di Don Alberto Fusi

In queste pagine potete trovare il commento alla liturgia domenicale e festiva secondo il RITO AMBROSIANO, curata da don Alberto Fusi.

 

1 Maggio 2011 – Domenica “In Albis Depositis”


1. La II domenica di Pasqua    

E' tradizionalmente chiamata “In Albis” perché i battezzati nella precedente Veglia pasquale si presentavano da questo giorno avendo «oramai tolto le vesti battesimali». Il Lezionario propone ogni anno: Lettura: Atti degli Apostoli 4,8-24a; Salmo: 117; Epistola: Colossesi 2,8-15; Vangelo: Giovanni 20,19-31. Alla Messa vigiliare del sabato viene proclamato: Giovanni 7,37-39a quale Vangelo della risurrezione.     


2. Vangelo secondo Giovanni 20,19-31    

In quel tempo. 19La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». 20Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. 21Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». 22Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. 23A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati».     24Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Didimo, non era con loro quando venne Gesù. 25Gli dicevano gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!». Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo».     26Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: «Pace a voi!». 27Poi disse a Tommaso: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!». 28Gli rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!». 29Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto: beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!».     30Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro. 31Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome.    


3. Commento liturgico-pastorale    

Il testo evangelico che ogni anno viene proclamato nella seconda domenica di Pasqua è di decisiva importanza per la comprensione dell’esistenza stessa della Chiesa e della sua missione. è chiaramente diviso in due parti. Nella prima (vv. 19-23) si riferisce l’apparizione del Signore risorto la sera di Pasqua. La seconda (vv. 24-29) riferisce del successivo incontro del Signore “otto giorni dopo” con la presenza dell’apostolo Tommaso. I vv. 30-31, infine, riportano alcune considerazioni finali dell’evangelista.

Il brano si apre al v. 19 con l’importante precisazione riguardante il raduno dei “discepoli” in un unico luogo, facendo capire che ciò che viene narrato riguarda la comunità ecclesiale di allora, come di oggi e di sempre. Al centro dell’attenzione c’è il Signore Gesù che si presenta ai suoi riuniti a porte chiuse “per timore dei Giudei”. Viene così evidenziato che non vi sono ostacoli e barriere che possano impedire al Signore di “stare in mezzo” alla sua Chiesa e di offrire il dono pasquale della “pace” dovuta proprio alla sua presenza. Con il Signore risorto, perciò, non c’è più timore ma “pace”.

Il Signore quindi si fa riconoscere ai suoi (v. 20), mostrando “loro le mani e il fianco”, con i segni della trafittura dei chiodi e della lancia del soldato romano, facendo sgorgare la “gioia” nei loro cuori riconoscendo in lui il Maestro che videro pendere dalla croce.

La prima parte si chiude con la consegna ai discepoli della specifica missione che dovranno compiere e che la Chiesa dovrà continuare lungo i tempi. A tale riguardo il Signore, “mandato” dal Padre, a sua volta “manda” i suoi discepoli, e in essi la Chiesa, a compiere la sua stessa missione, la cui efficacia è garantita dal dono dello Spirito indicato nel gesto molto espressivo del “soffio” (v:22).

La missione consiste essenzialmente nell’estendere a ogni uomo l’Alleanza ovvero la comunione di vita e d’amore con Dio, frutto della Pasqua del Signore e che prevede la previa remissione e il perdono dei peccati. In tal modo la Chiesa può portare nel mondo la “vita” quella che nel Signore Gesù ha trionfato sul peccato e dunque sulla morte, nella cui oscurità giace il mondo e, in esso, l’intera umanità.

La seconda parte del racconto, strettamente legata alla prima, prende avvio dalla contestazione da parte di Tommaso della “testimonianza” che gli altri discepoli sono in grado di dare in tutta verità: «Abbiamo visto il Signore!» (v.25).

Tommaso che: «non era con loro quando venne Gesù» (v. 24) rappresenta tutti coloro che, nei secoli, dovranno fidarsi e affidarsi con fede alla testimonianza che la comunità dei credenti offre su Gesù, il vivente, senza esigere perciò di “vedere” e di “mettere” personalmente la mano sulle ferite del Signore. Tommaso supererà questa pretesa “otto giorni dopo”, allorché il Signore tornerà tra i suoi augurando e recando il dono della “pace” e gli chiederà di mettere il suo dito e la sua mano nelle sue ferite esortandolo con le parole che, tramite lui, sono rivolte  a ogni uomo: «non essere più incredulo, ma credente!».(v. 27).

La reazione di Tommaso è quella di chi oramai è diventato “credente” in pienezza: non lo sfiora più il pensiero di mettere dito e mano sulle ferite del Signore, ma si rivolge a lui con una proclamazione di fede assoluta: «Mio Signore e mio Dio!», riconoscendo l’unità di Gesù che è il Risorto, con Dio!

Le parole conclusive del Signore (v. 29) sono anch’esse rivolte, tramite Tommaso, ai futuri credenti e, dunque, anche  a noi che oggi le ascoltiamo nella proclamazione liturgica dell’Evangelo. Fin da ora siamo da Gesù stesso proclamati “beati” perché crediamo in lui senza poterlo vedere e toccare. Questo lo hanno potuto fare i suoi apostoli e d’ora in poi la fede dei credenti dovrà poggiarsi sulla loro testimonianza.

Nella celebrazione eucaristica, scandita dal solenne ritmo domenicale istituito da Gesù, il vivente, è possibile per noi vivere l’esperienza degli apostoli, crescere nel rapporto con il Signore, nel quale «abita corporalmente tutta la pienezza della divinità» (Epistola: Colossesi 2,9) e accogliere con il “soffio” dello Spirito il mandato che ci abilita alla missione evangelica nel mondo da ricostruire nell’unità di vita e di amore con Dio.

La Lettura mostra come questa “missione” è stata da subito attuata dagli stessi apostoli, i quali annunziano con estrema chiarezza che: «In nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti, sotto il cielo, altro nome dato agli uomini, nel quale è stabilito che noi siamo salvati»  (Atti degli Apostoli 4,12). L’esperienza che essi hanno fatto del Risorto, la missione ricevuta nel “soffio” del Signore, nella potenza cioè dello Spirito Santo è insopprimibile nei loro cuori e li spinge ad annunziare a tutti, anche a costo della vita, la reale unica possibilità di salvezza che è in Cristo Signore: «Noi non possiamo tacere quello che abbiamo visto e ascoltato» (Atti 4,20).

Anche noi, di domenica in domenica, impariamo a «camminare nella nuova realtà dello Spirito” nella quale siamo stati stabiliti dai sacramenti pasquali. In tal modo “ ci è dato di superare il rischio orrendo della morte eterna, ed è serbata ai credenti la lieta speranza della vita senza fine» (Prefazio). Non è perciò possibile “tacere” ciò che “vediamo” e “ascoltiamo” nella celebrazione dei divini Misteri che ci pongono a contatto con lui, il vivente, dono di “pace” e di “gioia” per ogni  uomo.

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24 aprile 2011 – Domenica di Pasqua


1. La Domenica “Nella Risurrezione del Signore”    

Prende avvio con la celebrazione eucaristica culmine della grande Veglia pasquale, cuore e centro dell'intero anno liturgico, nel quale la Chiesa rivive ogni anno il mistero della salvezza portato a compimento proprio nella morte e risurrezione del Signore. La tradizione propria della nostra Chiesa ambrosiana prevede, per questa domenica, “la festa che dà origine a tutte le feste” (Prefazio) due distinte celebrazioni: la “Messa per i battezzati” da celebrare qualora vi fossero dei battesimi e la “Messa nel giorno” sulla quale ora ci soffermiamo. Per questa celebrazione sono previste le seguenti lezioni bibliche: Lettura: Atti degli Apostoli 1,1-8a; Salmo 117; Epistola 1Corinzi 15,3-10a; Vangelo: Giovanni 20,11-18.    


2. Vangelo secondo Giovanni 20,11-18    

In quel tempo. 11Maria di Magdala stava all’esterno, vicino al sepolcro, e piangeva. Mentre piangeva, si chinò verso il sepolcro 12e vide due angeli in bianche vesti, seduti l’uno dalla parte del capo e l’altro dei piedi, dove era stato posto il corpo di Gesù. 13Ed essi le dissero: «Donna, perché piangi?». Rispose loro: «Hanno portato via il mio Signore e non so dove l’hanno posto». 14Detto questo, si voltò indietro e vide Gesù, in piedi; ma non sapeva che fosse Gesù. 15Le disse Gesù: «Donna, perché piangi? Chi cerchi?». Ella, pensando che fosse il custode del giardino, gli disse: «Signore, se l’hai portato via tu, dimmi dove l’hai posto e io andrò a prenderlo». 16Gesù le disse: «Maria!». Ella si voltò e gli disse in ebraico: «Rabbunì!» - che significa: «Maestro!». 17Gesù le disse: «Non mi trattenere, perché non sono ancora salito al Padre; ma va’  dai miei fratelli e dì loro: “Salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro”». 18Maria di Magdala andò ad annunciare ai discepoli: «Ho visto il Signore!» e ciò che le aveva detto.    


