a dare agli Apostoli il mandato missionario universale perché, attraverso la predicazione, la conversione, la fede e il battesimo, venisse estesa a tutti i popoli della terra la misericordia di Dio condensata nella sua Pasqua. In tal modo, anche noi che proveniamo dalle genti, siamo stati fatto oggetto della straripante misericordia divina al punto da essere stati inseriti nel popolo santo di Dio che è la Chiesa, destinata ad abbracciare tutte le genti.
Questo, però, ci deve spronare ad accogliere con generosa disponibilità la Parola che ci viene predicata nelle Scritture, facendo attenzione a non opporle un rifiuto di fatto nella condotta e nelle scelte di vita per seguire e onorare i numerosi “dèi” che affollano il palcoscenico della storia contemporanea (cfr. Geremia 25,6), a cominciare dall’amore idolatrico del nostro “io” malvagio. Andremmo in tal caso incontro a un giudizio ben più duro di quello che toccò a Sòdoma e Gomorra (Matteo 10,15). Consapevoli dell’instabilità e della fragilità del nostro cuore facciamo appello alla misericordia di Dio: «Rendici, o Padre, attenti e docili alla voce interiore dello Spirito, perché ogni nostra parola concordi con la tua verità, e ogni atto si conformi al tuo volere»

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15 agosto 2012 - Solennità dell'Assunta

Luca (1,39-55)

In quei giorni Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda. Entrata nella casa di Zaccaria, salutò Elisabetta. Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo. Elisabetta fu colmata di Spirito Santo ed esclamò a gran voce: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me? Ecco, appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo. E beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto». Allora Maria disse: / «L’anima mia magnifica il Signore / e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore, / perché ha guardato l’umiltà della sua serva. / D’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata. / Grandi cose ha fatto per me l’Onnipotente / e Santo è il suo nome; / di generazione in generazione la sua misericordia / per quelli che lo temono. / Ha spiegato la potenza del suo braccio, / ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore; / ha rovesciato i potenti dai troni, / ha innalzato gli umili; / ha ricolmato di beni gli affamati, / ha rimandato i ricchi a mani vuote. / Ha soccorso Israele, suo servo, / ricordandosi della sua misericordia, come aveva detto ai nostri padri, / per Abramo e la sua discendenza, per sempre».

Il passo segue il racconto dell’annuncio dell’angelo a Maria (1,26-38) ed è chiaramente diviso in due parti. Anzitutto il racconto della visita di Maria alla cugina Elisabetta al sesto mese di gravidanza e l’ispirato saluto di Elisabetta che riconosce in Maria la «madre del mio Signore».
Al saluto risponde Maria con il “cantico” nel quale si riconoscono numerosi riferimenti veterotestamentari, come il cantico di Anna, la madre del profeta Samuele.
Nelle parole di Maria brilla l’agire di Dio in favore dei “piccoli” e dei “poveri” a scapito dei “ricchi” e dei “potenti” e la sua fedeltà a Israele a motivo del suo legame con Abramo.

Com’è noto, il mistero che oggi celebriamo è stato proclamato dogma di fede dal Papa Pio XII nel 1950, come sigillo e conferma di quanto la Chiesa aveva da sempre e ovunque creduto. A tale riguardo nella costituzione dogmatica Lumen gentium del Concilio Vaticano II, i Padri, dopo aver tratteggiato il posto della Vergine Santa nel più ampio mistero della Chiesa, così si esprimono: «L’immacolata Vergine, preservata immune da ogni macchia di colpa originale, finito il corso della sua vita terrena, fu assunta alla celeste gloria con il suo corpo e con la sua anima, e dal Signore esaltata come la Regina dell’universo, perché fosse più pienamente conformata al Figlio suo, il Signore dei dominanti, il vincitore del peccato e della morte».

La preghiera liturgica ambrosiana ama sottolineare lo stretto legame esistente tra l’assunzione e la divina maternità di Maria dichiarando con decisione che Dio non ha voluto «che conoscesse la corruzione del sepolcro colei che ha generato il Signore della vita» (Prefazio della Messa nel giorno).

Dal canto suo il Prefazio della Messa della vigilia afferma che l’assunzione della Madre è una singolare partecipazione alla risurrezione di Cristo: «Sola, dopo il suo Figlio a non rimanere legata ai lacci della morte, fu assunta al cielo e oggi è coronata di gloria regale», partecipazione annunziata, per tutti i credenti, nell’Epistola paolina delle due Messe. La Vergine assunta in cielo, riconosciuta come «primizia e immagine della Chiesa» (Prefazio della Messa nel giorno), ci fa intravedere cosa avverrà anche per noi nel compiersi del mistero di salvezza che per Maria è fissato nell’ora in cui «per la nostra condizione mortale ha dovuto abbandonare questa vita» (Orazione A Conclusione della Liturgia della Parola, Messa della vigilia) e che l’Apostolo fissa per noi nell’ora in cui il nostro «corpo corruttibile si sarà vestito d’incorruttibilità e questo corpo mortale d’immortalità» (Epistola: 1Corinzi 15,54, Messa della vigilia). Nella Vergine Madre assunta in cielo Dio, perciò, fa risplendere per il suo popolo «pellegrino sulla terra, un segno di consolazione e di sicura speranza» ( Prefazio della Messa nel giorno).

La solennità odierna, pertanto, ci chiede di rinvigorire la nostra fede nelle grandi cose che Dio compie per tutti coloro che piccoli e poveri di orgoglio e umana presunzione si affidano alla sua potenza che ci destina a partecipare al mistero di salvezza fino a giungere «nella luce e nella pace» della sua casa nell’integrità della nostra persona (Orazione All’Inizio dell’Assemblea Liturgica della Messa della vigilia).

Cose, queste, che la mente umana non può nemmeno immaginare e tanto meno, perciò, credere. Occorre imparare da Maria l’ascolto umile della Parola che si fa subito docile obbedienza nella quale consiste quella beatitudine (cfr. Vangelo: Luca 11,28. Messa della vigilia), che anticipa e assicura qui in terra quella definitiva del Cielo. Di quella beatitudine riceviamo la “caparra” quando ci accostiamo alla mensa del Corpo del Signore che comincia a rivestire di incorruttibilità e di immortalità, il nostro corpo corruttibile e mortale (cfr. Epistola: 1Corinzi 15,54. Messa della vigilia).

In questo giorno davvero straordinario affidiamo le nostre attese e la nostra speranza a Maria rivolgendo a lei la nostra comune preghiera: «Madre di Dio, noi ti glorifichiamo perché da te nacque Cristo Signore, che salva tutti quelli che ti onorano. Santa Madre di Dio, rendici a te somiglianti nella vita di grazia» (Canto Alla Comunione, Messa della vigilia).

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12 agosto 2012 – XI domenica dopo Pentecoste


Presenta la figura di Elia, il più grande dei profeti, che ricapitola in sé la lunga serie di “servi” inviati da Dio al suo popolo Israele. In lui viene annunciata e preparata la venuta nel mondo non più di un profeta, ma del Figlio stesso di Dio, il Signore Gesù.


Il Lezionario

Fa proclamare i seguenti passi biblici: Lettura: 1Re 18,16b-40a; Salmo 15 (16); Epistola: Romani 11,1-15; Vangelo: Matteo 21,33-46. Nella Messa vespertina del sabato il Vangelo della Risurrezione è preso da Giovanni 20,24-29. (Le orazioni e i canti della Messa sono quelli della XIX domenica del Tempo «per annum» del Messale Ambrosiano).


Lettura del primo libro dei Re (18,16b-40a)

In quei giorni. 16Acab si diresse verso Elia. 17Appena lo vide, Acab disse a Elia: «Sei tu colui che manda in rovina Israele?». 18Egli rispose: «Non io mando in rovina Israele, ma piuttosto tu e la tua casa, perché avete abbandonato i comandi del Signore e tu hai seguito i Baal. 19Perciò fa’ radunare tutto Israele presso di me sul monte Carmelo, insieme con i quattrocentocinquanta profeti di Baal e con i quattrocento profeti di Asera, che mangiano alla tavola di Gezabele». 20Acab convocò tutti gli Israeliti e radunò i profeti sul monte Carmelo. 21Elia si accostò a tutto il popolo e disse: «Fino a quando salterete da una parte all’altra? Se il Signore è Dio, seguitelo! Se invece lo è Baal, seguite lui!». Il popolo non gli rispose nulla. 22Elia disse ancora al popolo: «Io sono rimasto solo, come profeta del Signore, mentre i profeti di Baal sono quattrocentocinquanta. 23Ci vengano dati due giovenchi; essi se ne scelgano uno, lo squartino e lo pongano sulla legna senza appiccarvi il fuoco. Io preparerò l’altro giovenco e lo porrò sulla legna senza appiccarvi il fuoco. 24Invocherete il nome del vostro dio e io invocherò il nome del Signore. Il dio che risponderà col fuoco è Dio!». Tutto il popolo rispose: «La proposta è buona!». 25Elia disse ai profeti di Baal: «Sceglietevi il giovenco e fate voi per primi, perché voi siete più numerosi. Invocate il nome del vostro dio, ma senza appiccare il fuoco». 26Quelli presero il giovenco che spettava loro, lo prepararono e invocarono il nome di Baal dal mattino fino a mezzogiorno, gridando: «Baal, rispondici!». Ma non vi fu voce, né chi rispondesse. Quelli continuavano a saltellare da una parte all’altra intorno all’altare che avevano eretto. 27Venuto mezzogiorno, Elia cominciò a beffarsi di loro dicendo: «Gridate a gran voce, perché è un dio! È occupato, è in affari o è in viaggio; forse dorme, ma si sveglierà». 28Gridarono a gran voce e si fecero incisioni, secondo il loro costume, con spade e lance, fino a bagnarsi tutti di sangue. 29Passato il mezzogiorno, quelli ancora agirono da profeti fino al momento dell’offerta del sacrificio, ma non vi fu né voce né risposta né un segno d’attenzione. 30Elia disse a tutto il popolo: «Avvicinatevi a me!». Tutto il popolo si avvicinò a lui e riparò l’altare del Signore che era stato demolito. 31Elia prese dodici pietre, secondo il numero delle tribù dei figli di Giacobbe, al quale era stata rivolta questa parola del Signore: «Israele sarà il tuo nome». 32Con le pietre eresse un altare nel nome del Signore; scavò intorno all’altare un canaletto, della capacità di circa due sea di seme. 33Dispose la legna, squartò il giovenco e lo pose sulla legna. 34Quindi disse: «Riempite quattro anfore d’acqua e versatele sull’olocausto e sulla legna!». Ed essi lo fecero. Egli disse: «Fatelo di nuovo!». Ed essi ripeterono il gesto. Disse ancora: «Fatelo per la terza volta!». Lo fecero per la terza volta. 35L’acqua scorreva intorno all’altare; anche il canaletto si riempì d’acqua. 36Al momento dell’offerta del sacrificio si avvicinò il profeta Elia e disse: «Signore, Dio di Abramo, di Isacco e d’Israele, oggi si sappia che tu sei Dio in Israele e che io sono tuo servo e che ho fatto tutte queste cose sulla tua parola. 37Rispondimi, Signore, rispondimi, e questo popolo sappia che tu, o Signore, sei Dio e che converti il loro cuore!». 38Cadde il fuoco del Signore e consumò l’olocausto, la legna, le pietre e la cenere, prosciugando l’acqua del canaletto. 39A tal vista, tutto il popolo cadde con la faccia a terra e disse: «Il Signore è Dio! Il Signore è Dio!». 40Elia disse loro: «Afferrate i profeti di Baal; non ne scappi neppure uno!».

Il brano riferisce della sfida posta dal profeta Elia ai profeti di Baal protetti dalla regina Gezabele, moglie di Acab, re d’Israele distintosi nell’opera di demolizione presso il suo popolo della fedeltà all’alleanza con Dio. I vv. 16-19 ambientano la scena successiva con l’incontro tra il profeta e il re Acab che lo accusa di «mandare in rovina Israele». I vv. 20-24 descrivono i preparativi della sfida lanciata da Elia ai quattrocentocinquanta profeti di Baal per indurre tutto il popolo, radunato sul monte Carmelo, a scegliere se «seguire Dio o Baal». I vv. 25-29 vedono protagonisti i profeti di Baal che «dal mattino fino a mezzogiorno» invocano invano la loro inconsistente divinità a dimostrare la sua potenza «rispondendo con il fuoco» capace di incenerire il giovenco offerto in sacrificio. Il profeta Elia prepara a sua volta l’animale per il sacrificio facendo versare ripetutamente acqua su di esso e sulla legna sulla quale era posto (vv. 30-35) ed eleva a Dio, «Dio di Abramo, di Isacco e d’Israele», la sua preghiera (vv. 36-37) prontamente esaudita al punto che il fuoco del Signore consumò, con l’olocausto, persino le pietre dell’altare (v. 38). Il v. 39 registra infine la confessione di fede di tutto il popolo nei confronti di Dio.


Lettera di san Paolo apostolo ai Romani (11,1-15)

Fratelli, 1io domando dunque: Dio ha forse ripudiato il suo popolo? Impossibile! Anch’io infatti sono Israelita, della discendenza di Abramo, della tribù di Beniamino. 2«Dio non ha ripudiato il suo popolo», che egli ha scelto fin da principio. Non sapete ciò che dice la Scrittura, nel passo in cui Elia ricorre a Dio contro Israele? 3Signore, «hanno ucciso i tuoi profeti, hanno rovesciato i tuoi altari, sono rimasto solo e ora vogliono la mia vita». 4Che cosa gli risponde però la voce divina? «Mi sono riservato settemila uomini, che non hanno piegato il ginocchio davanti a Baal». 5Così anche nel tempo presente vi è un resto, secondo una scelta fatta per grazia. 6E se lo è per grazia, non lo è per le opere; altrimenti la grazia non sarebbe più grazia. 7Che dire dunque? Israele non ha ottenuto quello che cercava; lo hanno ottenuto invece gli eletti. Gli altri invece sono stati resi ostinati, 8come sta scritto: / «Dio ha dato loro uno spirito di torpore, / occhi per non vedere / e orecchi per non sentire, / fino al giorno d’oggi». / 9E Davide dice: / «Diventi la loro mensa un laccio, un tranello, / un inciampo e un giusto castigo! / 10Siano accecati i loro occhi in modo che non vedano / e fa’ loro curvare la schiena per sempre!» 11Ora io dico: forse inciamparono per cadere per sempre? Certamente no. Ma a causa della loro caduta la salvezza è giunta alle genti, per suscitare la loro gelosia. 12Se la loro caduta è stata ricchezza per il mondo e il loro fallimento ricchezza per le genti, quanto più la loro totalità! 13A voi, genti, ecco che cosa dico: come apostolo delle genti, io faccio onore al mio ministero, 14nella speranza di suscitare la gelosia di quelli del mio sangue e di salvarne alcuni. 15Se infatti il loro essere rifiutati è stata una riconciliazione del mondo, che cosa sarà la loro riammissione se non una vita dai morti?

L’Apostolo riflette sulla fedeltà di Dio al suo popolo Israele. Una fedeltà che non viene meno nonostante il rifiuto di Israele, eccetto “un resto”, di accogliere in Cristo la sua grazia (vv. 1-6). Con il ricorso a diverse citazioni bibliche, Paolo descrive la condizione di incredulità del popolo ad eccezione di alcuni eletti che testimoniano, di conseguenza, che Dio non ha ripudiato il suo popolo (vv. 7-10), anzi annunzia che la caduta di Israele non è per sempre e diviene causa del fatto che la «salvezza è giunta alle genti», ossia ai pagani (v. 11-15).


