È detta “della divina clemenza” perché i testi biblici in essa proclamati esaltano la misericordia di Dio verso i peccatori invitati, di conseguenza, a rivolgersi a lui con fiducia. Questa domenica intende preparare la prossima celebrazione della Quaresima, aprendo i cuori dei fedeli che si riconoscono bisognosi del perdono, ad accogliere la grazia della “divina clemenza” nel Signore Gesù.
Il Lezionario
Propone: Lettura: Daniele 9,15-19; Salmo 106 (107); Epistola: 1Timoteo 1,12-17; Vangelo: Marco 2,13-17. (Le orazioni e i canti della Messa sono quelli della IV domenica del Tempo «per annum» del Messale Ambrosiano).
Lettura del profeta Daniele (9,15-19)
In quei giorni. Daniele pregò il Signore dicendo: «15Signore, nostro Dio, che hai fatto uscire il tuo popolo dall’Egitto con mano forte e ti sei fatto un nome qual è oggi, noi abbiamo peccato, abbiamo agito da empi. 16Signore, secondo la tua giustizia, si plachi la tua ira e il tuo sdegno verso Gerusalemme, tua città, tuo monte santo, poiché per i nostri peccati e per l’iniquità dei nostri padri Gerusalemme e il tuo popolo sono oggetto di vituperio presso tutti i nostri vicini.
17Ora ascolta, nostro Dio la preghiera del tuo servo e le sue suppliche e per amor tuo, o Signore, fa’ risplendere il tuo volto sopra il tuo santuario, che è devastato. 18Porgi l’orecchio, mio Dio, e ascolta: apri gli occhi e guarda le nostre distruzioni e la città sulla quale è stato invocato il tuo nome! Noi presentiamo le nostre suppliche davanti a te, confidando non sulla nostra giustizia, ma sulla tua grande misericordia.
19Signore, ascolta! Signore, perdona! Signore, guarda e agisci senza indugio, per amore di te stesso, mio Dio, poiché il tuo nome è stato invocato sulla tua città e sul tuo popolo».
Il brano fa parte della seconda sezione del libro di Daniele contenente alcune visioni (capitoli 7-12) a lui dirette. In particolare i versetti oggi proclamati sono presi dal contesto della visione riguardante le «settanta settimane» (9,1-27) concesse al popolo per «mettere fine all’empietà» (9,24) e fanno parte della supplica rivolta da Daniele a Dio per avere «un responso» (9,4-19). Si tratta di una preghiera che da una parte confessa l’infedeltà del popolo e dall’altra l’assoluta fedeltà di Dio a partire dalla liberazione dall’Egitto (9,15). Su tale fedeltà e sulla sua grande misericordia Daniele poggia la sua supplica per Gerusalemme (v. 16) e specialmente per il Tempio già devastato dai Persiani (587 a.C.) e, quindi, da Antioco IV (167 a.C.).
Prima lettera di san Paolo apostolo a Timoteo (1,12-17)
Carissimo, 12rendo grazie a colui che mi ha reso forte, Cristo Gesù Signore nostro, perché mi ha giudicato degno di fiducia mettendo al suo servizio me, 13che prima ero un bestemmiatore, un persecutore e un violento. Ma mi è stata usata misericordia, perché agivo per ignoranza, lontano dalla fede, 14e così la grazia del Signore nostro ha sovrabbondato insieme alla fede e alla carità che è in Cristo Gesù.
15Questa parola è degna di fede e di essere accolta da tutti: Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori, il primo dei quali sono io. 16Ma appunto per questo ho ottenuto misericordia, perché Cristo Gesù ha voluto in me, per primo, dimostrare tutta quanta la sua magnanimità, e io fossi di esempio a quelli che avrebbero creduto in lui per avere la vita eterna.
17Al Re dei secoli, incorruttibile, invisibile e unico Dio, onore e gloria nei secoli dei secoli. Amen.
Nell’avviare questa sua lettera con la quale incoraggia Timoteo, allora capo della comunità di Efeso, a esercitare il compito di richiamare alla sana dottrina (1,10), Paolo fa memoria della sua vocazione al servizio di Cristo da una precedente condizione di «bestemmiatore, persecutore e violento» (v. 13). Vocazione ascrivibile dunque alla misericordia che gli è stata usata da parte del Signore (vv. 13-14). Dalla sua situazione Paolo passa a una dichiarazione di portata universale circa la venuta nel mondo di Gesù «per salvare i peccatori» (v. 15). Lui, di conseguenza, è divenuto l’esempio per quanti si sarebbero con fede aperti alla misericordia del Signore (v. 16).
Lettura del Vangelo secondo Marco (2,13-17)
In quel tempo. Il Signore Gesù 13uscì di nuovo lungo il mare; tutta la folla veniva a lui ed egli insegnava loro. 14Passando, vide Levi, il figlio di Alfeo, seduto al banco delle imposte, e gli disse: «Seguimi». Ed egli si alzò e lo seguì.
15Mentre stava a tavola in casa di lui, anche molti pubblicani e peccatori erano a tavola con Gesù e i suoi discepoli; erano molti infatti quelli che lo seguivano. 16Allora gli scribi dei farisei, vedendolo mangiare con i peccatori e i pubblicani, dicevano ai suoi discepoli: «Perché mangia e beve insieme ai pubblicani e ai peccatori?». 17Udito questo, Gesù disse loro: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati; io non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori».