3. Commento liturgico-pastorale    

Il brano odierno segue immediatamente il racconto della “corsa” fatta al sepolcro da Pietro e Giovanni ai quali proprio Maria di Magdala recatasi di buon mattino al sepolcro aveva annunziato: «Hanno portato via il Signore dalla tomba e non sappiamo dove l’hanno posto!» (20,1-10).

Sono due racconti che intendono proporre, a partire dall’esperienza degli Apostoli e di Maria, una catechesi idonea a suscitare e ad accrescere la fede in Gesù quale unico Signore! Quello di Maria al sepolcro presenta anzitutto il suo dialogo con “due angeli in bianche vesti” (vv. 12-13) e quello con Gesù che Maria però non riconosce (vv. 14-15) fino a che il Signore stesso la chiama per nome e si fa riconoscere (v. 16).

Sorprende il fatto che Maria, totalmente sopraffatta dal dolore per la morte prima e ora per la scomparsa del corpo di Gesù, non avverta nei due suoi interlocutori, che lei tratta come persone qualsiasi, la presenza di creature angeliche. Le loro vesti bianche e la loro posizione: «seduti l’uno dalla parte del capo e l’altro dei piedi, dove era stato posto il corpo di Gesù» (v. 12) segnalano infatti la loro origine celeste che Maria, però, non riesce a cogliere perché pur amando più di sé stessa il Signore questi, alla fine, è oramai solo un corpo esanime. Tutto ciò rappresenta in questa donna una fede ancora non piena destinata a diventare tale solo con l’incontro con il Risorto.

L'iniziale equivoco di Maria che scambia Gesù con il “custode del giardino” (v. 15) sta a dire che il Risorto è certamente il Maestro che ella ha conosciuto e amato, ma ora egli non è più di questo mondo e, pertanto, c’è bisogno che lui si manifesti per poterlo “riconoscere” nella sua nuova condizione di vita. In una parola Gesù non va più cercato, come fa Maria, tra i “morti” ma nella sua nuova identità di Figlio “glorificato”.

Per questo Gesù, chiamando Maria con il suo nome, la costringe ad andare oltre la sua morte e a riconoscerlo finalmente come “vivente”. Ciò è reso evidente nel grido della donna: “Rabbuni!” il titolo cioè con il quale si è sempre rivolta al Signore. è il grido del riconoscimento di fede oramai piena e definitiva: il Maestro che lei ha visto pendere dalla croce e deporre nel sepolcro è ora “vivente”!

Le parole consegnate a Maria per i discepoli, che il Signore “glorificato” chiama “miei fratelli”, costituiscono l’apice dell’intero racconto: «Salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro» (v.17). Con questo solenne messaggio afferma che la sua “salita” al Padre, vale a dire la sua “esaltazione” e “glorificazione” avviata con la “salita” sulla croce sta per diventare definitiva anche nelle conseguenze riguardanti i discepoli e tutti coloro che, lungo i secoli, crederanno in lui.

Questi, infatti, d’ora in poi potranno con lui chiamare Dio “Padre”, assumendo così una vera relazione filiale ed entrando in quel rapporto di amore che unisce il Padre e il Figlio dall’eternità.

Trova così risposta la domanda formulata dagli Apostoli al Risorto: «Signore, è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno per Israele?» (Lettura: Atti degli Apostoli 1,6). Nella sua “salita” al Padre Gesù non ha ricostituito il “regno” per una nazione soltanto, ma in lui tutte le genti possono rivolgersi a Dio come al loro Dio, il Dio che assicura a essi la sua Alleanza che non verrà mai meno perché inaugurata ed «esaltata nel Sangue del Signore» (Prefazio).

L’annunzio che Maria deve recare ai discepoli divenuti “fratelli” è l’annunzio che la Chiesa, comunità dei credenti deve recare a tutti gli uomini: l’“esaltazione” del Signore nella sua Pasqua di morte e di risurrezione li ha tratti “dall’abisso del peccato” e li ha fatti entrare “nel regno dei cieli” (Prefazio). L’apostolo Paolo lo ha così sinteticamente trasmesso: «A voi infatti ho trasmesso, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto, cioè che Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture e che fu sepolto e che è risorto il terzo giorno secondo le Scritture» (Epistola: 1Corinzi 15,3-4).

La celebrazione eucaristica ha trasmesso e continua a trasmettere non solo l’annunzio evangelico del Vivente proclamato nelle Divine Scritture ma a rendere continuamente viva e attuale la sua presenza che dona ai credenti un’esperienza sempre più profonda dell’Alleanza con Dio, ovvero di crescere in quella comunione d’amore filiale con lui fino alla pienezza. A tutti, perciò, è rivolto l’invito: «O popoli, venite con timore e fiducia a celebrare l’immortale e santissimo mistero. Le mani siano pure e avremo parte al dono che ci trasforma il cuore. Cristo, agnello di Dio, si è offerto al Padre, vittima senza macchia. Lui solo adoriamo, a lui diciamo gloria, cantando con gli angeli: Alleluia» (Alla Comunione).

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17 aprile 2011 – Domenica delle Palme


1. La domenica che inaugura la Settimana autentica    

La nostra tradizione liturgica ambrosiana chiama “autentica” la Settimana santa nella quale viene come dispiegato l’evento pasquale della morte, sepoltura e risurrezione del Signore nel quale consiste la salvezza del mondo e che ci è partecipata nei misteri o sacramenti pasquali con al centro l’Eucaristia. L’antica tradizione ambrosiana prevede per questa domenica due distinte celebrazioni: una dove si benedicono le palme e si fa la processione e una chiamata “Messa nel giorno”.    


2. Messa per la benedizione delle palme    

Con il rito della benedizione e successiva processione delle palme si intende far memoria dell’ingresso solenne di Gesù in Gerusalemme per dare inizio alla sua Pasqua.     

* Il Lezionario    
Prevede, ogni anno, le seguenti lezioni bibliche:    
Lettura: Zaccaria 9,9-10. In essa il profeta, nell’annunziare l’ingresso in Gerusalemme di un re umile e pacifico che «annuncerà la pace alle nazioni», prefigura, in verità, l’ingresso messianico di Gesù in Gerusalemme per inaugurare il suo regno universale di “pace”.    
Il Salmo responsoriale riporta alcune strofe del Samol 47 nel quale si canta la grandezza di Gerusalemme dove Dio ha posto la sua residenza.    
L’Epistola: Colossesi 1,15-20. In essa l’Apostolo parla della riconciliazione universale operata da Dio con il «sangue della Croce» del suo Figlio, che non solo è il «primogenito di tutte le creazione» ma anche il «primogenito di quelli che risorgono dai morti».      

Il Vangelo riportato con un breve commento è preso da Giovanni 12,12-16.      

In quel tempo. 12La grande folla che era venuta per la festa, udito che Gesù veniva a Gerusalemme, 13prese dei rami di palme e uscì incontro a lui gridando:
«Osanna!   
Benedetto colui che viene nel nome del Signore, i
l re d’Israele!».
14Gesù, trovato un asinello, vi montò sopra, come sta scritto:
15Non temere, figlia di Sion!
Ecco, il tuo re viene,
seduto su un puledro d’asina.

16I sui discepoli sul momento non compresero queste cose; ma, quando Gesù fu glorificato, si ricordarono che di lui erano state scritte queste cose e che a lui essi le avevano fatte.      

Il brano segue immediatamente quello dell’“unzione” di Gesù in casa di Lazzaro da lui “risuscitato dai morti” (Gv 12,1-11) e che viene proclamato nella “Messa nel giorno”. I vv. 12-13 riportano l’iniziativa spontanea della folla presente in Gerusalemme per l’imminente festa di Pasqua che “va incontro” a Gesù  recando non semplici fronde strappate a degli alberi ma “palme”, che sappiamo essere simbolo di vittoria. La folla intona il canto gioioso che riconosce in Gesù l’inviato da Dio e il “re” d’Israele.

I vv. 14-15 mettono in luce con il gesto di Gesù di “montare” su un asinello che egli è sì il re d’Israele, ma non come i re di questa terra. Anzi, con la citazione del profeta Zaccaria viene chiarito che Gesù è il re umile e pacifico destinato a regnare su tutte le genti.