Lettura del Vangelo secondo Matteo (21,33-46)

In quel tempo. Il Signore Gesù disse: «33Ascoltate un’altra parabola: c’era un uomo che possedeva un terreno e vi piantò una vigna. La circondò con una siepe, vi scavò una buca per il torchio e costruì una torre. La diede in affitto a dei contadini e se ne andò lontano. 34Quando arrivò il tempo di raccogliere i frutti, mandò i suoi servi dai contadini a ritirare il raccolto. 35Ma i contadini presero i servi e uno lo bastonarono, un altro lo uccisero, un altro lo lapidarono. 36Mandò di nuovo altri servi, più numerosi dei primi, ma li trattarono allo stesso modo. 37Da ultimo mandò loro il proprio figlio dicendo: “Avranno rispetto per mio figlio!”. 38Ma i contadini, visto il figlio, dissero tra loro: “Costui è l’erede. Su, uccidiamolo e avremo noi la sua eredità!”. 39Lo presero, lo cacciarono fuori dalla vigna e lo uccisero. 40Quando verrà dunque il padrone della vigna, che cosa farà a quei contadini?». 41Gli risposero: «Quei malvagi, li farà morire miseramente e darà in affitto la vigna ad altri contadini, che gli consegneranno i frutti a suo tempo». 42E Gesù disse loro: «Non avete mai letto nelle Scritture: / “La pietra che i costruttori hanno scartato / è diventata la pietra d’angolo; / questo è stato fatto dal Signore / ed è una meraviglia ai nostri occhi”? 43Perciò io vi dico: a voi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che ne produca i frutti. 44Chi cadrà sopra questa pietra si sfracellerà; e colui sul quale essa cadrà, verrà stritolato». 45Udite queste parabole, i capi dei sacerdoti e i farisei capirono che parlava di loro. 46Cercavano di catturarlo, ma ebbero paura della folla, perché lo considerava un profeta.

Si tratta della parabola chiamata “dei vignaioli ribelli e omicidi”, pronunziata da Gesù nell’area del Tempio di Gerusalemme con spiccato accento polemico contro le autorità giudaiche a lui ostili e che lo condurranno alla morte. La parabola è introdotta da un invito iniziale di Gesù ad ascoltare, che funge da raccordo con la parabola precedente dei due figli invitati dal padre a lavorare nella vigna (21,28-32). Si presenta divisa in due parti: i vv. 33b-39 sviluppano il racconto della violenta reazione dei vignaioli ai tre tentativi del padrone di inviare a essi suoi rappresentanti; vv. 40-44 presentano, mediante il dialogo tra Gesù e gli uditori, l’applicazione della parabola.

I vv. finali: 45-46 riferiscono della reazione ancora una volta ostile dei capi dei sacerdoti e dei farisei. In particolare nella prima parte risulta in primo piano la vigna oggetto della cura del padrone, nel quale si può pensare di vedere la premura di Dio per il suo popolo (vigna), dal quale si attende dei frutti come l’obbedienza e la fedeltà al suo volere (vv. 33-34). Per ottenerli vengono inviati dal padrone i suoi servi, ossia i profeti. Il v. 35 parla della reazione dei contadini che via via bastonano, uccidono e lapidano gli inviati del padrone. Segue un nuovo invio di servi con eguale esito (v. 36) e, come ultimo, l’invio del proprio figlio, vale a dire di Gesù, contro il quale si scatena la trama omicida dei contadini nei quali sono raffigurati i capi del popolo (vv. 37-39).

Nella seconda parte (vv. 40-42), costruita come un dialogo di Gesù con gli ascoltatori, viene annunciato il passaggio del regno di Dio «a un popolo che ne produca i frutti» (v. 43). Si tratta di un popolo composto da quanti, ebrei o pagani, si convertono al Vangelo e riconoscono Gesù come «la pietra d’angolo» (v. 42) su cui si edifica il popolo di Dio.


Commento liturgico-pastorale

In questa domenica viene presentato il profeta Elia, il più grande tra i profeti inviati da Dio al suo popolo, specialmente nell’epoca triste della divisione in due regni e di cui riferiscono il primo e il secondo libro dei Re fino alla tragedia immane della distruzione di Gerusalemme nel 587 a.C. e poi nella stagione dell’esilio a Babilonia e del successivo ritorno nella terra dei Padri. Elia, rapito al termine della sua vita su un carro di fuoco, nel comune sentire della gente al tempo di Gesù sarebbe ritornato all’epoca dell’arrivo del Messia tanto atteso.

Nella Lettura egli appare come l’implacabile avversario di quanti, come il re Acab e la sua perfida moglie Gezabele, ingannano il popolo irretendolo nella perversione dell’idolatria. In pari tempo, Elia non risparmierà le sue forze al fine di riportare a Dio il suo popolo sempre tentato di «saltare da una parte all’altra», ovvero tra la fedeltà al Signore e la degenerazione idolatrica (Lettura: 1Re 18, 21). Egli sa che proprio la caduta nell’idolatria dei popoli vicini, e l’abbandono dei comandi del Signore è ciò che manda in rovina Israele, cosa puntualmente verificatasi prima nell’annientamento del regno del Nord (2 Re 17) e poi in quello già citato di Giuda e Gerusalemme.

Per questo non esita, con la sfida lanciata ai falsi profeti di Baal (vv. 23-24), all’estremo tentativo di condurre il popolo a riconoscere, davanti al prodigio del fuoco del Signore, capace di consumare letteralmente «l’olocausto, la legna, le pietre e la cenere» (v. 38), che «il Signore è Dio! Il Signore è Dio» (v. 39). Nella sua vita e nella sua attività Elia preannunzia l’arrivo nella «vigna di Dio che è la casa di Israele» e, a partire da essa, nell’intera umanità, non più e non soltanto di un “servo” di Dio quali sono stati i profeti e, in misura eminente, lui stesso, ma «il suo proprio figlio» (Vangelo: Matteo 21,37).

La venuta di Gesù nel mondo, che è la “vigna” amata da Dio e nella quale è posto il germoglio autentico del Regno, è il segno più grande del suo amore per l’umanità e della sua volontà di salvarla dalla rovina a cui va inevitabilmente incontro a motivo dell’incredulità che è idolatria! Al pari dei “servi”, al pari di Elia, anche il “figlio” andrà incontro alla durezza dei cuori, all’incapacità di vederlo e di ascoltarlo come portatore della salvezza, indistintamente offerta a ogni uomo. Anzi è lui, in verità, il figlio «cacciato fuori dalla vigna e ucciso» (v. 39).

Eppure il rifiuto violento opposto a Gesù specialmente da parte dei “contadini”, ovvero dei capi del popolo, non impedisce alla grazia di Dio di eleggere e chiamare alla salvezza “un resto” (Epistola: Romani 11,5) tra questo popolo, come primizia di un popolo preso tra tutti i popoli della terra che è costruito sul Signore Gesù quale pietra d’angolo (Matteo 21,42; cfr. Salmo 118,22). Noi che abbiamo avuto la grazia di essere chiamati, per la fede e il battesimo, a far parte di questo popolo fondato sul Signore Gesù e al quale è stato affidato la cura e l’espansione del Regno di Dio nel mondo, facciamo bene attenzione.

L’essere stati chiamati alla salvezza in Cristo Signore è un dono del tutto gratuito di Dio, il quale si attende di «raccogliere i frutti» (Matteo 21,34), che consistono anzitutto in un’adesione ferma e non “saltellante” (cfr. 1Re 18,21) a lui e alla sua Parola e in un’osservanza amorevole di essa. È ciò che chiediamo all’unisono nell’orazione Dopo la Comunione: «O Dio, che ci hai reso partecipi dell’unico Pane e dell’unico Calice, fa’ che portiamo frutti di vita eterna per la salvezza del mondo, poi che ci concedi la gioia di essere una sola cosa in Cristo Signore».

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5 agosto 2012 – X domenica dopo Pentecoste


Nella storia della salvezza il tempio di Gerusalemme edificato dal re Salomone è destinato a prefigurare Gesù Cristo quale dimora di Dio e luogo della sua presenza benefica e salvifica nel mondo.

 

Il Lezionario

 

Vengono proclamati i seguenti testi biblici: Lettura: 1 Re 7,51-8,14; Salmo 28 (29); Epistola: 2Corinzi 6,14-7,1; Vangelo: Matteo 21,12,16. Giovanni 20,19-23 viene letto come Vangelo della Risurrezione nella Messa vespertina del sabato. (Le orazioni e i canti della Messa sono quelli della XVIII domenica del Tempo «per annum» del Messale Ambrosiano).

 

Lettura del primo libro dei Re (7,51-8,14)

 

In quei giorni. 51Fu terminato tutto il lavoro che il re Salomone aveva fatto per il tempio del Signore. Salomone fece portare le offerte consacrate da Davide, suo padre, cioè l’argento, l’oro e gli utensili; le depositò nei tesori del tempio del Signore.

1Salomone allora convocò presso di sé in assemblea a Gerusalemme gli anziani d’Israele, tutti i capitribù, i prìncipi dei casati degli Israeliti, per fare salire l’arca dell’alleanza del Signore dalla Città di Davide, cioè da Sion. 2Si radunarono presso il re Salomone tutti gli Israeliti nel mese di Etanìm, cioè il settimo mese, durante la festa. 3Quando furono giunti tutti gli anziani d’Israele, i sacerdoti sollevarono l’arca 4e fecero salire l’arca del Signore, con la tenda del convegno e con tutti gli oggetti sacri che erano nella tenda; li facevano salire i sacerdoti e i leviti. 5Il re Salomone e tutta la comunità d’Israele, convenuta presso di lui, immolavano davanti all’arca pecore e giovenchi, che non si potevano contare né si potevano calcolare per la quantità. 6I sacerdoti introdussero l’arca dell’alleanza del Signore al suo posto nel sacrario del tempio, nel Santo dei Santi, sotto le ali dei cherubini. 7Difatti i cherubini stendevano le ali sul luogo dell’arca; i cherubini, cioè, proteggevano l’arca e le sue stanghe dall’alto. 8Le stanghe sporgevano e le punte delle stanghe si vedevano dal Santo di fronte al sacrario, ma non si vedevano di fuori. Vi sono ancora oggi. 9Nell’arca non c’era nulla se non le due tavole di pietra, che vi aveva deposto Mosè sull’Oreb, dove il Signore aveva concluso l’alleanza con gli Israeliti quando uscirono dalla terra d’Egitto.
10Appena i sacerdoti furono usciti dal santuario, la nube riempì il tempio del Signore, 11e i sacerdoti non poterono rimanervi per compiere il servizio a causa della nube, perché la gloria del Signore riempiva il tempio del Signore. 12Allora Salomone disse: «Il Signore ha deciso di abitare nella nube oscura. / 13Ho voluto costruirti una casa eccelsa, / un luogo per la tua dimora in eterno».

14Il re si voltò e benedisse tutta l’assemblea d’Israele, mentre tutta l’assemblea d’Israele stava in piedi.

 

Il v. 51 conclude l’accurata descrizione di tutti i lavori fatti eseguire dal re Salomone, figlio di Davide, per l’edificazione del Tempio di Gerusalemme (7,13-51). Segue al capitolo 8 la cronaca dettagliata riguardante il trasporto dell’arca dell’alleanza del Signore (vv. 1-5), la sua collocazione nella parte più sacra del Tempio detta il Santo dei Santi (v.6) e la sua minuziosa descrizione (vv. 1-9). I vv. 10-11 riferiscono del sopravvenire della nube nel Tempio con riferimento a Esodo 33,9-10; 40,34-35 a indicare che Dio prendeva dimora in esso fissando così la sua presenza tra il suo popolo che aveva accompagnato nel deserto (Esodo 13,21-22). I vv. 12-14, infine, riportano le parole iniziali della lunga preghiera di benedizione pronunciata dal Re: 8,12-61.

 

 

Seconda lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi (6,14-7,1)

 

Fratelli, 14Non lasciatevi legare al giogo estraneo dei non credenti. Quale rapporto infatti può esservi fra giustizia e iniquità, o quale comunione fra luce e tenebre? 15Quale intesa fra Cristo e Bèliar, o quale collaborazione fra credente e non credente? 16Quale accordo fra tempio di Dio e idoli? Noi siamo infatti il tempio del Dio vivente, come Dio stesso ha detto:
«Abiterò in mezzo a loro e con loro camminerò / e sarò il loro Dio, / ed essi saranno il mio popolo. / 17Perciò uscite di mezzo a loro / e separatevi, dice il Signore, / non toccate nulla d’impuro. / E io vi accoglierò / 18e sarò per voi un padre / e voi sarete per me figli e figlie, / dice il Signore onnipotente».

1In possesso dunque di queste promesse, carissimi, purifichiamoci da ogni macchia della carne e dello spirito, portando a compimento la santificazione, nel timore di Dio.

 

L’Apostolo mentre illustra ai fedeli di Corinto le peculiarità proprie del ministero degli apostoli del Vangelo, li esorta a evitare pratiche, ambienti e persone legate al paganesimo e che potevano farli ricadere nell’idolatria (6,14-15). L’Apostolo, inoltre, esalta la grande dignità dei credenti i quali sono, in tutta verità, il «tempio del Dio vivente» (v. 16). A sostegno di tale affermazione, Paolo fa seguire una serie di citazioni dell’Antico Testamento che parlano del rapporto straordinario che lega il Popolo a Dio (vv. 16b-18). Si conclude con l’esortazione a portare a termine l’opera della santificazione avviata con l’adesione di fede al Vangelo e l’immersione nell’acqua del battesimo.

 

Lettura del Vangelo secondo Matteo (21,12-16)

 

In quel tempo. Il Signore 12Gesù entrò nel tempio e scacciò tutti quelli che nel tempio vendevano e compravano; rovesciò i tavoli dei cambiamonete e le sedie dei venditori di colombe 13e disse loro: «Sta scritto: / “La mia casa sarà chiamata casa di preghiera”. / Voi invece ne fate un covo di ladri».
14Gli si avvicinarono nel tempio ciechi e storpi, ed egli li guarì. 15Ma i capi dei sacerdoti e gli scribi, vedendo le meraviglie che aveva fatto e i fanciulli che acclamavano nel tempio: «Osanna al figlio di Davide!», si sdegnarono, 16e gli dissero: «Non senti quello che dicono costoro?». Gesù rispose loro: «Sì! Non avete mai letto: / “Dalla bocca di bambini e di lattanti / hai tratto per te una lode”?».

Il brano parla della presenza e dell’attività di Gesù nel Tempio che rappresenta la meta finale del suo ingresso messianico in Gerusalemme (Matteo 21,1-11). Nella prima parte (vv. 12-13) viene descritto il gesto del Signore relativo alla purificazione del Tempio con la cacciata di tutti quelli che vendevano e compravano (v. 12); un gesto che trova la sua spiegazione nella citazione scritturistica del v. 13 (cfr. Isaia 56,7; Geremia 7,11) che allude a quanto era stato annunciato dai profeti in ordine alla purificazione del Tempio da parte  del Messia (cfr. Malachia 3,1-3). La seconda parte, vv. 14-16, riferisce dell’attività di guarigione effettuata da Gesù nel Tempio (v. 14) e della reazione ostile dei capi del popolo a proposito dell’acclamazione dei fanciulli che avevano accompagnato il suo ingresso in Gerusalemme (vv. 15-16). Con la loro acclamazione essi riconoscono in Gesù che guarisce i ciechi e gli storpi il Messia che sarebbe uscito dalla casa di Davide secondo le divine promesse. Anche in questo caso la risposta del Signore è presa dalla Scrittura e precisamente dal Salmo 8,3 nel quale si afferma che, sorprendentemente, sono i neonati e i bambini a riconoscere e a celebrare le meraviglie di Dio.

 

Commento liturgico-pastorale

In questa domenica viene posta in luce una delle realtà tra le più importanti nella storia e nella vita del popolo d’Israele: il Tempio di Gerusalemme costruito e dedicato a Dio dal re Salomone, figlio di Davide.