La scena è ambientata a Cafarnao, posta sul lago di Genesaret (o Tiberiade), enfaticamente chiamato mare, e coglie Gesù sulla riva del lago, intento ad insegnare alla folla che veniva a lui (v. 13). Segue (v. 14) la chiamata di Levi secondo lo schema caro a Marco: Gesù che posa il suo sguardo su Levi nell’atto di svolgere il suo lavoro, che consiste nel riscuotere le tasse; la chiamata alla sequela immediatamente assecondata. La scena dal v. 15 si sposta presumibilmente nella casa di Levi dove Gesù prende parte, con i suoi discepoli, a un banchetto al quale partecipano molti pubblicani e peccatori, alla cui schiera, di fatto, a motivo del suo lavoro disprezzato dalla gente, Levi apparteneva. Sedere a mensa con essi comportava diventare legalmente impuri. Di qui l’osservazione fatta da da scribi e farisei ai discepoli sul comportamento di Gesù (v. 16). Ad essa Gesù risponde dapprima con un proverbio (v.17a) e, soprattutto, con una parola di rivelazione circa la sua missione (v. 17b).
Commento liturgico-pastorale
Questa domenica, così come la prossima, fa da ponte tra il tempo liturgico legato al mistero dell’Incarnazione, della Natività e dell’Epifania del Signore e quello incentrato sul mistero pasquale della redenzione e della salvezza.
La solenne dichiarazione del Signore, conclusiva della pagina evangelica, «io non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori» (Vangelo: Marco 2,17), ampliata da quella dell’Apostolo: «Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori» (Epistola: 1Timoteo 1,15), sintetizza ciò che è stato proclamato e celebrato nel tempo liturgico di Natale e rappresenta l’estrema “manifestazione” delle finalità connesse alla venuta nel mondo del Figlio di Dio.
Il prossimo tempo liturgico, incentrato sul mistero pasquale di Cristo Crocifisso e Risorto, mostrerà come nella sua morte e risurrezione la citata proclamazione programmatica si è adempiuta, dilatando fino alla fine dei tempi ed estendendo all’umanità la “divina clemenza”.
Nella sua predicazione evangelica Gesù ha compiuto gesti significativi ed espressivi dell’essenza della sua missione. Tra di essi spicca la chiamata di Levi il pubblicano seduto al banco delle imposte (Marco 2,14) e, dunque, per la mentalità comune del tempo, un peccatore! Così è del suo mettersi a tavola con «molti pubblicani e peccatori» (v. 15); un gesto che significa la bontà del cuore del Signore, la sola capace, con il perdono, di rimettere in vita chi, a causa del peccato, di fatto vive nell’inerzia della morte.
È il caso di Levi che, chiamato dal Signore dal suo banco, al quale era tenuto inchiodato in una esistenza chiusa in sé stessa e, dunque, sterile, «si alzò e lo seguì» (v. 14) divenendo uno dei suoi discepoli, di coloro cioè che Gesù porrà come testimoni della sua morte e risurrezione e fondamento della comunità che si radunerà attorno a lui e al suo Vangelo.
Ed è il caso eclatante di Paolo che, mentre si confessa «un bestemmiatore, un persecutore e un violento» e il «primo dei peccatori» (1Timoteo1,13), riconosce di aver «ottenuto misericordia» e che Cristo Gesù ha voluto proprio in lui, «per primo, dimostrare tutta quanta la sua magnanimità» facendone un «esempio a quelli che avrebbero creduto in lui per avere la vita eterna» (v. 16).
Paolo, l’apostolo che più di tutti ha faticato per il Vangelo e ha fatto del Signore Gesù la sua vera vita, è l’esempio tra i più evidenti di ciò che la divina clemenza personificata in Cristo vuole compiere in coloro che agli occhi degli uomini appaiono come peccatori e, dunque, esclusi dalla salvezza, perduti! Con il suo atteggiamento verso di essi Gesù porta a compimento la rivelazione di Dio, il Padre che lo ha mandato nel mondo a «guarire i malati e a chiamare i peccatori» (cfr. Marco 2,17). Le pagine bibliche dell’Antica Alleanza, infatti, non fanno che esaltare la bontà di Dio e la sua longanimità non solo verso il suo popolo, ma verso tutti gli uomini. Il testo profetico, a tale riguardo, mentre confessa che la triste condizione di Israele, così come la distruzione di Gerusalemme e del suo Tempio, è dovuta al peccato e al comportamento empio del popolo (cfr. Lettura: Daniele 9,15-16), esalta la disponibilità di Dio ad ascoltare la supplica del suo popolo e soprattutto la sua grande misericordia (v. 18).
Della “divina clemenza”, cantata nel brani della Scrittura oggi proclamati, noi tutti facciamo continua concreta esperienza nella celebrazione dell’Eucaristia, offerta «per la remissione dei peccati» e, perciò, di tale clemenza siamo la testimonianza vivente. Siamo infatti noi i malati di cui si prende cura il medico celeste (cfr. Marco 2,17a). Siamo noi i peccatori che il Signore è venuto dal cielo a chiamare e a far uscire dalla condizione mortifera in cui ci tiene inchiodati il peccato così come teneva inchiodato Levi al banco delle imposte (v.14) e a metterci al suo esclusivo servizio come avvenne per Paolo il violento bestemmiatore (cfr.1Timoteo 1,12-13). Non vergognamoci, perciò, di far parte del numero dei malati e dei peccatori per i quali è venuta dal cielo la clemenza di Dio e guardiamoci di unirci agli scribi dei farisei nel censurare l’atteggiamento di Gesù verso i pubblicani e i peccatori (cfr. Marco 2,16). Potremo allora sperimentare l’amorevole premura del Signore Gesù nel quale risiede la sovrabbondante grazia divina che ci raggiunge nei sacramenti pasquali e che ci fa esclamare in tutta verità: «Ricorderò l’amore di Dio, dandogli lode per tutti suoi doni, per i beni senza numero che ci ha elargito, grazie alla sua misericordia che non ha fine» (Canto di Ingresso).
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