Il brano si chiude al v. 16 con l’indicazione preziosa anche per noi: sarà soltanto nell’ora della sua “glorificazione” ovvero della croce che i discepoli di allora e di sempre saranno pienamente illuminati sulle parole e sui gesti di Gesù.      

* Il Messale    
La preghiera liturgica custodita nel Messale ambrosiano offre per questa celebrazione una grande varietà di antifone, inni e orazioni. Qui ci limitiamo a riportare il Prefazio con il quale viene introdotta la Preghiera eucaristica e l’Antifona IV che accompagna la processione: 

Prefazio    
E' veramente cosa buona e giusta, nostro dovere e fonte di salvezza, rendere grazie sempre, qui e in ogni luogo, a te, Signore, Padre santo, Dio onnipotente ed eterno.

Tu hai mandato in questo mondo Gesù, tuo Figlio, a salvarci perché, abbassandosi fino a noi e condividendo il dolore umano, risollevasse fino a te la nostra vita.

Salendo a Gerusalemme portava a compimento quanto le Scritture avevano annunziato; e la folla dei credenti con fede e con gioia gli andava incontro acclamando.

Come allora la voce dei fanciulli risuonava della tua lode, così ora con tutto il nostro amore eleviamo esultando un inno alla tua gloria.      

Antifona IV
   
Il cielo si è fatto vicino e tu,
Signore pietoso,
senza lasciare il tuo trono
sei disceso sulla terra.    
Tu vieni a noi, Salvatore del mondo,
su mite asinello.    
Ti corrono incontro i fanciulli con rami di palma
e cantano le tue lodi.    
Benedetto sei tu
che vieni volontariamente a soffrire
per il nostro riscatto.    
A te, Signore, sia gloria.    


3. Messa nel giorno    

Si deve celebrare quando non si fa la processione degli ulivi. Alla Messa vespertina del sabato viene letto Giovanni 2,12-22 quale Lettura vigiliare.      

*Il Lezionario    
Ha fissato le seguenti lezioni scritturistiche:    

Lettura:
Isaia 52,13-53,12 contiene il quarto canto del servo di Dio sofferente «uomo dei dolori che ben conosce il patire» nel quale non ci è difficile vedere raffigurato il Signore Gesù nella sua passione e morte.

Il Salmo responsoriale è composto da alcune strofe del salmo 87 che trasmette il lamento di un uomo “sazio di sventure” e che tende le sue mani a Dio consegnandosi a lui con fiducia.

L’Epistola: Ebrei 12,1b-3 ci esorta a tenere sempre fisso lo sguardo su Gesù che si sottopose alla croce e questo non solo nei giorni della Settimana autentica ma per tutti i giorni della nostra vita.      

Il Vangelo riportato con un breve commento è preso da Giovanni 11,55-12,11      
In quel tempo. 55Era vicina la Pasqua dei Giudei e molti dalla regione salirono a Gerusalemme prima della Pasqua per purificarsi. 56Essi cercavano Gesù e, stando nel tempio, dicevano tra loro: «Che ve ne pare? Non verrà alla festa?». 57Intanto i capi dei sacerdoti e i farisei avevano dato ordine che chiunque sapesse dove si trovava lo denunciasse, perché potessero arrestarlo.     1Sei giorni prima della Pasqua, Gesù andò a Betania, dove si trovava Lazzaro, che egli aveva risuscitato dai morti. 2E qui fecero per lui una cena. Marta serviva e Lazzaro era uno dei commensali. 3Maria allora prese trecento grammi di profumo di puro nardo, assai prezioso, ne cosparse i piedi di Gesù, poi li asciugò con i suoi capelli, e tutta la casa si riempì dell’aroma di quel profumo. 4Allora Giuda Iscariota, uno dei suoi discepoli, che stava per tradirlo, disse: 5«Perché non si è venduto questo profumo per trecento denari e non si sono dati ai poveri?». 6Disse questo non perché gli importasse dei poveri, ma perché era un ladro e, siccome teneva la cassa, prendeva quello che vi mettevano dentro. 7Gesù allora disse: «Lasciala fare, perché essa lo conservi per il giorno della mia sepoltura. 8I poveri infatti li avete sempre con coi, ma non potete sempre avere me».    
9Intanto una grande folla di Giudei venne a sapere che egli si trovava là e accorse, non solo per Gesù, ma anche per vedere Lazzaro che egli aveva risuscitato dai morti.
10I capi dei sacerdoti allora decisero di uccidere anche Lazzaro, 11perché molti Giudei se ne andavano a causa di lui e credevano in Gesù.  
   

Il brano incentrato sul racconto dell’unzione di Gesù nella casa di Lazzaro (12,1-8) è come incorniciato dai versetti iniziali 11,55-57 e quelli finali 12,9-11. I primi riportano il desiderio della gente, venuta a Gerusalemme per la festa di Pasqua, di poter incontrare Gesù, la cui fama, dopo la risurrezione di Lazzaro, si era sparsa ovunque. I versetti finali riferiscono della decisione di mettere a morte anche  Lazzaro, a causa del quale molti lasciavano la Sinagoga per aderire a Gesù.

Il racconto dell’unzione è collocato nel contesto di un pranzo familiare consumato da Gesù a casa di Lazzaro e delle sorelle Marta e Maria, ardenti di fede e di amore verso di lui che si sta incamminando verso la sua Pasqua! Il pranzo può forse rappresentare la gioia della risurrezione, mentre l’unzione che Maria fa sui piedi di Gesù annunzia la sua sepoltura.

Il significato profondo del gesto di Maria, non capito da Giuda, il traditore (vv. 5-6), consiste nell’anticipare, pur senza saperlo, il gesto pieno di amore che ella avrebbe presto compiuto sul corpo esanime del Signore.        

*Il Messale
    
La preghiera liturgica evidenzia il perenne valore salvifico della morte del Signore annunziata dal gesto pieno d’amore di Maria e attualizzato proprio nella celebrazione. Qui riportiamo il Prefazio e l'Antifona alla Comunione:
      
Prefazio    
E' veramente cosa buona e giusta, nostro dovere e fonte di salvezza, rendere grazie sempre, qui e in ogni luogo, a te, Signore, Padre santo, Dio onnipotente ed eterno.

Cristo tuo Figlio, il giusto che non conobbe la colpa, accettò di patire per noi e, consegnandosi a una ingiusta condanna, portò il peso dei nostri errori. La sua morte ha distrutto il peccato, la sua risurrezione ha ricreato la nostra innocenza.

Per questo mistero d’amore, uniti agli angeli e ai santi cantiamo con voce unanime l’inno della tua gloria.      

Alla Comunione
   
Nel Figlio del suo amore
tutto dal nostro Dio ci fu donato,
il sangue del Signore
ogni peccato nostro ci ha lavato.    
Perdona il nostro errore,
medica le ferite del peccato.

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10 aprile 2011 – V domenica di Quaresima


1. La domenica “di Lazzaro”
   

E' così chiamata perché viene in essa proclamato il Vangelo della risurrezione di Lazzaro come momento culminante del graduale cammino di fede che la Quaresima ci fa intraprendere ogni anno verso la Pasqua. Il Lezionario presenta: Lettura: Esodo 14,15-31; Salmo 105; Epistola: Efesini 2,4-10; Vangelo: Giovanni 11,1-53. Alla Messa vespertina del sabato viene proclamato: Matteo 12,38-40 quale  Lettura vigiliare.    