La sua costruzione, voluta fortemente da Davide e da lui preparata, fu effettivamente intrapresa e condotta a termine da suo figlio Salomone, il più splendido dei re di Israele. Egli infatti lo inaugurò affermando: «Ho voluto costruirti una casa eccelsa, un luogo per la tua dimora in eterno» (Lettura: 1Re 8,13). Si trattava in effetti di una delle meraviglie del mondo antico e rappresentava il cuore e il centro unificante per tutti gli Ebrei. In esso, infatti, sapevano di incontrare Dio stesso che era sceso a prenderne possesso con la «nube che riempiva il tempio del Signore» (v. 10) quella stessa nube che garantiva la presenza liberante e protettiva di Dio al suo popolo in cammino nel deserto verso la terra della promessa (cfr. Esodo 13,21-22; 33,9-10; 40,34-35).

La pagina evangelica, con i gesti e le parole dette dal Signore in occasione del suo ingresso messianico in Gerusalemme e concluso proprio nel Tempio, fa capire che nell’evento in essa narrato viene portato a compimento ciò che era mirabilmente annunziato nella magnifica costruzione di Salomone.

Questa, infatti, preludeva a un nuovo Tempio, non più costruito dall’uomo, vera e definitiva dimora di Dio non solo in mezzo al suo popolo Israele bensì fra tutte le genti. Si tratta di Gesù, l’Unigenito suo Figlio venuto nel mondo a stabilire la comunicazione e la comunione tra Dio e l’uomo cosa questa, che può avvenire soltanto in lui e attraverso di lui e a rendere presente nel mondo Dio stesso come liberatore, protettore e salvatore.

Il testo evangelico, a tale riguardo, sottolinea come, proprio nel Tempio, Gesù si prende cura di ciechi e storpi che a lui si avvicinavano (Vangelo: Matteo 21,14), facendo intendere, in tal modo, il senso della sua missione messianica: purificare, guarire l’uomo da tutto ciò che lo ferisce, lo degrada e lo porta alla rovina, perché risplenda a sua volta come abitazione e tempio di Dio.

Non a caso l’Apostolo Paolo esorta i credenti, che nella fede e nel battesimo sono stati santificati, a non aver più niente a che fare con l’iniquità, con le tenebre, con Beliar, con gli idoli in quanto: «Noi siamo infatti il tempio del Dio vivente» (Epistola: 2Corinzi 6,16b).

Mentre ci accostiamo al Signore Gesù Cristo, presenza viva di Dio Padre, che vuole camminare con noi suo popolo, lasciamo che lui ci purifichi anche energicamente da «ogni macchia della carne e dello spirito» (v. 7,1b) portando così a compimento la nostra santificazione che fa di noi tutti la sua dimora preferita e amata.

     

 

 

 

 

 

 

 

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29 luglio 2012 – IX domenica dopo Pentecoste


Presenta il re Davide come figura profetica che, nel suo abbassarsi davanti a Dio, annunzia ciò che il Signore Gesù ha fatto nella sua Pasqua procurando per tutti salvezza e redenzione.

 

Il Lezionario

 

Riporta i seguenti testi biblici: Lettura: 2Samuele 6,12b-22; Salmo: 131 (132); Epistola: 1Corinzi 1,25-31; Vangelo: Marco 8,34-38. Alla Messa vespertina del sabato viene letto: Luca 24,13b.36-48 come Vangelo della Risurrezione. (Le orazioni e i canti della Messa sono quelli della XVII domenica del Tempo «per annum» del Messale Ambrosiano).

 

Lettura del secondo libro di Samuele (6,12b-22)

 

In quei giorni. 12bDavide andò e fece salire l’arca di Dio dalla casa di Obed-Edom alla Città di Davide, con gioia. 13Quando quelli che portavano l’arca del Signore ebbero fatto sei passi, egli immolò un giovenco e un ariete grasso. 14Davide danzava con tutte le forze davanti al Signore. Davide era cinto di un efod di lino. 15Così Davide e tutta la casa d’Israele facevano salire l’arca del Signore con grida e al suono del corno.

16Quando l’arca del Signore entrò nella Città di Davide, Mical, figlia di Saul, guardando dalla finestra vide il re Davide che saltava e danzava dinanzi al Signore e lo disprezzò in cuor suo. 17Introdussero dunque l’arca del Signore e la collocarono al suo posto, al centro della tenda che Davide aveva piantato per essa; Davide offrì olocausti e sacrifici di comunione davanti al Signore. 18Quando ebbe finito di offrire gli olocausti e i sacrifici di comunione, Davide benedisse il popolo nel nome del Signore degli eserciti 19e distribuì a tutto il popolo, a tutta la moltitudine d’Israele, uomini e donne, una focaccia di pane per ognuno, una porzione di carne arrostita e una schiacciata di uva passa. Poi tutto il popolo se ne andò, ciascuno a casa sua.20Davide tornò per benedire la sua famiglia; gli uscì incontro Mical, figlia di Saul, e gli disse: «Bell’onore si è fatto oggi il re d’Israele scoprendosi davanti agli occhi delle serve dei suoi servi, come si scoprirebbe davvero un uomo da nulla!». 21Davide rispose a Mical: «L’ho fatto dinanzi al Signore, che mi ha scelto invece di tuo padre e di tutta la sua casa per stabilirmi capo sul popolo del Signore, su Israele; ho danzato davanti al Signore. 22Anzi mi abbasserò anche più di così e mi renderò vile ai tuoi occhi, ma presso quelle serve di cui tu parli, proprio presso di loro, io sarò onorato!».

 

Il brano riporta il racconto del trasporto e definitivo collocamento in Gerusalemme, a opera del re Davide, dell’arca dell’alleanza fatta costruire da Mosè e che accompagnò il popolo nell’esodo dall’Egitto e nel suo insediamento nella terra promessa. Essa era considerata come il segno visibile della presenza di Dio tra il suo popolo. Il brano riferisce in particolare i gesti di culto resi da Davide come l’offerta di sacrifici di animali e della sua danza in onore del Signore che attirò il disprezzo di Mical, figlia di Saul, sua moglie (vv. 14-16). Il v. 20 riporta le parole di riprovazione di Mical dell’atteggiamento tenuto in pubblico da Davide e giudicato sconveniente per un re. I vv. 21-22 registrano la reazione di Davide dalla quale traspare il suo grande amore per Dio davanti al quale si dichiara pronto ad abbassarsi ancora di più .

 

Prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi (1,25-31)

 

Fratelli, 25ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini.

26Considerate infatti la vostra chiamata, fratelli: non ci sono fra voi molti sapienti dal punto di vista umano, né molti potenti, né molti nobili. 27Ma quello che è stolto per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i sapienti; quello che è debole per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i forti; 28quello che è ignobile e disprezzato per il mondo, quello che è nulla, Dio lo ha scelto per ridurre al nulla le cose che sono, 29perché nessuno possa vantarsi di fronte a Dio. 30Grazie a lui voi siete in Cristo Gesù, il quale per noi è diventato sapienza per opera di Dio, giustizia, santificazione e redenzione, 31perché, come sta scritto, «chi si vanta, si vanti nel Signore».

 

Nell’avvio della lettera l’Apostolo avanza la differenza tra la sapienza umana e la sapienza divina che si manifesta in Cristo crocifisso. Per la sapienza umana la Croce è stoltezza e debolezza. Al contrario in essa brilla una sapienza più sapiente di quella umana e una debolezza «più forte degli uomini» (v. 25). Il v. 26 fa capire che i primi credenti di Corinto provenivano dalle classi più povere e deboli proprio perché si manifestasse con più evidenza la sapienza e la potenza di Dio che sceglie «quello che è nulla» per ridurre al nulla la presunzione umana (vv. 27-28). I credenti, pertanto, non possano vantarsi di nulla perché il loro essere stati scelti e chiamati alla fede in Cristo e, dunque, alla salvezza, è opera esclusiva di Dio (vv. 29-31).

 

Lettura del Vangelo secondo Marco (8,34-38)

 

In quel tempo. 34Convocata la folla insieme ai suoi discepoli, il Signore Gesù disse loro: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. 35Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà. 36Infatti quale vantaggio c’è che un uomo guadagni il mondo intero e perda la propria vita? 37Che cosa potrebbe dare un uomo in cambio della propria vita? 38Chi si vergognerà di me e delle mie parole davanti a questa generazione adultera e peccatrice, anche il Figlio dell’uomo si vergognerà di lui, quando verrà nella gloria del Padre suo con gli angeli santi».

 

Il testo riporta alcuni insegnamenti rivolti da Gesù alla folla e ai suoi discepoli riguardanti essenzialmente l’esigenza della fedeltà nella sequela. Il v. 34 elenca tre condizioni quali il rinnegare se stesso; il prendere la croce ossia essere pronto ad accettare le conseguenze più dure della fedeltà e, infine, la perseveranza nel seguire e nello stare con lui. Segue al v. 35 l’importante detto relativo al salvare e al perdere la propria vita, che comporta non solo la fine dell’esistenza, ma anche la fine della realtà più autentica dell’uomo. Questa potrà sopravvivere al di là della morte grazie alla fedeltà a Gesù e al suo Vangelo. I vv. 36-37 rappresentano quasi un commento al versetto precedente ponendo al di sopra dell’interesse dell’uomo la salvezza della propria vita! Il brano si conclude al v. 38 con la prospettiva del giudizio finale di riprovazione per coloro che, nella loro esistenza, hanno rifiutato Gesù e si sono vergognati di lui e del suo Vangelo.

 

Commento liturgico-pastorale

 

Un posto privilegiato tra i personaggi dell’Antico Testamento che preparano la venuta e la missione del Signore Gesù va certamente assegnato a Davide, successore di Saul nella guida di Israele quale re, e depositario delle divine promesse riguardanti il suo regno destinato a durare per sempre e la sua discendenza da cui Dio avrebbe suscitato il Messia.

Il passo della Lettura presenta Davide oramai saldo sul suo trono e desideroso di introdurre a Gerusalemme, la capitale del regno, l’Arca dell’alleanza, segno della presenza di Dio in mezzo al suo popolo. Il testo biblico coglie il re tutto intento a onorare Dio esprimendo con la danza la sua fede, il suo amore e tutta la gioia per la certezza della sua presenza e benefica vicinanza.

Egli, perciò, non trova disdicevole né umiliante per la sua funzione regale «danzare con tutte le sue forze davanti al Signore... cinto di un efod di lino» (Lettura: 2Samuele 6,14), cosa questa che gli attira il «disprezzo in cuor suo» di sua moglie (v. 16).

In tutto ciò Davide, pronto ad abbassarsi ancora di più (v. 22) per manifestare la sua fede e obbedienza a Dio, è figura profetica del Signore Gesù che, venendo a noi dal Cielo, si è “abbassato” assumendo la nostra stessa realtà umana fino alla morte obbrobriosa sulla Croce.

In essa, come dichiara l’Apostolo, che concentra e ricapitola in sé tutto ciò che è stolto, debole e ignobile e nulla per il mondo, si manifesta la superiore sapienza e potenza divina capace di «ridurre al nulla le cose che sono» (Epistola, 1Corinzi 1,28) e di recare invece «giustizia, santificazione e redenzione».

Coerentemente a ciò che Gesù ha fatto e poi ha insegnato, egli chiede espressamente a chi intende farsi suo discepolo di seguirlo sulla via dell’abbassamento ossia della disponibilità a «prendere la propria croce» condividendo il destino del Signore fino al rinnegamento di sé e, dunque, ad andare incontro alla morte così come alla scarsa considerazione di quanti, accogliendo la mentalità di questo mondo fondata sul potere, il successo, il dominio e l’orgogliosa autoaffermazione, seguono Mical, moglie di Davide, nell’atteggiamento di repulsione e di vergogna che li chiude, però, in una sterilità improduttiva (2Samuele 6,23).

Accogliendo le parole del Signore che, proprio nella celebrazione della sua passione e morte, ha voluto rendere perenne il suo abbassamento fino a «perdere la sua vita» per noi, ci sentiamo trafiggere intimamente in quanto colpiscono al cuore ciò che abbiamo di più caro: la nostra vita ossia l’amore esclusivo e smodato di sé che ci porta a vantarci, a ergerci, cioè, persino davanti a Dio e a cercare in tutti i modi di crescere nell’affermazione del nostro io, costi quel che costi.

Il rimedio contro questa pretesa e questo vanto che si fonda davvero sul “nulla” ci è dato nell’ascolto umile e sincero della Parola e soprattutto nel ricevere con piena consapevolezza il pane eucaristico che è il Corpo esanime del Signore nel quale è posta la potenza divina che da peccatori ci fa giusti, da estranei a Dio ci fa santi, da prigionieri e schiavi del potere delle tenebre ci fa liberi.

Perseveriamo, pertanto, nella sequela del Signore e nella progressiva spogliazione del nostro io perverso consapevoli che, dall’accettazione del nostro abbassamento, dipende il fiorire in noi della vita senza tramonto. Questa, peraltro, è la concreta testimonianza di vita che ogni fedele deve dare agli uomini del nostro tempo irretiti da una sapienza e da una forza mondane che, perciò, portano e riducono tutto al nulla (cfr. 1Corinzi 1,28) chi a esse si affida. Ci accompagni in questo cammino la preghiera che insieme abbiamo innalzato al Cielo Allo Spezzare del Pane:«Buono è il Signore con chi a lui si affida, si dona al cuore che lo ricerca. Chi si crede ricco è misero e patisce la fame, chi cerca il Signore non manca di nulla».

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22 luglio 2012 – VIII domenica dopo Pentecoste


Esalta la bontà misericordiosa di Dio che, come una volta con Israele, non abbandona il mondo nella deriva del male, ma lo libera e lo riscatta nel suo Figlio Crocifisso.

 

Lezionario

 

Prescrive le seguenti lezioni della Scrittura: Lettura: Giudici 2,6-17; Salmo 105 (106); Epistola: 1Tessalonicesi 2,1-2.4-12; Vangelo: Marco 10,35-45. Alla Messa vespertina del sabato il Vangelo della Risurrezione è preso da Luca 24,13-35. (Le orazioni e i canti della Messa sono quelli della XVI domenica del Tempo «per annum» del Messale Ambrosiano).

 

Lettura del libro dei Giudici (2,6-17)

 

In quei giorni. 6Quando Giosuè ebbe congedato il popolo, gli Israeliti se ne andarono, ciascuno nella sua eredità, a prendere in possesso la terra. 7Il popolo servì il Signore durante tutta la vita di Giosuè e degli anziani che sopravvissero a Giosuè e che avevano visto tutte le grandi opere che il Signore aveva fatto in favore d’Israele. 8Poi Giosuè, figlio di Nun, servo del Signore, morì a centodieci anni 9e fu sepolto nel territorio della sua eredità, a Timnat-Cheres, sulle montagne di Èfraim, a settentrione del monte Gaas. 10Anche tutta quella generazione fu riunita ai suoi padri; dopo di essa ne sorse un’altra, che non aveva conosciuto il Signore, né l’opera che aveva compiuto in favore d’Israele. 11Gli Israeliti fecero ciò che è male agli occhi del Signore e servirono i Baal; 12abbandonarono il Signore, Dio dei loro padri, che li aveva fatti uscire dalla terra d’Egitto, e seguirono altri dèi tra quelli dei popoli circostanti: si prostrarono davanti a loro e provocarono il Signore, 13abbandonarono il Signore e servirono Baal e le Astarti. 14Allora si accese l’ira del Signore contro Israele e li mise in mano a predatori che li depredarono; li vendette ai nemici che stavano loro intorno, ed essi non potevano più tener testa ai nemici. 15In tutte le loro spedizioni la mano del Signore era per il male, contro di loro, come il Signore aveva detto, come il Signore aveva loro giurato: furono ridotti all’estremo. 16Allora il Signore fece sorgere dei giudici, che li salvavano dalle mani di quelli che li depredavano. 17Ma neppure ai loro giudici davano ascolto, anzi si prostituivano ad altri dèi e si prostravano davanti a loro. Abbandonarono ben presto la via seguita dai loro padri, i quali avevano obbedito ai comandi del Signore: essi non fecero così.