2. Vangelo secondo Giovanni 11,1-53    

In quel tempo. 1Un certo Lazzaro di Betània, il villaggio di Maria e di Marta sua sorella, era malato. 2Maria era quella che cosparse di profumo il Signore e gli asciugò i piedi con i suoi capelli; suo fratello Lazzaro era malato. 3Le sorelle mandarono dunque a dirgli: «Signore, ecco, colui che tu ami è malato».    
4All’udire questo, Gesù disse: «Questa malattia non porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa il figlio di Dio venga glorificato». 5Gesù amava Marta e sua sorella e Lazzaro. 6Quando sentì che era malato, rimase per due giorni nel luogo dove si trovava. 7Poi disse ai discepoli: «Andiamo di nuovo in Giudea!». 8I discepoli gli dissero: «Rabbì, poco fa i Giudei cercavano di lapidarti e tu ci vai di nuovo?». 9Gesù rispose: «Non sono forse dodici le ore del giorno? Se uno cammina di giorno, non inciampa, perché vede la luce di questo mondo; 10ma se cammina di notte, inciampa, perché la luce non è in lui».  11Disse queste cose e poi soggiunse loro: «Lazzaro, il nostro amico, si è addormentato; ma io vado a svegliarlo». 12Gli dissero allora i discepoli: «Signore, se si è addormentato, si salverà». 13Gesù aveva parlato della morte di lui; essi invece pensarono che parlasse del riposo del sonno. 14Allora Gesù disse loro apertamente: «Lazzaro è morto 15e io sono contento per voi di non essere stato là, affinché voi crediate; ma andiamo da lui!». 16Allora Tommaso, chiamato Didimo, disse agli altri discepoli: «Andiamo anche noi a morire con lui!».    
17Quando Gesù arrivò, trovò Lazzaro che già da quattro giorni era nel sepolcro. 18Betània distava da Gerusalemme meno di tre chilometri 19e molti Giudei erano venuti da Marta e Maria a consolarle per il fratello. 20Marta dunque, come udì che veniva Gesù, gli andò incontro; Maria invece stava seduta in casa. 21Marta disse a Gesù: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto! 22Ma anche ora so che qualunque cosa tu chiederai a Dio, Dio te la concederà». 23Gesù le disse: «Tuo fratello risorgerà». 24Gli rispose Marta: «So che risorgerà nella risurrezione dell’ultimo giorno». 25Gesù le disse: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; 26chiunque vive e crede in me,  non morirà in eterno. Credi questo?». 27Gli rispose: «Sì, o signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo».    
28Dette queste parole, andò a chiamare Maria, sua sorella, e di nascosto le disse: «Il Maestro è qui e ti chiama». 29Udito questo, ella si alzò subito e andò da lui. 30Gesù non era entrato nel villaggio, ma si trovava ancora là dove Marta gli era andata incontro. 31I Giudei, che erano in casa con lei a consolarla, vedendo Maria alzarsi in fretta e uscire, la seguirono, pensando che andasse a piangere al sepolcro.   
32Quando Maria giunse dove si trovava Gesù, appena lo vide si gettò ai suoi piedi dicendogli: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!». 33Gesù allora, quando la vide piangere, e piangere anche i Giudei che erano venuti con lei, si commosse profondamente e, molto turbato, 34domandò: «Dove lo avete posto?». Gli dissero: «Signore, vieni a vedere!». 35Gesù scoppiò in pianto. 36Dissero allora i Giudei: «Guarda come lo amava!». 37Ma alcuni di loro dissero: «Lui, che ha aperto gli occhi al cieco, non poteva anche far sì che costui non morisse?». 38Allora Gesù, ancora una volta commosso profondamente, si recò al sepolcro: era una grotta e contro di essa era posta una pietra.    
39Disse Gesù: «Togliete la pietra!». Gli rispose Marta, la sorella del morto: «Signore, manda già cattivo odore; è lì da quattro giorni». 40Le disse Gesù: «Non ti ho detto che, se crederai, vedrai la gloria di Dio?». 41Tolsero dunque la pietra: Gesù allora alzò gli occhi e disse: «Padre, ti rendo grazie perché mi hai ascoltato. 42Io sapevo che mi dai sempre ascolto, ma l’ho detto per la gente che mi sta attorno, perché credano che tu mi hai mandato». 43Detto questo, gridò a gran voce: «Lazzaro, vieni fuori!». 44Il morto uscì, i piedi e le mani legati con bende, e il viso avvolto da un sudario. Gesù disse loro: «Liberatelo e lasciatelo andare».    
45Molti dei Giudei che erano venuti da Maria, alla vista di ciò che egli aveva compiuto, credettero  in lui. 46Ma alcuni di loro andarono dai farisei e riferirono loro quello che Gesù aveva fatto.    
47Allora i capi dei sacerdoti e i farisei riunirono il sinedrio e dissero: «Che cosa facciamo? Quest’uomo compie molti segni. 48Se lo lasciamo continuare così, tutti crederanno in lui, verranno i Romani e distruggeranno il nostro tempio e la nostra nazione». 49Ma uno di loro, Caifa, che era sommo sacerdote quell’anno, disse loro: «Voi non capite nulla! 50Non vi rendete conto che è conveniente per voi che un solo uomo muoia per il popolo, e non vada in rovina la nazione intera!». 51Questo però non lo disse da sé stesso, ma, essendo sommo sacerdote quell’anno, profetizzò che Gesù doveva morire per la nazione; 52e non soltanto per la nazione, ma anche per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi. 53Da quel giorno dunque decisero di ucciderlo.    


3. Commento liturgico-pastorale
   

Per poter più agilmente affrontare la lettura del brano proponiamo la seguente suddivisione:

- i vv. 1-6 sono destinati a presentare la situazione e i personaggi del racconto. In primo piano ci sono ovviamente le parole con cui Gesù parla della “malattia” di Lazzaro come l’occasione perché sia manifestata la “gloria” di Dio, ovvero il suo disegno di salvezza che è destinato a rivelarsi in pienezza nella “glorificazione” di Gesù, il Figlio di Dio. “Glorificazione” che si realizzerà nell’ora della sua croce.

- I vv. 7-16 riportano le parole con cui Gesù spiega ai suoi discepoli, refrattari ad andare con lui in Giudea dove aveva già rischiato di essere ucciso (cfr. Gv 8,59; 10,31), il senso di ciò che si appresta a fare andando da Lazzaro oramai morto (v. 15). Il “risveglio” di Lazzaro, infatti, manifesterà il disegno di Dio che si compirà anche nel suo Figlio crocifisso, e inviterà ancora una volta i discepoli a “credere” in lui e a “seguirlo”.

- Segue ai vv. 20-27 e ai vv. 29-32 l’incontro di Gesù con Marta e Maria, le sorelle di Lazzaro. In particolare a Marta, che professa la fede nella risurrezione “nell’ultimo giorno” ma soprattutto la fede in Gesù capace, con la sua presenza, di liberare dalla morte, Gesù risponde con la solenne autorivelazione: «Io sono la risurrezione e la vita» (v. 25). Essa riguarda la potenza personale di Gesù di riportare in vita i morti e soprattutto di non far cadere nella morte “eterna” ossia nella dannazione coloro che credono in lui!

La risposta di Marta è una piena professione di fede nel Signore come il Messia, il Figlio di Dio che viene in questo mondo per portare in esso il regno di Dio. è la fede richiesta a tutti coloro che intendono seguire Gesù, diventare suoi discepoli e per mezzo del Battesimo diventare membri della sua comunità. è la fede  che il tempo quaresimale intende far recuperare e brillare in tutta la sua integrità nella Chiesa e in ogni singolo fedele.

Nell’incontro di Gesù con Maria invece questa sembra come sopraffatta dalla tremenda realtà della morte che induce in Gesù stesso una triplice reazione così annotata: v. 33 si “commosse profondamente“; ne fu “molto turbato”; v. 35 “scoppiò in pianto”. La “commozione” e il “turbamento” in Gesù dicono quanto egli avvertisse attorno a sé la terribile presenza della morte alla quale egli stesso dovrà presto andare incontro.

Le lacrime del Signore sono le lacrime di Dio stesso davanti al potere devastante che la morte esercita sull’uomo uscito dalle sue mani, ma sono anche le lacrime di chi, come Gesù, “deve” lasciarsi avviluppare da quel potere perché si compia il disegno del Padre, quello che ora brilla nel miracolo del “risveglio” di Lazzaro che, addirittura, è morto già da quattro giorni ed è già in decomposizione (v. 39).  Il gesto di “alzare gli occhi” (v. 41) verso l’alto mette in luce la continua comunione di vita e di amore con il Padre che sempre ascolta ed esaudisce il Figlio.

- La narrazione del miracolo vero e proprio e destinato a suscitare la fede in lui occupa soltanto due versetti: 43 e 44. Gesù grida a gran voce il nome del morto al quale ingiunge di lasciare il sepolcro e di uscire incontro a lui; e ai presenti ordina di liberarlo dalle bende, nelle quali va forse vista un’allusione alla morte che Lazzaro dovrà nuovamente affrontare. Gesù invece lascerà il sepolcro sciolto dalle bende in cui era stato avvolto per indicare la definitività della sua risurrezione e della vita cosa  che riguarderà anche tutti coloro che perseverano e credono in lui.

- Il brano si conclude con la reazione dei testimoni dell’accaduto (vv. 45-53). Una reazione duplice: alcuni «alla vista di ciò che egli aveva compiuto» credettero. Altri invece informarono dell’accaduto «i capi dei sacerdoti e i farisei» i quali in una apposita riunione ne decretano la morte (v. 53).

Di tale riunione interessano particolarmente le parole di Caifa (v. 50) e il commento che di esse ne fa l’evangelista (51-52). Egli riconosce come “ispirate” le parole dette dal sommo sacerdote e che rivelano la destinazione della morte di Gesù in vista della “salvezza” della nazione giudaica e, a partire da essa, destinata a radunare «insieme i figli di Dio che erano dispersi», realizzando così la missione “pastorale” che Gesù è venuto a compiere sulla terra: chiamare e radunare nella comunione con lui e con il Padre tutti i popoli della terra insieme con il popolo d’Israele.