 

Il brano rappresenta il prologo del Libro che prende il nome dai dodici personaggi che, dalla morte di Giosuè fino all’istituzione della monarchia, si sono succeduti nella guida del popolo d’Israele oramai stabilito nella terra promessa (v. 6). I vv. 7-10 descrivono la condizione di fedeltà a Dio del popolo fino alla morte di Giosuè, dopo la quale esso si pervertì adottando i culti idolatrici dei popoli confinanti (vv. 11-13). La conseguenza fu il momentaneo venir meno della protezione divina (vv. 14-15) che, ben presto, scelse alcuni tra il popolo (i Giudici) per liberarlo dai nemici (v. 16). Il brano si conclude con l’amara constatazione che il popolo continuò ostinatamente a tradire l’alleanza con Dio osservata dai loro padri (v. 17).

 

Prima lettera di san Paolo apostolo ai Tessalonicesi (2,1-2.4-12)

 

1Voi stessi, fratelli, sapete bene che la nostra venuta in mezzo a voi non è stata inutile. 2Ma dopo aver sofferto e subito oltraggi a Filippi, come sapete, abbiamo trovato nel nostro Dio il coraggio di annunciarvi il vangelo di Dio in mezzo a molte lotte.

4Come Dio ci ha trovato degni di affidarci il Vangelo così noi lo annunciamo, non cercando di piacere agli uomini, ma a Dio, che prova i nostri cuori. 5Mai infatti abbiamo usato parole di adulazione, come sapete, né abbiamo avuto intenzioni di cupidigia: Dio ne è testimone. 6E neppure abbiamo cercato la gloria umana, né da voi né da altri, 7pur potendo far valere la nostra autorità di apostoli di Cristo. Invece siamo stati amorevoli in mezzo a voi, come una madre che ha cura dei propri figli. 8Così, affezionati a voi, avremmo desiderato trasmettervi non solo il vangelo di Dio, ma la nostra stessa vita, perché ci siete diventati cari.

9Voi ricordate infatti, fratelli, il nostro duro lavoro e la nostra fatica: lavorando notte e giorno per non essere di peso ad alcuno di voi, vi abbiamo annunciato il vangelo di Dio. 10Voi siete testimoni, e lo è anche Dio, che il nostro comportamento verso di voi, che credete, è stato santo, giusto e irreprensibile. 11Sapete pure che, come fa un padre verso i propri figli, abbiamo esortato ciascuno di voi, 12vi abbiamo incoraggiato e scongiurato di comportarvi in maniera degna di Dio, che vi chiama al suo regno e alla sua gloria.

 

L’Apostolo descrive l’arrivo a Tessalonica (oggi Salonicco), dopo la tribolata esperienza di Filippi e l’avvio della sua predicazione, pure qui contrastata (vv. 1-2). I vv. 4-6 forniscono un prezioso resoconto della modalità seguita da Paolo nella sua attività missionaria fino quasi a sorprenderci con le dichiarazioni di affetto e di premura materna e paterna nei confronti di quanti accoglievano il Vangelo, non senza sottolineare l’irreprensibilità del suo comportamento che contemplava anche il lavoro duro e faticoso per non essere di peso a nessuno (vv. 7-12).

 

Lettura del Vangelo secondo Marco (10,35-45)

 

In quel tempo. 35Si avvicinarono al Signore Gesù Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedeo, dicendogli: «Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo». 36Egli disse loro: «Che cosa volete che io faccia per voi?». 37Gli risposero: «Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra». 38Gesù disse loro: «Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io bevo, o essere battezzati nel battesimo in cui io sono battezzato?». 39Gli risposero: «Lo possiamo». E Gesù disse loro: «Il calice che io bevo anche voi lo berrete, e nel battesimo in cui io sono battezzato anche voi sarete battezzati. 40Ma sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato».

Gli altri dieci, avendo sentito, cominciarono a indignarsi con Giacomo e Giovanni. 42Allora Gesù li chiamò a sé e disse loro: «Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. 43Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, 44e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti. 45Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti».

 

Il brano fa seguito al terzo annunzio della passione (vv. 32-34), evidentemente non accolto dagli Apostoli se due di essi, i fratelli Giacomo e Giovanni, si premurano di ottenere i posti d’onore accanto a Gesù nel giorno della sua manifestazione come Messia, da essi ritenuto glorioso e potente (vv. 35-37). Nella sua risposta (v. 38) Gesù li riporta a quanto aveva prima detto a proposito della sua passione e morte, considerata come un calice pieno di una bevanda amara (cfr. Salmo 74,9; Isaia 51,17-22); e come un battesimo ovvero come un’immersione nella sofferenza e nei dolori (cfr. Salmo 42,7; 69,2.15; Isaia 53,2).

Ai suoi due incauti interlocutori Gesù predice la loro partecipazione alle sue sofferenze, ma ribadisce che assegnare i posti d’onore spetta a Dio (vv. 39-40). La seconda parte del brano (vv. 41-45), allacciata alla prima dall’osservazione sulla reazione dei Dieci alle richieste dei due fratelli (v. 41), è composta da alcuni detti del Signore circa i ruoli di rango nella sua comunità occupati incredibilmente, per la normale prassi umana, da chi è pronto a essere «schiavo di tutti» (vv. 42-44). Affermazioni che trovano il loro fondamento nel comportamento del Signore che è venuto nel mondo «per servire» e il suo servizio è di andare alla morte al posto e a favore di tutti gli uomini (v. 45).

 

 

Commento liturgico-pastorale

 

Le divine Scritture proclamate documentano e testimoniano la fedeltà di Dio alle sue promesse e alla sua alleanza con Israele, da intendere come annunzio della sua fedeltà amorevole nei confronti dell’intera umanità liberata e riscattata nella Croce del suo Figlio. Una fedeltà, quella di Dio, che non viene meno neppure in presenza di ripetuti clamorosi voltafaccia di Israele che, non tenendo viva tra le nuove generazioni la «memoria» di «tutte le grandi opere che il Signore aveva fatto in favore d’Israele» (Letttura: Giudici 2,7), arriva al punto di adottare i culti idolatrici dei popoli viciniori cosa, questa, che la Scrittura non esita ad assimilare alla prostituzione (v. 17; Salmo 105).

Un simile abbandono non poté che portare sciagure e lutti a Israele, che veniva regolarmente vinto e depredato dai suoi nemici. Eppure il Signore continuò a proteggere e a prendersi con pazienza cura del suo popolo eleggendo dodici uomini chiamati “Giudici”, che si sono succeduti dall’ingresso di Israele nella terra promessa fino alla fondazione della monarchia, per «salvarli dalle mani di quelli che li depredavano» (v. 16).

Nell’esperienza d’Israele che volta le spalle a Dio abbandonando colui che lo aveva reso un popolo con una propria terra e con una legislazione straordinaria per quei tempi, non è difficile vedere l’esperienza dell’intera umanità. Essa, mentre si consegna al servizio degli idoli che si succedono nei secoli: personaggi storici, sistemi ideologici, politici, economici, scientifici, tecnologici, appare restia ad accogliere la predicazione del «vangelo di Dio» (cfr. Epistola: 1 Tessalonicesi 2,2.8.9) che, unico, le può assicurare un’autentica duratura libertà affrancandola dalla triste condizione di violenza, di ingiustizia e di immani tragedie a cui va regolarmente incontro.

Dio, però, come per Israele, non smette di amare l’umanità pervertita dietro l’idolatria delle cose di questo mondo e giunge al punto estremo di inviare come liberatore e salvatore il suo Figlio. Egli, e questo è il dato sorprendente e inedito, compie la missione ricevuta dal Padre non nella potenza e nella gloria così come la intende il mondo, compresi i suoi apostoli (cfr. Vangelo: Marco 10,37), ma accettando di bere lui, e fino in fondo, il calice amarissimo del castigo divino che inevitabilmente si abbatte sul peccato e che, di conseguenza, toccherebbe all’umanità e di immergersi nelle acque oscure dei dolori e delle sofferenze pure ad essa destinate (cfr. v.38). Mentre adoriamo i divini disegni riguardanti la nostra salvezza in Cristo Crocifisso, riconosciamo che essa è tutta racchiusa nel “calice di benedizione” posto sull’altare.

Assumendo il Corpo e il Sangue del Signore e, dunque, il nostro “riscatto” (cfr. v.45), impariamo, con la sua Grazia, a mettere a morte l’inclinazione pestifera presente nei nostri cuori e che ci induce a ricercare la gloria mondana del potere, del dominio, del primeggiare su gli altri. La comunione al Corpo del Signore immolato per noi deve necessariamente condurci a bramare, sul suo esempio, il servizio e l’ultimo posto. È questo il comportamento degno di Dio di cui ci parla l’Apostolo (cfr. 1Tessalonicesi 2,12) e che, specialmente ai nostri giorni, è l’unico capace di far nascere nel cuore degli uomini e delle donne un interesse e un autentico ascolto del Vangelo di Dio che è il suo Figlio Crocifisso.

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15 luglio 2012 - VII Domenica dopo Pentecoste

Propone la figura di Giosuè condottiero vittorioso del popolo d’Israele in cammino verso la terra promessa, come annunzio di Gesù che nella sua Pasqua ha sconfitto il “mondo” e ha introdotto il popolo dei credenti nella vita eterna.

 

Il Lezionario

 

Presenta i seguenti brani biblici: Lettura: Giosuè 10,6-15; Salmo 19 (20); Epistola: Romani 8,31b-39; Vangelo: Giovanni 16,33-17,3. Il Vangelo della Risurrezione da proclamare nella Messa vespertina del sabato è preso da Giovanni 20,11-18. (Le orazioni e i canti della Messa sono quelli della XV domenica del Tempo «per annum» del Messale Ambrosiano).

 

Lettura del libro di Giosuè (10,6-15)

 

In quei giorni. 6Gli uomini di Gàbaon inviarono allora questa richiesta a Giosuè, all’accampamento di Gàlgala: «Da’ una mano ai tuoi servi! Vieni presto da noi a salvarci e aiutaci, perché si sono alleati contro di noi tutti i re degli Amorrei, che abitano le montagne».

7Allora Giosuè salì da Gàlgala con tutto l’esercito e i prodi guerrieri, 8e il Signore gli disse: «Non aver paura di loro, perché li consegno in mano tua: nessuno di loro resisterà davanti a te».
9Giosuè piombò su di loro all’improvviso, avendo marciato tutta la notte da Gàlgala.10Il Signore li disperse davanti a Israele e inflisse loro una grande sconfitta a Gàbaon, li inseguì sulla via della salita di Bet-Oron e li batté fino ad Azekà e a Makkedà. 11Mentre essi fuggivano dinanzi a Israele ed erano alla discesa di Bet-Oron, il Signore lanciò dal cielo su di loro come grosse pietre fino ad Azekà e molti morirono. Morirono per le pietre della grandine più di quanti ne avessero uccisi gli Israeliti con la spada.

12Quando il Signore consegnò gli Amorrei in mano agli Israeliti, Giosuè parlò al Signore e disse alla presenza d’Israele: / «Férmati, sole, su Gàbaon, / luna, sulla valle di Àialon». / 13Si fermò il sole / e la luna rimase immobile / finchè il popolo non si vendicò dei nemici.

Non è forse scritto nel libro del Giusto? Stette fermo il sole nel mezzo del cielo, non corse al tramonto un giorno intero. 14Né prima né poi vi fu giorno come quello, in cui il Signore ascoltò la voce d’un uomo, perché il Signore combatteva per Israele. 15Giosuè e tutto Israele ritornarono verso l’accampamento di Gàlgala.

 

Il brano riguarda una delle battaglie condotte da Giosuè fedelissimo collaboratore e quindi successore di Mosè alla guida del popolo d’Israele per la conquista della terra promessa da Dio. I vv. 6-8 riferiscono dell’ambasciata inviata a Giosuè dalla città di Gabaon, sua alleata, posta sotto assedio dai cinque re degli Amorrei e dell’assicurazione della protezione divina. I vv. 9-13 contengono il resoconto della battaglia vinta da Giosuè con l’assistenza divina e la celebre sua richiesta: «Fermati, sole, su Gabaon, luna, sulla valle ai Aialon» commentata nei vv. 13b-15.

 

Lettera di san Paolo apostolo ai Romani (8,31bb-39)

 

Fratelli, 31bse Dio è per noi, chi sarà contro di noi? 32Egli, che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa insieme a lui? 33Chi muoverà accuse contro coloro che Dio ha scelto? Dio è colui che giustifica! 34Chi condannerà? Cristo Gesù è morto, anzi è risorto, sta alla destra di Dio e intercede per noi!

35Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? 36Come sta scritto: «Per causa tua siamo messi a morte tutto il giorno, siamo considerati come pecore da macello».

37Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori grazie a colui che ci ha amati. 38Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, 39né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore.

 

L’Apostolo intende porre nel cuore dei credenti la ferma convinzione che l’amore di Dio, giunto al punto da “consegnare” il proprio Figlio alla morte di Croce «per tutti noi», è il fondamento incrollabile della loro fede e della loro speranza (vv. 31b-32) Cade, perciò, ogni tentativo di accusa e, quindi, di condanna nei confronti dei credenti, una volta peccatori e, ora, resi giusti proprio dalla morte e dalla risurrezione del Signore Gesù (vv. 33-34). Segue ai vv. 35-39 quello che possiamo a ragione descrivere come un canto d’amore di Dio per noi «che è in Cristo Gesù» e dal quale niente e nessuno potrà mai separarci.

 

Lettura del Vangelo secondo Giovanni (16,33-17,3)

 

In quel tempo. Il Signore Gesù disse ai suoi discepoli: 33«Vi ho detto questo perché abbiate pace in me. Nel mondo avete tribolazioni, ma abbiate coraggio: io ho vinto il mondo!».

1Così parlò Gesù. Poi, alzàti gli occhi al cielo, disse: «Padre, è venuta l’ora: glorifica il Figlio tuo perché il Figlio glorifichi te. 2Tu gli hai dato potere su ogni essere umano, perché egli dia la vita eterna a tutti coloro che gli hai dato. 3Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo».

 

Il brano evangelico riporta il versetto conclusivo dei discorsi di addio pronunciati da Gesù ai suoi discepoli nel cenacolo e i primi tre versetti del colloquio con il Padre riportato nel cap. 17. In particolare nel suo ultimo discorso Gesù vuole incoraggiare i discepoli che dovranno affrontare l’opposizione molto dura da parte del mondo che sappiamo essere posto sotto il potere del maligno e che lui, però, ha sconfitto con la sua morte sulla Croce. Avviando il suo colloquio filiale con il Padre, Gesù, che sta per affrontare l’“ora” per la quale è venuto nel mondo, gli chiede di glorificarlo nella sua piena identità di Figlio innalzato sulla Croce e Risorto, dandogli di esercitare il potere salvifico proprio di Dio e che ha il suo culmine nel dono della “vita eterna”, la partecipazione, cioè, alla vita stessa di Dio.

 

Commento liturgico-pastorale

 

In questa domenica viene presentata la figura di Giosuè, successore e continuatore di Mosè come capo e condottiero del popolo. Il compito di Giosuè è quello di introdurre Israele nella terra promessa da Dio e nella quale scorre latte e miele.

In realtà la Lettura parla di una delle tante battaglie vittoriose intraprese da Giosuè contro le popolazioni residenti nella terra che Israele intende occupare. Il testo sacro tiene a evidenziare l’intervento di Dio stesso che lotta a fianco del suo popolo fino alla vittoria finale per la quale esaudisce addirittura la preghiera di Giosuè di fermare il corso naturale della luce e delle tenebre segnate dal sole e dalla luna (cfr. Giosuè 10,12-13).

In realtà Giosuè annunzia e prefigura Gesù il quale è stato mandato nel mondo per donare agli uomini la “vita eterna” ovvero per introdurli in un rapporto d’amore con Dio, riconosciuto come Padre, e con lo stesso suo Figlio, il Signore Gesù.

Per compiere la sua missione Gesù ha dovuto lottare non tanto contro uomini potenti come erano i cinque re degli Amorrei (v.6), ma contro il “maligno”, ovvero il principe di questo mondo che ha assoggettato al suo potere l’intera umanità. La sua lotta, pertanto, Gesù l’ha combattuta accettando la sua “ora” vale a dire la Croce nella quale egli è stato consegnato per giustificare e liberare dal potere del male quanti credono in lui (cfr. Epistola: Romani 8,32-33).

Su questa consegna nella quale si manifesta l’amore davvero incomprensibile di Dio per noi che è tutto nel suo Figlio, si poggia la nostra fede che non ci fa disperare di fronte alle inevitabili prove e avversità che ci vengono dal “mondo” e che Gesù ci ha preannunziato (cfr. Vangelo: Giovanni 16,33). Proprio ai nostri giorni, infatti, si registra in alcuni Paesi un accanimento immotivato contro la comunità dei credenti fino alla violenza fisica contro i suoi membri. Nel nostro ambiente culturale la guerra contro la Chiesa viene combattuta con le armi fascinose e pervasive della sofisticata propaganda che, specialmente attraverso i media, inocula nell’animo dei credenti quella mentalità materialistica e relativistica che tende a svuotare l’adesione di fede al Signore. In tutto ciò egli continua a guidare la Chiesa, suo popolo, verso la “terra promessa” che è la “vita eterna” donata fin da ora a quanti acquisiscono, mediante la fede, la superiore “conoscenza” dell’unico vero Dio e del Figlio da lui “consegnato” per la nostra salvezza. Una simile “conoscenza” che consiste nella partecipazione alla vita di comunione del Padre e del Figlio, è in verità, la “vita eterna”, la nostra “terra promessa”, il nostro paradiso. Nella nostra partecipazione al Corpo e al Sangue del Signore viene anticipata realmente e ci è dato di sperimentare concretamente la “vita eterna” quale effettiva comunione alla vita divina. Tale esperienza fa crescere in noi la certezza che «né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore» (Romani 8, 38-39).

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8 Luglio 2012 – VI domenica dopo Pentecoste

8 Luglio 2012 – VI domenica dopo Pentecoste

 

Da questa domenica, alle tappe più significative della storia della salvezza, subentrano alcuni tra i personaggi biblici più noti e che hanno scandito il dispiegarsi di quella storia. Lo Spirito Santo, autore delle divine Scritture, ci fa comprendere che essi sono un annunzio profetico del Signore Gesù che quella salvezza porta a effettivo e definitivo compimento nel mistero della sua Pasqua.

 

Il Lezionario

 

Riporta le seguenti lezioni bibliche: Lettura: Esodo 3,1-15; Salmo 67 (68); Epistola: 1Corinzi 2,1-7; Vangelo: Matteo 11,27-30. Alla Messa vespertina del sabato viene proclamato Matteo 28,8-10 quale Vangelo della Risurrezione. Le orazioni e i canti della Messa sono quelli della XIV domenica del Tempo «per annum» del Messale Ambrosiano.

 

Lettura del libro dell’Esodo (3,1-15)

 

In quei giorni. 1Mentre Mosè stava pascolando il gregge di Ietro, suo suocero, sacerdote di Madian, condusse il bestiame oltre il deserto e arrivò al monte di Dio, l’Oreb. 2L’angelo del Signore gli apparve in una fiamma di fuoco dal mezzo di un roveto. Egli guardò ed ecco: il roveto ardeva per il fuoco, ma quel roveto non si consumava. 3Mosè pensò: «Voglio avvicinarmi a osservare questo grande spettacolo: perché il roveto non brucia?». 4Il Signore vide che si era avvicinato per guardare; Dio gridò a lui dal roveto: «Mosè, Mosè!». Rispose: «Eccomi!». 5Riprese: «Non avvicinarti oltre! Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è suolo santo!». 6E disse: «Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe». Mosè allora si coprì il volto, perché aveva paura di guardare verso Dio.

7Il Signore disse: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sovrintendenti: conosco le sue sofferenze. 8Sono sceso per liberarlo dal potere dell’Egitto e per farlo salire da questa terra verso una terra bella e spaziosa, verso una terra dove scorrono latte e miele, verso il luogo dove si trovano il Cananeo, l’Ittita, l’Amorreo, il Perizzita, l’Eveo, il Gebuseo. 9Ecco, il grido degli Israeliti è arrivato fino a me e io stesso ho visto come gli Egiziani li opprimono. 10Perciò va’! Io ti mando dal faraone. Fa’ uscire dall’Egitto il mio popolo, gli Israeliti!». 11Mosè disse a Dio: «Chi sono io per andare dal faraone e far uscire gli Israeliti dall’Egitto?». 12Rispose: «Io sarò con te. Questo sarà per te il segno che io ti ho mandato: quando tu avrai fatto uscire il popolo dall’Egitto, servirete Dio su questo monte».

13Mosè disse a Dio: «Ecco, io vado dagli Israeliti e dico loro: “Il Dio dei vostri padri mi ha mandato a voi”. Mi diranno: “Qual è il suo nome?”. E io che cosa risponderò loro?». 14Dio disse a Mosè: «Io sono colui che sono!». E aggiunse: «Così dirai agli Israeliti: “Io-Sono mi ha mandato a voi”». 15Dio disse ancora a Mosè: «Dirai agli Israeliti: “Il Signore, Dio dei vostri padri, Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe, mi ha mandato a voi”. Questo è il mio nome per sempre; questo è il titolo con cui sarò ricordato di generazione in generazione».

 

Il brano si riferisce alla vocazione di Mosè nel contesto della visione del roveto avvolto dalle fiamme e che, però, non si consuma (v. 2) e dal quale Dio gli si rivela come il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe (vv. 3-6). I vv. 7-10 svelano il volto di Dio attento al grido del suo popolo, la sua intenzione di liberarlo dal «potere d’Egitto» e di donargli una terra servendosi di Mosè. I vv. 11-15, infine, riportano il dialogo tra Mosè investito della missione di liberare il popolo e Dio che ancora una volta si rivela come il Dio dei padri, ai quali egli si è fatto conoscere e con i quali ha stabilito la sua alleanza.

 

Prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi (2,1-7)

 

1Anch’io, fratelli, quando venni tra voi, non mi presentai ad annunciarvi il mistero di Dio con l’eccellenza della parola o della sapienza. 2Io ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e Cristo crocifisso. 3Mi presentai a voi nella debolezza e con molto timore e trepidazione. 4La mia parola e la mia predicazione non si basarono su discorsi persuasivi di sapienza, ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza, 5perché la vostra fede non fosse fondata sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio.

6Tra coloro che sono perfetti parliamo, sì, di sapienza, ma di una sapienza che non è di questo mondo, né dei dominatori di questo mondo, che vengono ridotti al nulla. 7Parliamo invece della sapienza di Dio, che è nel mistero, che è rimasta nascosta e che Dio ha stabilito prima dei secoli per la nostra gloria.

 

Ammonendo i fedeli di Corinto, divisi tra loro e litigiosi, l’Apostolo dichiara che il cuore della sua predicazione è «Gesù Cristo e Cristo Crocifisso» (vv. 1-2). Di conseguenza la sua attività missionaria si distingue per il fatto che poggia unicamente sull’attività di rivelazione dello Spirito e non, dunque, sulla sapienza mondana (vv. 4-5). Al contrario, la sapienza del credente rifiuta quella inutile dei «dominatori di questo mondo» ed è in grado, così, di penetrare nel “mistero”, ossia nei disegni divini e di comprenderne le modalità e i tempi di attuazione (vv. 6-7).

 

Lettura del Vangelo secondo Matteo (11,27-30)

 

In quel tempo. Il Signore Gesù disse: «27Tutto è stato dato a me dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo.
28Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. 29Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, “e troverete ristoro per la vostra vita”. 30Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero».

 

I versetti oggi proclamati fanno parte di un contesto di benedizione rivolta da Gesù al Padre per il dono dei «piccoli», ovvero dei discepoli che lo accolgono e che lo seguono (11,25-30). Essi riportano il secondo momento della benedizione riguardante essenzialmente il rapporto di Gesù con il Padre dal quale tutto gli è stato dato e che solo conosce Gesù che è il Figlio così come egli, come Figlio, possiede una conoscenza esclusiva del Padre e del quale, di conseguenza, è il rivelatore unico (v. 27). Nel terzo momento della preghiera Gesù invita a sé quanti sono stanchi e oppressi da una legislazione opprimente e a prendere il suo giogo, vale a dire i suoi precetti tutti riassunti in quello della carità e che lui rende visibili nella sua mitezza e umiltà di cuore (vv. 28-30).

 

Commento liturgico-pastorale

 

Tra le figure che hanno fortemente segnato il cammino della storia della salvezza, un posto del tutto speciale va assegnato a Mosè, al quale Dio stesso si rivela in modo misterioso dalla fiamma del roveto che arde e non brucia (Lettura: Esodo 3,2) come un Dio particolarmente attento alle sorti del suo popolo di cui ode il grido di dolore a causa dell’oppressione del Faraone d’Egitto.

Un Dio che, essendo legato a Israele da un patto sancito con i suoi Padri, a cominciare da Abramo, ha deciso di intervenire non solo per liberare il suo popolo ma per dargli una terra «bella e spaziosa… dove scorre latte e miele» (v. 8) e, per questo, invia Mosè come suo rappresentante e mediatore.

Illuminati dallo Spirito che ci rivela il mistero nascosto, ovvero il significato profondo di questi avvenimenti, comprendiamo che Mosè, la sua vocazione e la sua missione, non solo annunziano e preparano quella del Signore Gesù, ma trovano la loro spiegazione proprio dal suo invio nel mondo come rivelatore unico ed esclusivo di Dio e dei suoi disegni di salvezza.

A differenza però di Mosè, Gesù non è semplicemente un inviato, un mediatore tra Dio e il suo popolo ma, in quanto Figlio, egli è una sola cosa con il Padre, da lui “conosciuto” nella sua identità più piena, vale a dire quella di Figlio Unico e che, a sua volta, è l’unico a “conoscere” Dio nella sua indicibile paternità e, dunque, è l’unico in grado di “rivelare” chi è Dio! (Vangelo: Matteo, 11,27)

Questo Gesù ha fatto, mentre dimorava in questo mondo, con i suoi insegnamenti e i suoi gesti e, segnatamente, nell’ora della Croce nella quale la sapienza di Dio «che è rimasta nascosta» pienamente si disvela (cfr: Epistola: 1Corinzi 2,7). Nella Croce del Signore si palesa in modo del tutto inatteso e paradossale il mistero di Dio che si prende a cuore il destino dell’intera umanità di cui vede le sofferenze e di cui sente il grido e per la quale prepara «una terra bella e spaziosa» (Esodo 3,8), ovvero il suo Regno. Ha pertanto ragione l’Apostolo a non volere sapere altro «se non Gesù Cristo, e Cristo crocifisso» (1Corinzi 2, 2), epifania dell’amore inesauribile e incandescente di Dio, capace di attirare a sé quanti «sono stanchi e oppressi» (Matteo 11,28) non tanto da un “giogo” disumano emblematicamente raffigurato nell’oppressione dell’Egitto su Israele (cfr. Lettura), quanto dal giogo opprimente della legge del male e del peccato che grava sull’uomo e sulla storia. La preghiera liturgica, perciò, invita a lodare il Signore per l’amore con il quale ci ha amato «oltre ogni nostro pensiero e ogni attesa»: egli, infatti, per amore, ha inviato nel mondo il suo Figlio unigenito «perché nell’umiliazione della morte in croce riconducesse alla gloria l’uomo che dalla sua bontà era stato creato e per la propria superbia si era perduto» (Prefazio) La nostra partecipazione all’Eucaristia, memoriale perenne del sacrificio pasquale del Signore, ci pone a contatto con la fiamma viva del suo amore per noi che libera e salva e ci induce ad assumere il suo giogo dolce e leggero (Matteo 11,30) che è la carità e a portarlo concretamente nella mitezza e nell’umiltà del cuore.

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1° luglio 2012 – V domenica dopo Pentecoste


In questa domenica viene posta in luce un’ulteriore decisiva tappa del progressivo svolgersi dell’opera divina di salvezza rappresentata dall’alleanza con Abramo, annunzio della nuova e definitiva alleanza sigillata nella Pasqua del Signore.

 

Il Lezionario

 

Vengono lette le seguenti lezioni bibliche: Lettura: Genesi 17,1b-16; Salmo 104 (105); Epistola: Romani 4,3-12; Vangelo: Giovanni 12,35-50. Il Vangelo della Risurrezione da proclamare alla Messa vespertina del sabato è preso da Giovanni 20,1-8. (Le orazioni e i canti della Messa sono quelli della XII domenica del Tempo “per annum” del Messale Ambrosiano).

 

Lettura del libro della Genesi (17,1b-16)

 

In quei giorni. 1Il Signore gli apparve e gli disse:

«Io sono Dio l’Onnipotente: / cammina davanti a me e sii integro. / 2Porrò la mia alleanza tra me e te / e ti renderò molto, molto numeroso». / 3Subito Abram si prostrò con il viso a terra e Dio parlò con lui: / 4«Quanto a me, ecco, la mia alleanza è con te: / diventerai padre di una moltitudine di nazioni. / 5Non ti chiamerai più Abram, / ma ti chiamerai Abramo, / perché padre di una moltitudine di nazioni ti renderò.

6E ti renderò molto, molto fecondo; ti farò diventare nazioni e da te usciranno dei re. 7Stabilirò la mia alleanza con te e con la tua discendenza dopo di te, di generazione in generazione, come alleanza perenne, per essere il Dio tuo e della tua discendenza dopo di te. 8La terra dove sei forestiero, tutta la terra di Canaan, la darò in possesso per sempre a te e alla tua discendenza dopo di te; sarò il loro Dio».

9Disse Dio ad Abramo: «Da parte tua devi osservare la mia alleanza, tu e la tua discendenza dopo di te, di generazione in generazione. 10Questa è la mia alleanza che dovete osservare, alleanza tra me e voi e la tua discendenza dopo di te: sia circonciso tra voi ogni maschio. 11Vi lascerete circoncidere la carne del vostro prepuzio e ciò sarà il segno dell’alleanza tra me e voi. 12Quando avrà otto giorni, sarà circonciso tra voi ogni maschio di generazione in generazione, sia quello nato in casa sia quello comprato con denaro da qualunque straniero che non sia della tua stirpe. 13Deve essere circonciso chi è nato in casa e chi viene comprato con denaro; così la mia alleanza sussisterà nella vostra carne come alleanza perenne. 14Il maschio non circonciso, di cui cioè non sarà stata circoncisa la carne del prepuzio, sia eliminato dal suo popolo: ha violato la mia alleanza».
15Dio aggiunse ad Abramo: «Quanto a Sarài tua moglie, non la chiamerai più Sarài, ma Sara. 16Io la benedirò e anche da lei ti darò un figlio; la benedirò e diventerà nazioni, e re di popoli nasceranno da lei».