Collocato nel contesto del graduale cammino quaresimale verso la Pasqua, il brano evangelico va letto anzitutto come un appello potente a credere nel Signore Gesù, il quale è venuto in questo mondo rivestito della stessa potenza salvifica dispiegata a suo tempo da Dio stesso a favore del suo popolo. Quella “gloria” che Dio dimostra contro il Faraone d’Egitto deciso a sterminare il suo popolo (Lettura: Esodo 14,17-18) e che si concretizzò nell’inaudito prodigio della divisione delle acque del Mar Rosso, è la “gloria” che Dio manifesta nel suo Figlio che viene posto davanti al potere non di un tiranno, ma a quello invincibile della “morte”.

Il “risveglio” di Lazzaro dalla morte manifesta che «la mano potente con la quale il Signore aveva agito contro l'Egitto»  (Es 14,31a) continua a operare nel suo Figlio Gesù. Davanti al prodigio del Mar Rosso «il popolo temette il Signore e credette in lui» (Es 14,31b). Davanti alla risurrezione di Lazzaro “alcuni” credettero in Gesù e tra questi vanno annoverate le due sorelle, i discepoli e alcuni  giudei presenti al miracolo.

La fede in Cristo che richiama alla vita i morti e che è soprattutto in grado di liberare dalla “morte eterna” è ciò che viene chiesto a tutti noi che ci diciamo di Cristo! La “morte eterna” è la nostra terribile nemica ed è indotta in noi a causa del peccato, come ci avverte l’Apostolo nell’Epistola (Efesini 2,1).

Il fremito interiore, il turbamento e le lacrime del Signore sono certamente dovute alla morte corporale di Lazzaro, alla quale Gesù stesso sta per andare incontro. Ma esse sono dovute all’annuncio tremendo che questa morte rappresenta: quello della morte eterna o dannazione, dalla quale solo la mano potente di Dio ci può preservare e, di fatto, ci ha preservato nel suo Figlio: «Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amato, da morti che eravamo per le colpe, ci ha fatto rivivere con Cristo» (Efesini 2,4-5).

La preghiera liturgica evidenzia come tutto ciò si sia già attuato in noi a livello sacramentale nell’acqua del Battesimo dove: «la grazia divina del Cristo libera noi tutti sepolti nella colpa del primo uomo, e ci rende alla vita e alla gioia senza fine» (Prefazio I). Il sacramento eucaristico poi «che ci è dato per liberarci dalla schiavitù della colpa» nella quale purtroppo cadiamo a motivo dell’umana fragilità: «purifichi i nostri cuori e, a immagine della risurrezione, ci riscatti da ogni antica decadenza» (Orazione dopo la Comunione).

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3 aprile 2011 – IV domenica di Quaresima


1. Domenica “del Cieco”
   

E' la denominazione che caratterizza questa domenica a motivo del brano evangelico di Giovanni che riporta il racconto della guarigione del “cieco dalla nascita”. Il Lezionario prescrive: Lettura: Esodo 34,27-35,1; Salmo 35; Epistola: 2Corinzi 3,7-18; Vangelo: Giovanni 9,1-38b. Nella Messa vespertina del sabato, quale Lettura vigiliare, viene proclamato: Matteo 17,1b-9.    


2. Vangelo secondo Giovanni 9,1-38b
   

In quel tempo. 1Passando, il Signore Gesù vide un uomo cieco dalla nascita 2e i suoi discepoli lo interrogarono: «Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?». 3Rispose Gesù: «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio. 4Bisogna che noi compiamo le opere di colui che mi ha mandato finché è giorno; poi viene la notte, quando nessuno può agire. 5Finché io sono nel mondo, sono la luce del mondo». 6Detto questo, sputò per terra, fece del fango con la saliva, spalmò il fango sugli occhi del cieco 7e gli disse: «Va’ a lavarti nella piscina di Sìloe» - che significa Inviato. Quegli andò, si lavò e tornò che ci vedeva.    
8Allora i vicini e quelli che lo avevano visto prima, perché era un mendicante, dicevano: «Non è lui quello che stava seduto a chiedere l'elemosina?». 9Alcuni dicevano: «è lui»; altri dicevano: «No, ma è uno che gli assomiglia». Ed egli diceva: «Sono io!». 10Allora gli domandarono: «In che modo ti sono stati aperti gli occhi?». 11Egli rispose: «L’uomo che si chiama Gesù ha fatto del fango, mi ha spalmato gli occhi e mi ha detto: “Va’ a Sìloe e lavati!”. Io sono andato, mi sono lavato e ho acquistato la vista». 12 Gli dissero: «Dov’è costui?». Rispose: «Non lo so».     13Condussero dai farisei quello che era stato cieco: 14era un sabato, il giorno in cui Gesù aveva fatto del fango e gli aveva aperto gli occhi. 15Anche i farisei dunque gli chiesero di nuovo come aveva acquistato la vista. Ed egli disse loro: «Mi ha messo del fango sugli occhi, mi sono lavato e ci vedo». 16Allora alcuni dei farisei dicevano: «Quest’uomo non viene da Dio, perché non osserva il sabato». Altri invece dicevano: «Come può un peccatore compiere segni di questo genere?». E c’era dissenso tra loro. 17Allora dissero di nuovo al cieco: «Tu, che cosa dici di lui, dal momento che ti ha aperto gli occhi?». Egli rispose: «è un profeta!». 18Ma i Giudei non credettero di lui che fosse stato cieco e che avesse acquistato la vista, finché non chiamarono i genitori di colui che aveva ricuperato la vista. 19E li interrogarono: «è questo il vostro figlio, che voi dite essere nato cieco? Come mai ora ci vede?». 20I genitori di lui risposero: «Sappiamo che questo è nostro figlio e che è nato cieco; 21ma come ora ci veda non lo sappiamo, e chi gli abbia aperto gli occhi, noi non lo sappiamo. Chiedetelo a lui: ha l’età, parlerà lui di sé». 22Questo dissero i suoi genitori, perché avevano paura dei Giudei; infatti i Giudei avevano già stabilito che, se uno lo avesse riconosciuto come il Cristo, venisse espulso dalla sinagoga. 23Per questo i suoi genitori dissero: «Ha l’età: chiedetelo a lui!». 24Allora chiamarono di nuovo l’uomo che era stato cieco e gli dissero: «Da’ gloria a Dio! Noi sappiamo che quest’uomo è un peccatore». 25Quello rispose: «Se sia un peccatore, non lo so. Una cosa io so: ero cieco e ora ci vedo». 26Allora gli dissero: «Che cosa ti ha fatto? Come ti ha aperto gli occhi?». 27Rispose loro: «Ve l’ho già detto e non avete ascoltato; perché volete udirlo di nuovo? Volete forse diventare anche voi suoi discepoli?». 28Lo insultarono e dissero: «Suo discepolo sei tu! Noi siamo discepoli di Mosè! 29Noi sappiamo che a Mosè ha parlato Dio; ma costui non sappiamo di dove sia». 30Rispose loro quell’uomo: «Proprio questo stupisce: che voi non sapete di dove sia, eppure mi ha aperto gli occhi. 31Sappiamo che Dio non ascolta i peccatori, ma che, se uno onora Dio e fa la sua volontà, egli lo ascolta. 32Da che mondo è mondo, non si è mai sentito dire che uno abbia aperto gli occhi a un cieco nato. 33Se costui non venisse da Dio, non avrebbe potuto far nulla». 34Gli replicarono: «Sei nato tutto nei peccati e insegni a noi?». E lo cacciarono fuori.    
35Gesù seppe che l’avevano cacciato fuori; quando lo trovò, gli disse: «Tu, credi nel Figlio dell’uomo?». 36Egli rispose: «E chi è, Signore, perché io creda in lui?». 37Gli disse Gesù: «Lo hai visto: è colui che parla con te». 38Ed egli disse: «Credo, Signore!».    


3. Commento liturgico-pastorale    

Il brano evangelico, oltre a indicare che con Gesù sono stati inaugurati i “tempi messianici” con riferimento a Isaia 29,18; 35,5; 42,7, ha in sé stesso una portata simbolica evidente: il “cieco dalla nascita” che ora vede rappresenta l’uomo illuminato dalla fede.

Il brano è strutturato in tre parti. La prima: vv. 1-12 riporta sostanzialmente la narrazione del “miracolo” e la reazione dei presenti; la seconda: vv. 13-34 riporta la reazione dei farisei con il duplice interrogatorio del “miracolato” (vv. 15-17; 24-34) e dei suoi genitori (vv. 18-23); la terza (vv. 35-39), ovvero la parte conclusiva, riporta il dialogo tra Gesù e il miracolato che professa la sua fede in lui.

In particolare nella prima parte il racconto del miracolo è preceduto dal dialogo di Gesù con i suoi discepoli convinti che la condizione del cieco fin dalla nascita sia dovuta a colpe commesse «da lui o dai suoi genitori» (v. 2). Non abbiamo da Gesù una risposta esplicita sul problema della sofferenza e specialmente della sofferenza “innocente”.  Il cieco nato, in questo caso, offre a Gesù l’occasione per manifestare, con la sua guarigione, che Dio “opera” nel mondo e la sua opera è quella di “illuminare” il mondo e, in esso, ogni uomo che di per sé «giace nelle tenebre e nell'ombra di morte» mediante il suo Figlio.

La narrazione del miracolo (vv. 6-7) sorprende per il gesto compiuto da Gesù nel fare del fango con la sua saliva e nello spalmarlo sugli occhi del cieco con l’ingiunzione di recarsi alla piscina di Siloe di cui viene detto il significato: “Inviato”. In realtà con il suo incomprensibile gesto Gesù fa capire che l’uomo è di per sé prigioniero delle “tenebre” da cui può essere liberato se si recherà dall’“Inviato” ossia da Gesù stesso che è venuto nel mondo proprio per compiere tale opera.

La prima parte si chiude con la constatazione dei conoscenti dell’avvenuta guarigione del cieco nato (vv. 8-12) e soprattutto con le domande sul “come” lui ha ottenuto la vista; domande che saranno riprese drammaticamente nella seconda parte del racconto.     Questa si apre con il miracolato condotto dai Farisei, esperti dottori e maestri della Legge, i quali prendono subito una posizione negativa nei confronti di Gesù, dal momento che egli, “facendo del fango”, ha violato il precetto fondamentale per Israele del “riposo” sabbatico.

Sorprende la reazione decisa del guarito nel dichiarare che Gesù è “un profeta” (v. 17). Con ciò l’evangelista mostra come la vera guarigione dell’uomo consiste nella sua adesione di fede in Gesù rivelatore di Dio. Il cieco che ora vede è, al contrario dei Farisei che si ostinano nel rimanere chiusi all’opera di illuminazione del Signore Gesù, l’esemplare per ogni uomo che gradatamente giunge alla pienezza di luce, ossia alla pienezza di fede in Gesù: è “un profeta” (v. 17); “viene da Dio” (v. 33); “Figlio dell’uomo” (v. 35).

Il racconto si conclude con Gesù che volutamente va a cercare e “trova” il miracolato cacciato fuori dalla Sinagoga (vv. 34-35) per proporgli un’adesione alla sua persona che racchiude in pienezza il mistero del “Figlio dell’uomo” che, in verità, è il Figlio di Dio!

La risposta finale del cieco, che ora vede per la prima volta Gesù, è una decisa adesione di fede in lui resa evidente dall’esplicita affermazione: «Credo, Signore». In tal modo il cieco nato, illuminato dal Signore, diviene il prototipo e l’esemplare per tutti i “credenti”.

La preghiera liturgica pone in luce la comprensione “battesimale” del testo evangelico: «Nel mendicante guarito è raffigurato il genere umano prima nella cecità della sua origine e poi nella splendida illuminazione che al fonte battesimale gli viene donata» (Prefazio I). In questo contesto l’immersione nell’acqua battesimale, evocata dalla piscina di Siloe, rappresenta il passaggio dall’oscurità totale che è l’incredulità alla grazia di “vederci” ossia di pervenire alla fede, che il Vangelo rende plasticamente nel cieco guarito il quale vede con i suoi occhi Gesù!

È questi, il Figlio, la “luce vera” che al credente è concesso di guardare in faccia, “a viso scoperto”. Cosa davvero straordinaria e mirabile se messa a confronto con l’iniziale “illuminazione” concessa da Dio al suo popolo con il dono della Legge dato a Mosè.

A tale proposito l’Apostolo richiamando l’evento proclamato nella Lettura, mentre riconosce l’autenticità della prima rivelazione a Mosè, resa evidente dallo splendore che irradiava dal suo volto (cfr. Esodo 34,29), ne dichiara anche la sua condizione effimera e di provvisorietà rispetto alla rivelazione portata dal Signore Gesù nella potenza dello Spirito (Epistola: 2Corinzi 3,7-8).

Tutti noi che abbiamo avuto il dono della fede e, dunque, siamo in grado di riconoscere che in Gesù Dio «ha lavato la cecità di questo mondo» (Prefazio I), veniamo esortati in questo tempo quaresimale a lodare, ringraziare e «con tutti i nostri sensi rendere gloria a Dio» (Prefazio I) per tale sua “opera”.

Lo faremo se «rifletteremo come in uno specchio la gloria del Signore» al punto da venire «trasformati in quella medesima immagine» (2Corinzi 3,18) dando così la nostra testimonianza pronta e vera a lui con la nostra parola e la nostra vita.

Per questo partecipando all’Eucaristia, mentre fissiamo i nostri occhi sulla gloria di Dio che è il suo Figlio morto e risorto, così preghiamo: «Signore, dà luce ai miei occhi perché non mi addormenti nella morte; perché l’avversario non dica: “Sono più forte di lui”. Tu che hai aperto gli occhi al cieco nato, con la tua luce illumina il mio cuore perché io sappia vedere le tue opere e custodisca tutti i tuoi precetti» (All’Inizio dell’assemblea Liturgica).

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27 marzo 2011 – III domenica di Quaresima


1. La domenica “di Abramo”
     

E' così denominata perché nel brano evangelico viene presentato Abramo come padre e prototipo dei “credenti” in Cristo. Il Lezionario propone: Lettura: Esodo 34,1-10; Salmo 105; Epistola: Galati 3,6-14; Vangelo: Giovanni 8,31-59.  All’inizio della Messa vespertina del sabato viene letto: Luca 9,28b-36 quale Lettura vigiliare che, in Quaresima, sostituisce il Vangelo della risurrezione.  


2. Vangelo secondo Giovanni 8,31-59      

In quel tempo. Il Signore 31Gesù disse a quei Giudei che gli avevano creduto: «Se rimanete nella mia parola, siete davvero miei discepoli; 32conoscerete la verità e la verità vi farà liberi». 33Gli risposero: «Noi siamo discendenti di Abramo e non siamo mai stati schiavi di nessuno. Come puoi dire: “Diventerete liberi”?». 34Gesù rispose loro: «In verità, in verità io vi dico: chiunque commette il peccato è schiavo del peccato. 35Ora, lo schiavo non resta per sempre nella casa; il figlio vi resta per sempre. 36Se dunque il Figlio vi farà liberi, sarete liberi davvero. 37So che siete discendenti di Abramo. Ma intanto cercate di uccidermi perché la mia parola non trova accoglienza in voi. 38Io dico quello che ho visto presso il Padre; anche voi dunque fate quello che avete ascoltato dal padre vostro». 39Gli risposero: «Il padre nostro è Abramo». Disse loro Gesù: «Se foste figli di Abramo, fareste le opere di Abramo. 40Ora invece voi cercate di uccidere me, un uomo che vi ha detto la verità udita da Dio. Questo, Abramo non l’ha fatto. 41Voi fate le opere del padre vostro». Gli risposero allora:  «Noi non siamo nati da prostituzione; abbiamo un solo padre: Dio!». 42Disse loro Gesù: «Se Dio fosse vostro padre, mi amereste, perché da Dio sono uscito e vengo; non sono venuto da me stesso, ma lui mi ha mandato. 43Per quale motivo non comprendete il mio linguaggio? Perché non potete dare ascolto alla mia parola. 44Voi avete per padre il diavolo e volete compiere i desideri del padre vostro. Egli era omicida fin da principio e non stava saldo nella verità, perché in lui non c’è verità. Quando dice il falso, dice ciò che è suo, perché è menzognero e padre della menzogna. 45A me, invece, voi non credete, perché dico la verità. 46Chi di voi può dimostrare che ho peccato? Se dico la verità, perché non mi credete? 47Chi è da Dio ascolta le parole di Dio. Per questo voi non ascoltate: perché non siete da Dio».    
48Gli risposero i Giudei: «Non abbiamo forse ragione di dire che tu sei un Samaritano e un indemoniato?». 49Rispose Gesù: «Io non sono un indemoniato: io onoro il Padre mio, ma voi non onorate me. 50Io non cerco la mia gloria; vi è chi la cerca, e giudica. 51In verità, in verità io vi dico: se uno osserva la mia parola, non vedrà la morte in eterno». 52Gli dissero allora i Giudei: «Ora sappiamo che sei un indemoniato. Abramo è morto, come anche i profeti, e tu dici: “Se uno osserva la mia parola, non sperimenterà la morte in eterno”. 53Sei tu più grande del nostro padre Abramo, che è morto? Anche i profeti sono morti. Chi credi di essere?». 54Rispose Gesù: «Se io glorificassi me stesso, la mia gloria sarebbe nulla. Chi mi glorifica è il Padre mio, del quale voi dite: “è nostro Dio!”, 55e non lo conoscete. Io invece lo conosco. Se dicessi che non lo conosco, sarei come voi un mentitore. Ma io lo conosco e osservo la sua parola. 56Abramo, vostro padre, esultò nella speranza di vedere il mio giorno;  lo vide e fu pieno di gioia». 57Allora i Giudei gli dissero: «Non hai ancora cinquant’anni e hai visto Abramo?». 58Rispose loro Gesù: «In verità, in verità io vi dico: prima che Abramo fosse, Io sono». 59Allora raccolsero delle pietre per gettarle contro di lui; ma Gesù si nascose e uscì dal tempio.    