 

Il testo riporta il secondo racconto dell’alleanza con Abramo introdotto dall’auto-rivelazione di Dio che dichiara la sua intenzione di stabilire l’alleanza con lui (vv. 1b-2), di renderlo «padre di una moltitudine di nazioni» (vv. 3-6), di mantenere con la sua discendenza un’«alleanza perenne» (v. 7) e di dargli in possesso perpetuo una «terra» dove stabilirsi (v. 8). Ad Abramo chiede la fedeltà all’alleanza prescrivendo la circoncisione di ogni maschio come segno visibile e perenne di essa (vv. 9-14). Con l’annunzio della nascita di un suo figlio Dio dimostra concretamente la fedeltà alla parola data ad Abramo e alla promessa di una discendenza numerosa.

 

Lettera di san Paolo apostolo ai Romani (4, 3-12)

 

Fratelli, 3che cosa dice la Scrittura? «Abramo credette a Dio e ciò gli fu accreditato come giustizia». 4A chi lavora, il salario non viene calcolato come dono, ma come debito; 5a chi invece non lavora, ma crede in Colui che giustifica l’empio, la sua fede gli viene accreditata come giustizia. 6Così anche Davide proclama beato l’uomo a cui Dio accredita la giustizia indipendentemente dalle opere:

7«Beati quelli le cui iniquità sono state perdonate / e i peccati sono stati ricoperti; / 8beato l’uomo al quale il Signore non mette in conto il peccato!».

9Ora, questa beatitudine riguarda chi è circonciso o anche chi non è circonciso? Noi diciamo infatti che la fede fu accreditata ad Abramo come giustizia. 10Come dunque gli fu accreditata? Quando era circonciso o quando non lo era? Non dopo la circoncisione, ma prima. 11Infatti egli ricevette il segno della circoncisione come sigillo della giustizia, derivante dalla fede, già ottenuta quando non era ancora circonciso. In tal modo egli divenne padre di tutti i non circoncisi che credono, cosicché anche a loro venisse accreditata la giustizia 12ed egli fosse padre anche dei circoncisi, di quelli che non solo provengono dalla circoncisione ma camminano anche sulle orme della fede del nostro padre Abramo prima della sua circoncisione.

 

Il brano fa parte di un articolato ragionamento che porta l’Apostolo a ribadire che è la fede nella promessa divina a produrre la santificazione dell’uomo e il suo essere giusto davanti a Dio. Per dare forza al suo pensiero si rifà ad Abramo, considerato il prototipo di ogni uomo che viene dichiarato giusto a motivo della sua fede in Dio (vv. 3-7). Per questo Paolo tiene a precisare che Abramo piacque a Dio ben prima della circoncisione, la quale diviene così «sigillo di giustizia» ottenuta però per la fede ( vv 10-11). In tal modo divenne padre di tutti gli uomini: ebrei (i circoncisi) e pagani che si aprono alla fede sul suo esempio (vv. 9-12).

 

Lettura del Vangelo secondo Giovanni (12, 35-50)

 

35In quel tempo. Allora Gesù disse alla folla: «Ancora per poco tempo la luce è tra voi. Camminate mentre avete la luce, perché le tenebre non vi sorprendano; chi cammina nelle tenebre non sa dove va. 36Mentre avete la luce, credete nella luce, per diventare figli della luce». Gesù disse queste cose, poi se ne andò e si nascose loro. 37Sebbene avesse compiuto segni così grandi davanti a loro, non credevano in lui, 38perché si compisse la parola detta dal profeta Isaia:

«Signore, chi ha creduto alla nostra parola? / E la forza del Signore, a chi è stata rivelata?» / 39Per questo non potevano credere, poiché ancora Isaia disse:

 40«Ha reso ciechi i loro occhi / e duro il loro cuore, / perché non vedano con gli occhi / e non comprendano con il cuore / e non si convertano, e io li guarisca».

41Questo disse Isaia perché vide la sua gloria e parlò di lui. 42Tuttavia, anche tra i capi, molti credettero in lui, ma, a causa dei farisei, non lo dichiaravano, per non essere espulsi dalla sinagoga. 43Amavano infatti la gloria degli uomini più che la gloria di Dio. 44Gesù allora esclamò: «Chi crede in me, non crede in me ma in colui che mi ha mandato; 45chi vede me, vede colui che mi ha mandato. 46Io sono venuto nel mondo come luce, perché chiunque crede in me non rimanga nelle tenebre. 47Se qualcuno ascolta le mie parole e non le osserva, io non lo condanno; perché non sono venuto per condannare il mondo, ma per salvare il mondo. 48Chi mi rifiuta e non accoglie le mie parole, ha chi lo condanna: la parola che ho detto lo condannerà nell’ultimo giorno. 49Perché io non ho parlato da me stesso, ma il Padre, che mi ha mandato, mi ha ordinato lui di che cosa parlare e che cosa devo dire. 50E io so che il suo comandamento è vita eterna. Le cose dunque che io dico, le dico così come il Padre le ha dette a me.


Il brano riporta la parte conclusiva dell’ultimo discorso di rivelazione pronunziato da Gesù prima di affrontare l’ora del suo passaggio da questo mondo al Padre. Esso rappresenta l’estremo appello rivolto ai Giudei, irriducibili nell’avversione al Signore, a credere in lui come luce (v. 35-36). Potremmo dire che i vv. 37-43 rappresentano quasi un bilancio della sua attività di rivelatore del Padre, avvalorata da «segni così grandi compiuti davanti a loro», il primo dei quali è quello dell’«acqua mutata in vino alle nozze di Cana» e l’ultimo è quello della risurrezione di Lazzaro. Eppure Gesù deve registrare il perdurare di molti suoi interlocutori nell’ostinata incredulità e lo fa alla luce della Scrittura e in particolare di un passo del profeta Isaia 6,9-10 (cfr. vv. 38-40). Per questo egli compie un estremo tentativo di far aprire i loro occhi e il loro cuore indurito (cfr. v.40), quasi sintetizzando il contenuto della sua opera, che consiste nel portare a compimento la rivelazione di Dio proprio nella sua persona. Egli, infatti, dice le parole che Dio «gli ha ordinato di dire» perché gli uomini, credendo, sfuggano alla condanna e partecipino alla vita eterna ovvero alla comunione filiale con lui ( vv49-50).

 

Commento liturgico-pastorale

 

Nell’alleanza di Dio con Abramo, destinato a diventare «padre di una moltitudine di nazioni» (Lettura: Genesi 17,4-5), si manifesta anzitutto la grandezza di Dio che si rivela come l’Onnipotente. È sua imperscrutabile libera iniziativa la decisione di stabilire un rapporto di alleanza con Abramo. Alleanza che costituisce come una pietra miliare nel cammino della storia della salvezza nella quale si dispiega il mirabile disegno divino.

Di Dio sorprende la grandezza e la magnanimità delle sue promesse ad Abramo, alle quali rimarrà per sempre fedele. In Abramo colpisce la decisa immediata intima adesione a quanto Dio gli comunica, significata esteriormente nel gesto della prostrazione «con il viso a terra» (v. 3) davanti a lui e, quindi, dalla disponibilità a portare, con la circoncisione, il segno esterno e indelebile della consegna di tutto sé stesso alla Parola divina.

Ha dunque ragione l’Apostolo Paolo a sostenere che Abramo fu reso giusto, e dunque gradito agli occhi di Dio, non tanto per il segno della circoncisione che portava sul suo corpo, ma per la fede con la quale ha prontamente aderito alla Parola di Dio ben prima di compiere su di sé la circoncisione (cfr. Epistola: Romani 4,10-11). Con ciò Abramo è davvero il «padre di tutti i credenti», vale a dire di quegli uomini, sia provenienti dall’antico popolo dell’Alleanza (i circoncisi) che dalle “genti” (cfr. vv. 11-12), i quali accolgono e custodiscono con fede ogni parola che esce dalla bocca di Dio e rimangono ad essa fedeli.

Parola che noi riconosciamo nella persona storica di Gesù di Nazaret, il Figlio di Dio che è stato mandato nel mondo per “dire” tutto ciò che il Padre gli ha ordinato di dire per la nostra salvezza (cfr. Vangelo: Giovanni 12,49). Chi lo ascolta, ascolta Dio, chi lo vede, vede Dio e viene chiamato a partecipare alla vita eterna, a condividere cioè la comunione della stessa vita divina.

In questa domenica siamo dunque esortati a seguire l’esempio di Abramo aprendo prontamente e con fede il nostro cuore al Signore Gesù che è la luce che illumina il mondo e offre a ogni uomo la possibilità di salvarsi dalle tenebre dell’incredulità che conducono inevitabilmente alle tenebre eterne.

Non ci accada, perciò, di indurirci nell’incredulità e nella vana presunzione, ma con animo umile accostiamoci alla mensa eucaristica per ricevere i doni che da essa promanano, tra i quali la grazia di perseverare nella fedeltà al volere di Dio rivelato a noi nel suo Unico Figlio. In tal modo la magnanimità del nostro Dio ci darà di diventare, a nostra volta, capaci di generare alla fede quanti incontriamo sul nostro quotidiano cammino. Uomini e donne di questi nostri giorni segnati da indifferenza e da incredulità e agli occhi dei quali occorre far brillare la luce del Vangelo del Signore che deve necessariamente risplendere sul volto della Chiesa e di ogni singolo fedele.

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24 giugno 2012 – IV domenica dopo Pentecoste

È dedicata a illuminare il mistero del male e del peccato presente nel mondo e in ogni uomo dal quale Dio, in Cristo Crocifisso e Risorto, ci dona di essere liberati.

 

Il Lezionario

 

Prevede la proclamazione dei seguenti brani biblici: Lettura: Genesi 18,17-21; 19,1.12-13.15.23-29; Salmo 32 (33); Epistola: 1Corinzi 6,9-12; Vangelo: Matteo 22,1-14. Alla Messa vespertina del sabato viene proclamato Luca 24,9-12 quale Vangelo della Risurrezione. (Le orazioni e i canti per la Messa sono quelli della XII domenica del Tempo «per annum» del Messale Ambrosiano).

 

Lettura del libro della Genesi (18,17-21; 19,1.12-13.15.23-29)

 

In quei giorni. 17Il Signore diceva: «Devo io tenere nascosto ad Abramo quello che sto per fare, 18mentre Abramo dovrà diventare una nazione grande e potente e in lui si diranno benedette tutte le nazioni della terra? 19Infatti io l’ho scelto, perché egli obblighi i suoi figli e la sua famiglia dopo di lui a osservare la via del Signore e ad agire con giustizia e diritto, perché il Signore compia per Abramo quanto gli ha promesso». 20Disse allora il Signore: «Il grido di Sòdoma e Gomorra è troppo grande e il loro peccato è molto grave. 21Voglio scendere a vedere se proprio hanno fatto tutto il male di cui è giunto il grido fino a me; lo voglio sapere!».

1I due angeli arrivarono a Sòdoma sul far della sera, mentre Lot stava seduto alla porta di Sòdoma. Non appena li ebbe visti, Lot si alzò, andò loro incontro e si prostrò con la faccia a terra.

12Quegli uomini dissero allora a Lot: «Chi hai ancora qui? Il genero, i tuoi figli, le tue figlie e quanti hai in città, falli uscire da questo luogo. 13Perché noi stiamo per distruggere questo luogo: il grido innalzato contro di loro davanti al Signore è grande e il Signore ci ha mandato a distruggerli».

15Quando apparve l’alba, gli angeli fecero premura a Lot, dicendo: «Su, prendi tua moglie e le tue due figlie che hai qui, per non essere travolto nel castigo della città».

23Il sole spuntava sulla terra e Lot era arrivato a Soar, 24quand’ecco il Signore fece piovere dal cielo sopra Sòdoma e sopra Gomorra zolfo e fuoco provenienti dal Signore. 25Distrusse queste città e tutta la valle con tutti gli abitanti delle città e la vegetazione del suolo. 26Ora la moglie di Lot guardò indietro e divenne una statua di sale.

27Abramo andò di buon mattino al luogo dove si era fermato alla presenza del Signore; 28contemplò dall’alto Sòdoma e Gomorra e tutta la distesa della valle e vide che un fumo saliva dalla terra, come il fumo di una fornace.

29Così, quando distrusse le città della valle, Dio si ricordò di Abramo e fece sfuggire Lot alla catastrofe, mentre distruggeva le città nelle quali Lot aveva abitato.

 

Il brano riporta l’annuncio e quindi l’effettiva distruzione delle città di Sodoma e Gomorra di cui Dio ha constatato tutto il male in esse compiuto (vv. 20-21). Da quella distruzione scampò soltanto Lot nipote di Abramo insieme con la sua famiglia dopo essere stato avvisato da due angeli messaggeri di Dio (vv. 12-13.15). I vv. 23-26 raccontano la distruzione delle due città e il fatto curioso della moglie di Lot che, nonostante l’esplicita proibizione (v. 17), voltatasi a guardare ciò che avveniva in esse, fu trasformata in una statua di sale (v.26). 

 

Prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi (6,9-12)

 

9Fratelli, non sapete che gli ingiusti non erediteranno il regno di Dio? Non illudetevi: né immorali, né idolatri, né adùlteri, né depravati, né sodomiti, 10né ladri, né avari, né ubriaconi, né calunniatori, né rapinatori erediteranno il regno di Dio. 11E tali eravate alcuni di voi! Ma siete stati lavati, siete stati santificati, siete stati giustificati nel nome del Signore Gesù Cristo e nello Spirito del nostro Dio.

12«Tutto mi è lecito!». Sì, ma non tutto giova. «Tutto mi è lecito!». Sì, ma non mi lascerò dominare da nulla.

 

I versetti oggi proclamati concludono l’insegnamento impartito dall’Apostolo alla turbolenta comunità di Corinto sulla questione dei litigi tra fedeli di quella città inclini ad adire ai tribunali civili e, dunque, pagani. Per questo l’Apostolo li esorta a sopportare qualche ingiustizia e, a tale riguardo, fornisce un elenco di vizi che rende, quanti in essi vi cadono, ingiusti agli occhi di Dio e, perciò, incompatibili con il suo Regno (vv. 9-10). Al v. 11, Paolo afferma che i cristiani sono stati lavati da tali vizi nell’immersione battesimale nel nome del Signore Gesù e, di conseguenza, sono in grado di non farsi dominare da essi.

 

Lettura del Vangelo secondo Matteo (22,1-14)

 

In quel tempo.1Il Signore Gesù riprese a parlare loro con parabole e disse:Il regno dei cieli è simile a un re, che fece una festa di nozze per suo figlio. 3Egli mandò i suoi servi a chiamare gli invitati alle nozze, ma questi non volevano venire. 4Mandò di nuovo altri servi con quest’ordine: “Dite agli invitati: Ecco, ho preparato il mio pranzo; i miei buoi e gli animali ingrassati sono già uccisi e tutto è pronto; venite alle nozze!”. 5Ma quelli non se ne curarono e andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari; 6altri poi presero i suoi servi, li insultarono e li uccisero. 7Allora il re si indignò: mandò le sue truppe, fece uccidere quegli assassini e diede alle fiamme la loro città. 8Poi disse ai suoi servi: “La festa di nozze è pronta, ma gli invitati non erano degni; 9andate ora ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze”. 10Usciti per le strade, quei servi radunarono tutti quelli che trovarono, cattivi e buoni, e la sala delle nozze si riempì di commensali. 11Il re entrò per vedere i commensali e lì scorse un uomo che non indossava l’abito nuziale. 12Gli disse: “Amico, come mai sei entrato qui senza l’abito nuziale?”. Quello ammutolì. 13Allora il re ordinò ai servi: “Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”. 14Perché molti sono chiamati, ma pochi eletti».