3. Commento liturgico-pastorale      

Il brano evangelico è preso dal capitolo 8 che riporta l’insegnamento di Gesù nel tempio di Gerusalemme e destinato sostanzialmente a rivelare la sua più piena identità di Figlio di Dio, partecipe cioè della natura divina del Padre. Insegnamento che suscita la reazione dei Farisei ma anche un’iniziale adesione di fede da parte di “molti” che lo seguivano e lo ascoltavano. Occorre, inoltre, ricordare che tutto il capitolo è come contrassegnato dal continuo riferimento ad Abramo come “padre” del popolo d'Israele.

Il testo, per comodità di lettura, lo dividiamo in due sezioni. La prima vv. 31-45 è incentrata sulla necessità di “credere” e la seconda sezione (vv. 46-59) sulla necessità di credere alla persona di Gesù. In particolare i vv. 31-36 riportano le parole di Gesù «a quei Giudei che gli avevano creduto» almeno inizialmente e che ruotano attorno all’opposizione “libertà/schiavitù”, s’intende, del peccato. La “libertà” è garantita a coloro che “rimangono” nella Parola di Gesù.

I vv. 37-40 introducono il tema di Abramo come Padre del quale, però, quelli che con orgoglio si proclamano “figli”, non compiono le opere, vale a dire non si pongono in quella disponibilità di fede  propria di Abramo! Per questo essi non possono proclamarsi addirittura “figli” di Dio rifiutando di credere in colui che è “uscito” da Dio ed è stato da lui “inviato”, ma, con tale rifiuto, dimostrano, in verità, di essere figli del diavolo (vv. 41-45).     Nei vv. 46-50 si insiste sul fatto che Gesù “dice la verità”, reca cioè  con la sua Parola l’autentica e piena rivelazione di Dio al contrario dei suoi interlocutori che rifiutando la sua parola di “verità” preferiscono seguire la menzogna.

Di qui la solenne proclamazione del v. 51: «In verità, in verità io vi dico: se uno osserva la mia parola, non vedrà la morte in eterno», che costituisce un estremo appello rivolto da Gesù ai suoi interlocutori perché si aprano all’ascolto e all’osservanza fedele della sua parola che garantisce di sfuggire alla “morte”. Modello di un simile ascolto obbediente è Gesù che, essendo il Figlio, “conosce” Dio, accoglie e osserva la sua volontà (v. 55).

Il brano si chiude con la parola di autorivelazione che Gesù pronuncia a riguardo di sé stesso: «In verità, in verità io vi dico: prima che Abramo fosse, Io sono». Con ciò il Signore afferma che Dio, che è l’Unico, può essere trovato e riconosciuto nel Figlio e, di conseguenza, è trovato e riconosciuto come Padre! A questa rivelazione “anelava” Abramo che, a motivo della sua fede, poté “vedere” e gioire del Figlio rivelatore di Dio Padre!

Il v. 59 registra infine la reazione violenta dei giudei che chiudendosi ostilmente al Figlio rivelatore del Padre, determinano il suo “nascondersi” ai loro occhi e la sua “uscita” dal tempio.

Tenendo conto del contesto liturgico quaresimale e, letto, simultaneamente con le altre lezioni bibliche oggi proclamate, il brano evangelico ha come fulcro la figura di Abramo che Gesù stesso presenta come prototipo e padre di tutti coloro che accolgono la sua Parola e, perciò, compiono anch’essi l’ “opera” propria di Abramo: la fede!

L’Epistola al riguardo afferma che «figli di Abramo sono quelli che vengono dalla fede» ed ereditano così quella “benedizione” con la quale fu “benedetto” da Dio (cfr. Galati, 3,7-9) e che fluisce su coloro che credono attraverso Cristo crocifisso.

È lui, infatti, che con la sua croce ci libera dalla “maledizione” dovuta all’incredulità e al peccato. Nell’ora della croce il Signore Gesù ha offerto sé stesso a Dio come intercessore a favore degli uomini sui quali, come già su Israele pur liberato dall’Egitto, grava l’“ira” di Dio (Lettura: Esodo 32,10). La sua intercessione, però, diversamente da quella di Mosè in favore del solo popolo d’Israele (Esodo 32,11-13) riguarda l’intera umanità che ieri, come oggi, purtroppo, non tarda “ad allontanarsi dalla via” indicata da Dio (Esodo 32,8).

La Quaresima, pertanto, chiede a tutti noi di riattivare il dono battesimale della “fede” che si poggia esclusivamente su ciò che il Signore Gesù ha compiuto, perché su tutti noi passasse la “benedizione di Abramo” e ricevessimo la promessa dello Spirito, che ci fa “figli” di Dio e ci raduna in quella «moltitudine di popoli, preannunziati al patriarca come sua discendenza» che noi chiamiamo Chiesa (Prefazio I).

Per questo veniamo esortati a fare le “opere” di Abramo che consistono in un reale “ascolto” della Parola, in una sua cordiale “accoglienza” capace di tradursi in una fedele “osservanza” e obbedienza. L’Eucaristia domenicale è il luogo privilegiato per una simile esperienza che, attende, però, di essere prolungata concretamente nella vita di ogni giorno.

È quanto umilmente e fiduciosamente  chiediamo: «O Dio,che per la forza dello Spirito Santo iscrivi indelebilmente nel cuore dei credenti la santità della tua legge, donaci di crescere nella fede, nella speranza e nell’amore perché, conformandoci sempre al tuo volere, ci sia dato di conseguire un giorno la terra della tua promessa» (All’inizio dell’Assemblea Liturgica 2).

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20 marzo 2011 – II domenica di Quaresima


1. La domenica “della Samaritana”  
   

E' così chiamata perché in essa, forse fin dai tempi di sant’Ambrogio, si legge sempre il Vangelo dell’incontro di Gesù con una donna samaritana presso il pozzo di Giacobbe. Il Lezionario prevede: Lettura: Esodo 20,2-24; Salmo 18; Epistola: Efesini 1,15-23; Vangelo: Giovanni 4,5-42. Alla Messa vespertina del sabato, a partire da questa domenica, il Vangelo della risurrezione viene sostituito per tutta la Quaresima dalla Lettura vigiliare. In questa domenica viene letto: Marco 9,2b-10.    