 

Come le precedenti parabole dei due figli (21,28-32) e dei vignaioli omicidi (21,33-44), anche questa degli invitati a nozze vuole stigmatizzare il rifiuto da parte dei capi del popolo d’Israele di riconoscere Gesù come l’atteso inviato di Dio. La parabola è diretta perciò ad essi (v. 1) e si presenta divisa in due parti: vv. 2-7 e vv. 8-13, con una sentenza conclusiva (v. 14).

La prima parte ambienta la parabola in una festa di nozze organizzata da un re per suo figlio. Segue un primo invio di servi a chiamare gli invitati che, però, rifiutano di partecipare (v. 3) e un secondo invito integrato da istruzioni del re sul banchetto oramai pronto (v. 4). Alcuni invitati si limitano a ignorare l’invito, altri invece giungono a uccidere gli inviati del re che reagisce facendo uccidere a sua volta quegli assassini (v. 7).

La seconda parte si apre con un terzo invio di servi da parte del re con l’ordine di invitare alle nozze chiunque incontrassero per via al fine di riempire la sala di commensali (v. 8-10). I vv. 11-13 riportano l’inattesa ispezione da parte del re dei commensali e l’espulsione dalla sala di uno di essi senza l’abito nuziale.

 

Commento liturgico-pastorale

 

Questa IV domenica pone in risalto la misteriosa presenza del peccato nel mondo e in ogni uomo. Presenza che, come insegna l’Apostolo, esclude chi lo commette dall’aver parte al regno di Dio (Epistola: 1Corinzi,9-10), ovvero dalla salvezza, anzi su di esso piomba il giudizio di Dio, come è efficacemente detto nel racconto della distruzione di Sodoma e di Gomorra, emblema di perversione e di peccato, sulle quali «fece piovere dal cielo zolfo e fuoco», segni, appunto, dell’irresistibile giudizio divino (Lettura, Genesi 19, 24).

La parabola evangelica, detta dal Signore Gesù in polemica con le autorità del suo tempo, evidenzia come l’incredulità sia il peccato che acceca completamente l’uomo e rende il suo cuore ostinato nel respingere ogni tentativo di Dio di chiamarlo a salvezza.  

È il peccato che ha condotto alla persecuzione dei profeti e che annunzia quella a cui andranno incontro i missionari del Regno di Dio raffigurati nei servi inascoltati, insultati e uccisi della parabola evangelica (Vangelo: Matteo 22,6).

È il peccato che, ieri come oggi, caratterizza quanti si chiudono nella loro presunzione di autosufficienza e rifiutano così di accogliere nell’umile Maestro di Nazaret la manifestazione della volontà di universale salvezza che si concretizza nel ridonare ai  peccatori «la primitiva ricchezza che nella disobbedienza della colpa era andata perduta» (Prefazio), vale a dire la partecipazione alla vita divina che è l’eredità del regno di Dio ( 1Corinzi, 6,10).

È il peccato che può purtroppo continuare a segnare perfino quanti sono «stati lavati, santificati, giustificati nel nome del Signore Gesù Cristo e nello Spirito del nostro Dio» (1Corinzi,6,11) ossia tutti noi che, per la fede e i sacramenti, facciamo parte della Chiesa, popolo santo di Dio.

In essa, nel corso dei tempi, Dio tollera che crescano insieme «cattivi e buoni» (Matteo 22,10), ma la definitiva partecipazione alla festa della salvezza eterna, di cui la celebrazione eucaristica è annuncio e anticipazione, è condizionata dall’“abito nuziale” del quale occorre farsi trovare rivestiti (cfr. Matteo 22,11-12). Per i discepoli del Regno l’abito nuziale è la loro stessa vita vissuta all’insegna dell’obbedienza filiale al volere divino che il Signore Gesù ci ha detto essere tutto racchiuso nel precetto della carità fraterna specialmente verso i piccoli e quanti sono considerati ultimi nella considerazione altrui.

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17 giugno 2012 – III domenica dopo Pentecoste


Pone in rilievo la creazione dell’uomo come momento decisivo nel dispiegarsi della rivelazione divina e, dunque, della storia della nostra salvezza nel Signore Gesù , il Crocifisso Risorto, dal quale viene l’effusione dello Spirito .

 

Il Lezionario

 

Riporta i seguenti brani della Scrittura: Lettura: Genesi 2,18-25; Salmo 8; Epistola: Efesini 5,21-33;  Vangelo: Marco 10,1-12. Il Vangelo della Risurrezione da proclamare nella Messa vespertina del sabato è preso da Marco 5,20-24. Le orazioni e i canti della Messa sono quelli della XI domenica del Tempo “per annum” del Messale Ambrosiano.

 

Lettura del libro della Genesi (2,18-25)

 

In quei giorni. 18Il Signore Dio disse: «Non è bene che l’uomo sia solo: voglio fargli un aiuto che gli corrisponda». 19Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di animali selvatici e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all’uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome. 20Così l’uomo impose nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutti gli animali selvatici, ma per l’uomo non trovò un aiuto che gli corrispondesse. 21Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull’uomo, che si addormentò; gli tolse una delle costole e richiuse la carne al suo posto. 22Il Signore Dio formò con la costola, che aveva tolta all’uomo, una donna e la condusse all’uomo.

23Allora  l’uomo disse:
«Questa volta
è osso dalle mie ossa,
carne dalla mia carne.
La si chiamerà donna,
perché dall’uomo è stata tolta».
24Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e i due saranno un’unica carne.
25Ora tutti e due erano nudi, l’uomo e sua moglie, e non provavano vergogna.

 

Il brano fa parte del secondo racconto della creazione (Genesi 2,4-3,24) e descrive Dio che, avendo notato la solitudine dell’essere umano da lui plasmato (v. 2,18), vuole porvi rimedio con la creazione degli animali che, però, non sono idonei a “corrispondere” alla pari con l’uomo (vv. 18-19). Segue ai vv. 21-22 la descrizione di Dio che, come un chirurgo, opera su Adamo e, da una delle costole, forma una donna nella fiducia che ora, finalmente, la riconosca come quell’aiuto indispensabile in tutto a lui corrispondente e, perciò, in grado di toglierlo dalla solitudine. Cosa che puntualmente viene registrata al v. 23. Il brano si conclude al v. 24 con la destinazione dell’uomo e della donna a essere «un’unica carne» e con la constatazione della loro nudità che non dà origine alla vergogna in quanto essi sono usciti dalle mani di Dio.

 

Lettera di san Paolo apostolo agli Efesini (5,21-33)

 

Fratelli, 21nel timore di Cristo, siate sottomessi gli uni agli altri: 22le mogli lo siano ai loro mariti, come al Signore; 23il marito infatti è capo della moglie, così come Cristo è capo della Chiesa, lui che è salvatore del corpo. 24E come la Chiesa è sottomessa a Cristo, così anche le mogli lo siano ai loro mariti in tutto.25E voi, mariti, amate le vostre mogli, come anche Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, 26per renderla santa, purificandola con il lavacro dell’acqua mediante la parola, 27e per presentare a se stesso la Chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata. 28Così anche i mariti hanno il dovere di amare le mogli come il proprio corpo: chi ama la propria moglie, ama se stesso. 29Nessuno infatti ha mai odiato la propria carne, anzi la nutre e la cura, come anche Cristo fa con la Chiesa, 30poiché siamo membra del suo corpo. 31 Per questo l’uomo lascerà il padre e la madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una sola carne. 32Questo mistero è grande: io lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa! 33Così anche voi: ciascuno da parte sua ami la propria moglie come se stesso, e la moglie sia rispettosa verso il marito.

Il brano rientra nella parte esortativa della lettera (capitoli 4,1-6,24) con la quale l’Apostolo trae le conseguenze pratiche da quanto ha detto nella parte dottrinale (capitoli 1,3-3,21) a proposito della Chiesa, quale Corpo di Cristo, nel quale convergono in unità giudei e pagani. Qui le conseguenze riguardano la vita in famiglia dei credenti e perciò si chiede alle mogli di stare sottomesse ai loro mariti sul modello della Chiesa che è sottomessa a Cristo (vv. 21-24). Ai mariti si chiede nei confronti delle mogli di amarle come «Cristo ha amato la Chiesa» non esitando a dare per essa la sua vita sulla Croce (vv. 25-31). Un linguaggio, questo, duro da accettare per la nostra mentalità. Tutto, comunque, per Paolo si fonda e si regge sul «mistero» del rapporto Cristo/Chiesa che lui dice «grande» (v. 32).

 

Lettura del Vangelo secondo Marco (10,1-12)

 

In quel tempo. 1Partito di là, venne  nella regione della Giudea e al di là del fiume Giordano. La folla accorse di nuovo a lui e di nuovo egli insegnava loro, come era solito fare. 2Alcuni farisei si avvicinarono e, per metterlo alla prova, gli domandavano se è lecito a un marito ripudiare la propria moglie. 3Ma egli rispose loro: «Che cosa vi ha ordinato Mosè?». 4Dissero: «Mosè ha permesso di scrivere un atto di ripudio e di ripudiarla». 5Gesù disse loro: «Per la durezza del vostro cuore egli scrisse per voi questa norma. 6Ma dall’inizio della creazione “li fece maschio e femmina; 7per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie 8e i due diventeranno una carne sola”. Così non sono più due, ma una sola carne. 9Dunque l’uomo non divida quello che Dio ha congiunto». 10A casa, i discepoli lo interrogavano di nuovo su questo argomento. 11E disse loro: «Chi ripudia la propria moglie e ne sposa un’altra, commette adulterio verso di lei; 12e se lei, ripudiato il marito, ne sposa un altro, commette adulterio».

 

Il testo fa parte di una serie di insegnamenti impartiti da Gesù alle folle che accorrevano a lui in viaggio verso Gerusalemme dove l’attende l’ora della Croce (v. 1). L’insegnamento riportato è provocato dalla domanda fattagli, con intento malevolo, da alcuni farisei e riguardante la liceità del divorzio (v. 2). I vv. 3-9 registrano l’iniziale dialogo con i suoi interlocutori e la soluzione magisteriale della questione con il riferimento esplicito alla volontà di Dio creatore dell’uomo «maschio e femmina» destinati da lui a diventare «una carne sola» (cfr. Gen 1,27; 2,24). I vv. 10-12 riportano infine l’insegnamento impartito da Gesù ai soli discepoli a casa, sottolineando la speciale cura nella loro formazione che essi dovranno trasmettere alla sua Casa che è la Chiesa. In esso, con riferimento diretto all’intento di Dio creatore dell’uomo maschio e femmina, è pertanto escluso il divorzio sia da parte del marito sia da parte della donna che, nel mondo pagano, godeva di questo diritto al pari dell’uomo.

 

Commento liturgico-pastorale

 

È importante per noi lasciarci penetrare dalla luce dello Spirito che apre la nostra mente alla comprensione più profonda della progressiva rivelazione che Dio fa di sé e del suo disegno sul mondo e che è testimoniata nelle Scritture. Rivelazione che, come sappiamo e crediamo, ha il suo fondamento e principio e il suo esito pieno nella venuta in questo mondo del Figlio unico di Dio, Crocifisso e Risorto.

L’illuminazione interiore della Spirito ci dà la capacità di risalire dal racconto biblico della creazione dell’uomo, maschio e femmina (Cfr. Lettura), di risalire alla grandezza e alla magnanimità di Dio che si rivela premuroso fino alla tenerezza per le sue creature (Genesi 2,18.21 ss). Ci dà, inoltre, la capacità di penetrare il significato nascosto di quel racconto fino a scorgere in quella creazione e nelle sue caratteristiche, l’anticipazione profetica del “grande mistero”, quello cioè dell’unione di Cristo e della Chiesa e di cui ci parla l’Apostolo (Epistola: Efesini 5,32).

Proprio per questo il Creatore plasma l’uomo e da esso forma la donna che il primo riconosce come quell’«aiuto che gli corrisponde» (Gen 2,18): «Questa volta è osso delle mie ossa...» (Gen  2,23) e, cosa davvero mirabile, i «due» sono destinati ad essere «un’unica carne», a fondersi cioè in unità di spirito e di vita.

È questo volere di Dio impresso fin dall’origine del tempo a far sì che l’unione dell’uomo e della donna abbia la nota essenziale dell’unità: «i due saranno un’unica carne» e, perciò, dell’indissolubilità: essendo impraticabile la divisione dell’unica carne.

A questo volere Gesù si rifà nella sua risposta alla domanda dei farisei fatta «per metterlo alla prova»: «dall’inizio della creazione “li fece maschio e femmina... perché diventino una sola carne», con la conclusione perentoria che egli lascia come norma non solo ai suoi discepoli: «Dunque l’uomo non divida quello che Dio ha congiunto” (Vangelo: Marco 10, 6-9).

Perché non accada che, “per la durezza del nostro cuore” (v. 5) trasgrediamo al comando del Signore, facciamo costante riferimento alla sua unione d’amore per la Chiesa, sua “carne”, sua sposa. Un amore che lo ha spinto a offrirsi per essa fino alla morte, fino alla trafittura del suo fianco da cui, come supremo dono uscì il flusso di sangue e acqua che continua a scorrere per tutti nella realtà sacramentale che ha il suo culmine e la sua fonte nell’Eucaristia.

Impareremo così a non guardare all’unione sponsale dell’uomo e della donna con le sole categorie sociologiche, ma con quelle rivelate dal rapporto Cristo/Chiesa caratterizzato dal dono di sé spinto all’estremo e che fa nascere spontanea l’ubbidienza e la sottomissione amorosa a lui che ha amato e ama per primo.

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10 giugno 2012 – II domenica dopo Pentecoste


Questa domenica, così come quelle che appartengono al tempo liturgico “dopo Pentecoste”, intende rileggere, sotto l’azione dello Spirito e alla luce del mistero pasquale celebrato nell’azione liturgica, le tappe essenziali nello sviluppo della storia della salvezza. In questa domenica l’attenzione è concentrata sull’avvio di questa “storia” con la creazione. 

 

Il Lezionario

 

Presenta le seguenti lezioni bibliche: Lettura: Siracide 16,24-30; Salmo 148; Epistola: Romani 1,16-21; Vangelo: Luca 12,22-31. Il Vangelo della Risurrezione da proclamare nella messa vespertina del sabato è preso da: Luca 24,1-8 (Le orazioni e i canti della Messa sono quelli della X domenica del Tempo “per annum” del Messale Ambrosiano).

 

Lettura del libro del Siracide (16,24-30)

 

24Ascoltami, figlio, e impara la scienza,
e nel tuo cuore tieni conto delle mie parole.
25[Manifesterò con ponderazione la dottrina,

con cura annuncerò la scienza.]

26Quando il Signore da principio creò le sue opere,

dopo averle fatte ne distinse le parti.

27Ordinò per sempre le sue opere

e il loro dominio per le generazioni future.

Non soffrono né fame né stanchezza

e non interrompono il loro lavoro.

28Nessuna di loro urta la sua vicina,

mai disubbidiranno alla sua parola.

29Dopo ciò il Signore guardò alla terra

e la riempì dei suoi beni.

30Ne coprì la superficie con ogni specie di viventi

e questi ad essa faranno ritorno.

 

Il brano propone una prima riflessione sulla creazione che il presente libro, appartenente al numero dei libri sapienziali della Bibbia, intende offrire a quanti vogliono «imparare la sapienza» (v. 24), mettendoli in guardia dai ragionamenti fuorvianti dei peccatori e degli empi (24,5-23). L’autore ispirato sostiene che Dio non solo ha «creato le sue opere», ma le ha create imprimendo ad esse un ordine preciso e determinando le rispettive funzioni (vv. 26-28). I vv. 29-30 parlano della creazione di «ogni specie di viventi» destinati a popolare la terra e a «fare ritorno ad essa» significando, in tal modo, la loro nativa fragilità.

 

Lettera di san Paolo apostolo ai Romani (1,16-21)

 

Fratelli,  16io infatti non mi vergogno del Vangelo, perché è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede, del Giudeo, prima, come del Greco. 17In esso infatti si rivela la giustizia di Dio, da fede a fede, come sta scritto: «Il giusto per fede vivrà».

18Infatti l’ira di Dio si rivela dal cielo contro ogni empietà e ogni ingiustizia di uomini che soffocano la verità nell’ingiustizia, 19poiché ciò che di Dio si può conoscere è loro manifesto; Dio stesso lo ha manifestato a loro. 20Infatti le sue perfezioni invisibili, ossia la sua eterna potenza e divinità, vengono contemplate e comprese dalla creazione del mondo attraverso le opere da lui compiute. Essi dunque non hanno alcun motivo di scusa 21perché, pur avendo conosciuto Dio, non lo hanno glorificato né ringraziato come Dio, ma si sono perduti nei loro vani ragionamenti e la loro mente ottusa si è ottenebrata.

 

Nell’avvio della sua importante lettera l’Apostolo vuole subito mettere in chiaro che tutta l’umanità ha bisogno della salvezza che Dio donerà in Cristo Gesù. Di conseguenza egli predica a tutti, Giudei e Greci, il Vangelo nel quale viene rivelata, in Cristo, la decisione di dare salvezza a tutti coloro che credono (vv. 16-17). Nei vv. 18-21 smaschera la condizione di empietà e di ingiustizia anzitutto dei popoli pagani. Questi, infatti, a motivo dei «loro vani ragionamenti» e della «loro mente ottusa», di fatto, hanno rifiutato di conoscere, glorificare e ringraziare Dio, realmente conoscibile dalla mente umana attraverso «le opere da lui compiute» nella creazione del mondo.

 

Lettura del Vangelo secondo Luca (12,22-31)

 

In quel tempo. Il Signore Gesù 22disse ai suoi discepoli: «Io vi dico: non preoccupatevi per la vita, di quello che mangerete; né per il corpo, di quello che indosserete. 23La vita infatti vale più del cibo e il corpo più del vestito. 24Guardate i corvi: non séminano e non mietono, non hanno dispensa né granaio, eppure Dio li nutre. Quanto più degli uccelli valete voi! 25Chi di voi, per quanto si preoccupi, può allungare anche di poco la propria vita? 26Se non potete fare neppure così poco, perché vi preoccupate per il resto? 27Guardate come crescono i gigli: non faticano e non filano. Eppure io vi dico: neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. 28Se dunque Dio veste così bene l’erba nel campo, che oggi c’è e domani si getta nel forno, quanto più farà per voi, gente di poca fede. 29E voi, non state a domandarvi che cosa mangerete e berrete, e non state in ansia: 30di tutte queste cose vanno in cerca i pagani di questo mondo; ma il Padre vostro sa che ne avete bisogno. 31Cercate piuttosto il suo regno, e queste cose vi saranno date in aggiunta».

 

Il brano è preso da una serie di insegnamenti impartiti da Gesù, in viaggio verso Gerusalemme, ai suoi discepoli. Questi sono esortati a confidare nella provvidenza divina senza farsi travolgere dall’affanno per le cose ritenute indispensabili per l’esistenza terrena (vv. 22-23). A sostegno della sua esortazione Gesù porta alcuni esempi presi dalla natura. Il primo attira l’attenzione sui corvi, ritenuti dalla legge ebraica animali impuri e per i quali Dio stesso provvede il cibo (vv. 24-26). Il secondo esempio è preso dal mondo agricolo ed esalta l’inarrivabile bellezza dei gigli, così belli che «neanche Salomone, con tutta la sua gloria vestiva come uno di loro» (v. 27). L’insegnamento del Signore si conclude con la constatazione che Dio si prende cura di ogni  sua creatura e, a maggior ragione, dell’uomo fatto a sua immagine e somiglianza (vv. 24 e 28) e con l’esortazione a impegnarsi, sopra ogni cosa, nel conseguimento del Regno di Dio che è già presente nel mondo proprio nella persona di Gesù.

 

Commento liturgico-pastorale

 

Le parole del Signore che ascoltiamo nella pagina evangelica sono anzitutto un canto e un’esaltazione della bellezza e della grandezza inesprimibile di Dio che brilla nella creazione a partire dall’umile erba del campo, tra la quale spicca l’incomparabile bellezza del giglio che nemmeno il re Salomone «con tutta la sua gloria» poteva in nessun modo eguagliare (Vangelo: Luca 12,27). Con la bellezza il Signore Gesù esalta la “sapienza organizzativa” e la premura con la quale Dio si prende cura della sua opera: procurando il cibo ai corvi e agli uccelli del cielo! (v. 24).

La stessa sapienza del popolo dell’antica alleanza aveva già guardato all’intera creazione come a opera propria di Dio, con ciò prendendo le distanze dal pensiero dei popoli vicini che attribuivano a essa la consistenza della natura divina.

La stessa sapienza aveva già espresso la più profonda meraviglia per l’ordine impresso da Dio al creato, così che «nessuna di loro urta la sua vicina» (Lettura: Siracide 16,28), in opposizione al pensiero degli empi ancora oggi diffuso che tutto è come dovuto al... caso!

È lecito, pertanto, vedere nella creazione la prima grande rivelazione di Dio, che si presenta come un Dio grande, magnanimo, generoso e soprattutto attento e premuroso verso ogni sua creatura che, a un occhio superficiale, può apparire come insignificante.

Davvero la creazione è una traccia autentica che Dio ha posto e continuamente pone per risalire fino a lui. È ciò che sostiene con forza l’Apostolo Paolo quando afferma che «le perfezioni invisibili (di Dio), ossia la sua eterna potenza e divinità, vengono contemplate e comprese dalla creazione del mondo attraverso le opere da lui compiute» (Epistola: Romani 1,20), dichiarando, perciò, inescusabili davanti a Dio i pagani i quali, «pur avendo conosciuto Dio» attraverso le sue opere, «non lo hanno glorificato né ringraziato come Dio» (v. 21).

Sotto l’azione dello Spirito, riconosciamo, dunque, che il creato è opera sapiente e intelligente di Dio, respingendo una certa visione di esso che tende alla sua divinizzazione riproponendo, in forme subdole e vane, un nostalgico ritorno al panteismo. Riconosciamo, inoltre, nel creato una possibilità certa di risalire a Dio inteso come provvidenza per tutte le sue creature respingendo quella mentalità negativa, pure oggi diffusa, per la quale l’universo, la terra e in essa l’umanità, sono di fatto lasciati a sé stessi e, quindi, alla deriva.

Per tutto questo nel cuore della celebrazione eucaristica rendiamo grazie a Dio che proclamiamo «Signore, Padre Santo, Onnipotente ed Eterno» essenzialmente «per Cristo nostro Signore». Egli, infatti, nella sua Incarnazione, Morte e Risurrezione ha portato a compimento in modo pieno e definitivo la rivelazione di Dio che ha il suo esordio autentico nella creazione. La preghiera liturgica sintetizza il messaggio oggi trasmesso dalle divine Scritture facendoci così rivolgere a Dio: «Tu hai creato il mondo nella varietà dei suoi elementi, hai disposto l’avvicendarsi dei tempi e delle stagioni e all’uomo, fatto a tua immagine, hai affidato le meraviglie dell’universo perché, fedele interprete dei tuoi disegni, esercitasse il dominio su ogni creatura e nelle tue opere glorificasse te, Creatore e Padre, per Cristo nostro Signore» ( Prefazio).

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3 giugno 2012 – Santissima Trinità


Tiene il posto della prima domenica “dopo Pentecoste”, il tempo liturgico che ha preso avvio il lunedì successivo alla solennità e che si concluderà il sabato che precede la I domenica di Avvento.


Il Lezionario

Propone i seguenti brani biblici reperibili nel III Libro del Lezionario ambrosiano, “Mistero della Pentecoste”: Lettura: Esodo 33,18-23; 34,5-7a; Salmo 62 (63); Epistola: Romani 8,1-9b; Vangelo: Giovanni 15,24-27. Nella Messa vespertina del sabato si proclama Marco 16,9-16 come Vangelo della Risurrezione.


Lettura del libro dell’Esodo (33,18-23; 34,5-7a)
 
In quei giorni. Mosè disse al Signore: 18«Mostrami la tua gloria!». 19Rispose: «Farò passare davanti a te tutta la mia bontà e proclamerò il mio nome, Signore, davanti a te. A chi vorrò far grazia farò grazia e di chi vorrò aver misericordia avrò misericordia». 20Soggiunse: «Ma tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo». 21Aggiunse il Signore: «Ecco un luogo vicino a me. Tu starai sopra la rupe: 22quando passerà la mia gloria, io ti porrò nella cavità della rupe e ti coprirò con la mano, finché non sarò passato. 23Poi toglierò la mano e vedrai le mie spalle, ma il mio volto non si può vedere». 5Allora il Signore scese nella nube, si fermò là presso di lui e proclamò il nome del Signore. 6Il Signore passò davanti a lui, proclamando: «Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà, 7che conserva il suo amore per mille generazioni».

Il brano è preso dal contesto particolare della preghiera che Mosè eleva a Dio a favore del popolo dopo il peccato di idolatria commesso con l’adorazione del vitello d’oro (Esodo, 32-33,1ss). Mosè chiede a Dio l’indicibile e l’impossibile: «Mostrami la tua gloria» (v. 18). I vv. 19-23 riferiscono le istruzioni impartite a Mosè perché possa assistere indenne al passaggio della gloria di Dio il cui volto, comunque, «non si può vedere». Segue ai vv. 1-4 del cap. 34 la preparazione da parte di Mosè di due tavole di pietra, uguali a quelle ricevute in precedenza e spezzate sul vitello d’oro e sulle quali Dio si impegna a scrivere di nuovo le “parole”, ossia i dieci comandamenti. I vv. 5-7a descrivono la manifestazione di Dio a Mosè con la proclamazione dei suoi attributi tra i quali primeggiano la misericordia, la fedeltà e il perdono.


Lettera di san Paolo apostolo ai Romani (8,1-9b)

Fratelli, 1non c’è nessuna condanna per quelli che sono in Cristo Gesù. 2Perché la legge dello Spirito, che dà vita in Cristo Gesù, ti ha liberato dalla legge del peccato e della morte. 3Infatti ciò che era impossibile alla Legge, resa impotente a causa della carne, Dio lo ha reso possibile: mandando il proprio Figlio in una carne simile a quella del peccato e a motivo del peccato, egli ha condannato il peccato nella carne, 4perché la giustizia della Legge fosse compiuta in noi, che camminiamo non secondo la carne ma secondo lo Spirito. 5Quelli infatti che vivono secondo la carne, tendono verso ciò che è carnale; quelli invece che vivono secondo lo Spirito, tendono verso ciò che è spirituale. 6Ora, la carne tende alla morte, mentre lo Spirito tende alla vita e alla pace. 7Ciò a cui tende la carne è contrario a Dio, perché non si sottomette alla legge di Dio, e neanche lo potrebbe. 8Quelli che si lasciano dominare dalla carne non possono piacere a Dio. 9Voi però non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi.

Nella prima parte, vv. 1-4, l’Apostolo sviluppa il tema della liberazione del credente dalla schiavitù della Legge, sostituita dalla legge dello Spirito che ci fa vivere non più secondo la carne, ma secondo lo Spirito, grazie alla rimozione del peccato che Gesù ha compiuto nella sua morte sulla Croce. I vv. 5-9a riportano perciò la reiterata esortazione a “vivere secondo lo Spirito” e non “secondo la carne” riconsegnandosi, così, sotto la schiavitù del peccato.


Lettura del Vangelo secondo Giovanni (15,24-27)

In quel tempo. Il Signore Gesù disse ai suoi discepoli: «24Se non avessi compiuto in mezzo a loro opere che nessun altro ha mai compiuto, non avrebbero alcun peccato; ora invece hanno visto e hanno odiato me e il Padre mio. 25Ma questo, perché si compisse la parola che sta scritta nella loro Legge: “Mi hanno odiato senza ragione”. 26Quando verrà il Paràclito, che io vi manderò dal Padre, lo Spirito della verità che procede dal Padre, egli darà testimonianza di me; 27e anche voi date testimonianza, perché siete con me fin dal principio».

Il brano evangelico ci trasporta nel contesto dei discorsi tenuti da Gesù nell’ultima cena con i suoi discepoli. Con questi discorsi Gesù, tra l’altro, li prepara ad affrontare l’incredulità e l’odio al quale essi andranno incontro come è capitato a lui nonostante le opere compiute, vale a dire i chiari segni che egli ha dato del suo essere inviato da Dio, anzi, di essere il Figlio di Dio (vv. 24-25). Con il suo ritorno al Padre sarà lo Spirito a dare testimonianza a Gesù, abilitando i discepoli che sono stati con lui «fin dal principio» a offrire una testimonianza certa e autorevole su Gesù stesso (vv 26-27).


Commento liturgico-pastorale

La presente solennità ci riporta ancora una volta nel cuore della rivelazione di Dio e dell’inaccessibile mistero del suo Volto offerto al mondo dal suo Verbo invisibile venuto tra noi come uomo, come uno di noi, Cristo Gesù, il Crocifisso, Risorto, costituito “Signore”. Egli, una volta ritornato a Dio, dal quale era venuto, ha dato alla comunità dei credenti lo Spirito Santo che gli rende testimonianza (Vangelo: Giovanni 15,26).

Lo Spirito Santo apre infatti l’intelligenza e il cuore dei discepoli alla comprensione del mistero del Figlio, della sua parola di rivelatore unico di Dio e delle sue opere che attestano la sua origine da Dio, da lui chiamato Padre! Di questa intelligenza abbiamo bisogno perché l’uomo che vive «secondo la carne» (Epistola: Romani 8,5), basandosi cioè su di sé, non è in grado di comprendere e, dunque, di aderire con fede a quanto gli viene rivelato di Dio e del suo mistero.

Perciò, illuminati dallo Spirito che ci è stato donato, confessiamo integralmente la nostra fede che così si esprime nel cuore della celebrazione eucaristica: «Tu (Dio Padre) con il tuo unico Figlio e con lo Spirito Santo sei un solo Dio e un solo Signore, non nell’unità di una sola persona, ma nella Trinità di una sola sostanza. Quanto hai rivelato della tua gloria, noi lo crediamo e, con la stessa fede, senza differenze lo affermiamo del tuo unico Figlio e dello Spirito Santo.

Nel proclamare te Dio vero ed eterno noi adoriamo la Trinità delle Persone, l’unità della natura, l’uguaglianza nella maestà divina» (Prefazio). Lo stesso Spirito che ci illumina con l’intelligenza della fede, apre i nostri cuori all’indicibile: il Dio tre volte santo, invisibile, inaccessibile, il cui volto nessuno può vedere (Cfr. Lettura: Esodo 34,5), impenetrabile nel mistero della sua vita divina e che «gli angeli e gli arcangeli non cessano di esaltare», è il Dio «misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà, che conserva il suo amore per mille generazioni» (Esodo 34,6-7).

Il Dio che nel suo unico Figlio e nella grazia del suo Santo Spirito non solo ci libera dal potere del male, ma ci chiama a partecipare alla sua stessa Vita, rendendo continuamente tutto ciò alla nostra portata nella celebrazione della Morte e della Risurrezione del suo Unico Figlio, manifestazione suprema di lui «che è amore». In tutta verità, perciò, diciamo: «Sia lode al Padre che regna nei cieli e al Figlio che è sovrano con lui; cantino gloria allo Spirito Santo tutte le creature beate» (Canto Dopo il Vangelo).

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In queste pagine potete trovare il commento alla liturgia domenicale e festiva secondo il RITO AMBROSIANO, curata da don Alberto Fusi.

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