2. Vangelo secondo Giovanni 4,5-42      

In quel tempo. 5Il Signore Gesù giunse a una città della Samaria chiamata Sicar, vicina al terreno che Giacobbe aveva dato a Giuseppe suo figlio; 6qui c'era un pozzo di Giacobbe. Gesù dunque, affaticato per il viaggio, sedeva presso il pozzo. Era circa mezzogiorno. 7Giunge una donna samaritana ad attingere acqua. Le dice Gesù: «Dammi da bere». 8I suoi discepoli erano andati in città a fare provvista di cibi.    
9Allora la donna samaritana gli dice: «Come mai tu, che sei giudeo, chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana?». I Giudei infatti non hanno rapporti con i Samaritani. 10Gesù le risponde: «Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: “Dammi da bere!”, tu avresti chiesto a lui ed egli ti avrebbe dato acqua viva».    
11Gli dice la donna: «Signore, non hai un secchio e il pozzo è profondo; da dove prendi dunque quest’acqua viva? 12Sei tu forse più grande del nostro padre Giacobbe, che ci diede il pozzo e ne bevve lui con i suoi figli e il suo bestiame?». 13Gesù le risponde: «Chiunque beve di quest’acqua avrà di nuovo sete; 14ma chi berrà dell’acqua che io gli darò, non avrà più sete in eterno. Anzi, l'acqua che io gli darò diventerà in lui una sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna». 15Signore – gli dice la donna -, dammi quest’acqua, perché io non abbia più sete e non continui a venire qui ad attingere acqua». 
16Le dice Gesù: «Va' a chiamare tuo marito e ritorna qui». 17Gli risponde la donna: «Io non ho marito». Le dice Gesù: «Hai detto bene: “Io non ho marito”. 18Infatti hai avuto cinque mariti e quello che hai ora non è tuo marito; in questo hai detto il vero». 19Gli replica la donna: «Signore, vedo che tu sei un profeta! 20I nostri padri hanno adorato su questo monte; voi invece dite che è a Gerusalemme il luogo in cui bisogna adorare».      21Gesù le dice: «Credimi, donna, viene l’ora in cui né su questo monte né a Gerusalemme adorerete il Padre. 22Voi adorate ciò che non conoscete, noi adoriamo ciò che conosciamo, perché la salvezza viene dai Giudei. 23Ma viene l’ora – ed è questa – in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità: così infatti il Padre vuole che siano quelli che lo adorano. 24Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorare in spirito e verità». 25Gli rispose la donna: «So che deve venire il Messia, chiamato Cristo: quando egli verrà ci annuncerà ogni cosa». 26Le dice Gesù: «Sono io, che parlo con te».    
27In quel momento giunsero i suoi discepoli e si meravigliavano che parlasse con una donna. Nessuno tuttavia disse:  «Che cosa cerchi?», o: «Di che cosa parli con lei?». 28La donna intanto lasciò la sua anfora, andò in città e disse alla gente: 29«Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto. Che sia lui il Cristo?». 30Uscirono dalla città e andavano da lui.    
31Intanto i discepoli lo pregavano: «Rabbì, mangia». 32Ma egli rispose loro: «Io ho da mangiare un cibo che voi non conoscete». 33E i discepoli si domandavano l’un l’altro: «Qualcuno gli ha forse portato da mangiare?». 34Gesù disse loro: «Il mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera. 35Voi non dite forse: “Ancora quattro mesi e poi viene la mietitura”? Ecco, io vi dico: alzate i vostri occhi e guardate i campi che già biondeggiano per la mietitura. 36Chi miete riceve il salario e raccoglie frutto per la vita eterna, perché chi semina gioisca insieme a chi miete. 37In questo infatti si dimostra vero il proverbio: uno semina e l’altro miete. 38Io vi ho mandati a mietere ciò per cui non avete faticato e voi siete subentrati nella loro fatica».     
39Molti Samaritani di quella città credettero in lui per la parola della donna, che testimoniava: «Mi ha detto tutto quello che ho fatto». 40E quando i Samaritani giunsero da lui, lo pregavano di rimanere da loro ed egli rimase là due giorni. 41Molti di più credettero per la sua parola 42e alla donna dicevano: «Non è più per i tuoi discorsi che noi crediamo, ma perché noi stessi abbiamo udito e sappiamo che questi è veramente il salvatore del mondo».    


3. Commento liturgico-pastorale      

Diamo anzitutto uno sguardo al brano evangelico così come si presenta a una prima osservazione per poi inquadrarlo nel peculiare contesto liturgico quaresimale. Il testo è chiaramente diviso in due grandi sezioni. La prima: vv. 5-26 riporta il dialogo di Gesù con “una donna samaritana” mentre la seconda: vv. 27-42 è incentrata sulla rivelazione dell’“opera” per la quale il Padre ha inviato Gesù nel mondo.

In particolare i vv. 5-7 ambientano la scena in Samaria, una regione considerata “deviata” dalla vera fede di Israele e precisamente presso il pozzo che Giacobbe, il grande patriarca, aveva fatto scavare presso la cittadina di Sicar. L’evangelista sottolinea che Gesù vi arrivò “affaticato per il viaggio” e nell’ora più calda del “mezzogiorno”.

Non meraviglia, perciò, che lui richiedesse da bere alla donna samaritana che, nel frattempo, era giunta al pozzo. I vv. 8-15 riportano, con la risposta della donna, le parole di rivelazione sul dono “dell’acqua viva” capace di togliere la “sete” e diventare, in chi la beve, «una sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna».

Se per Israele “l’acqua viva” simboleggia la divina rivelazione che si riassume nella Legge come ci ricorda la Lettura odierna che riporta il Decalogo dato da Dio a Mosé sul monte Sinai (Esodo 20,2-24), possiamo dire che per noi “l’acqua viva” è la rivelazione fatta da Gesù, superiore a quella della Legge, in grado di spegnere la “sete” più profonda che c’è nel cuore di ogni uomo, la sete di Dio, di aver parte per sempre alla sua vita. è quanto viene autorevolmente detto nella preghiera del Prefazio: «Cristo Signore nostro,... chiedendo da bere a una donna samaritana, le apriva la mente alla fede; desiderando con ardente amore portarla a salvezza, le accendeva nel cuore la sete di Dio».

La prima sezione si chiude ai vv. 16-26 con una svolta nel dialogo tra Gesù e la donna, alla quale viene rivelata la sua vita disordinata e traviata rispetto alla Legge di Dio (v. 18), inducendola, così, a muovere i suoi primi passi nella fede in Gesù riconosciuto come “un profeta” (v. 19). A Lui, uomo ispirato da Dio, pone la questione riguardante il “luogo” dove è possibile incontrare Dio: per i Samaritani era il monte Garizim mentre per i Giudei era il Tempio di Gerusalemme (vv. 20-21).

A questa domanda Gesù risponde con parole di rivelazione di grande permanente attualità e valore (vv. 23-24), con le quali elimina le diatribe legate al “luogo” in cui si deve rendere culto a Dio. Con la sua venuta nel mondo, è “venuta l’ora” in cui il culto divino è sganciato da luoghi e da templi materiali e viene invece compiuto “in spirito e verità” (vv. 23-24) ossia da quanti sono rinati dallo Spirito e si lasciano da lui guidare all’accoglienza di fede della rivelazione portata da Gesù il Messia che, con la sua venuta svelerà ogni cosa (vv. 25-26). La solenne dichiarazione messianica: «Sono io, che parlo con te» chiude il dialogo con la samaritana.

Prende così avvio la seconda sezione (vv. 27-42) inaugurata dall’accorrere a Gesù degli abitanti di Sicar e del dialogo con i discepoli riguardante il suo vero “cibo” che consiste nel compiere la volontà del Padre (vv. 31-34) che lo ha inviato nel mondo per “salvare” il mondo. è questa l’“opera” che il Padre ha affidato a Gesù e alla quale egli ora associa i suoi discepoli con l’invito: «alzate i vostri occhi e guardate i campi che già biondeggiano per la mietitura» e con l’esplicito mandato a “mietere” cioè a raccogliere l’umanità nella “comunione” con Dio qui indicata con l’espressione “vita eterna” (vv. 35-38).

La conclusione (vv. 39-42) fa capire che i Samaritani che credono nel Signore “per la parola della donna” e ancora di più “per la sua parola”, professando la fede in Gesù quale “salvatore del mondo”, sono, in verità, primizie dell’“opera” salvifica commessa da Dio al suo Figlio e da questi ai suoi discepoli e, dunque, ai discepoli di tutti i tempi.

Il contesto quaresimale in cui viene proclamato il brano evangelico induce a porre l’accento sul dono “dell’acqua viva” promessa da Gesù alla samaritana e che rappresenta la rivelazione di Dio che solo il Figlio è in grado di portare in pienezza.

La Scrittura, come sappiamo, indica nella Legge, consegnata da Dio nella sua manifestazione a Mosè sul monte Sinai, l’“acqua viva”. Si tratta certamente di un grande “dono” di Dio al suo popolo, che però impallidisce di fronte alla “profonda conoscenza” di lui recata a noi dal suo Figlio, grazie alla quale ci è possibile «comprendere  quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i santi e qual è la straordinaria grandezza della sua potenza» verso di noi (cfr. Epistola: Efesini 1,18).

Una simile più profonda “conoscenza” di Dio, e del disegno di salvezza e di amore che egli serba nel suo cuore per ogni uomo, realizza la promessa del dono dell’”acqua viva” fatta da Gesù alla samaritana. Questa nel suo continuo andirivieni al “pozzo” rappresenta l’incessante ricerca del cuore umano che desidera la felicità, la vita, che desidera Dio il quale ha già manifestato la sua potenza di amore verso di noi “quando risuscitò dai morti” il suo Figlio, facendolo «sedere alla sua destra nei cieli» ( Efesini 1,20).

Partecipando all’Eucaristia anche noi ritorniamo ogni domenica al “pozzo” che è il Signore crocifisso e con fede riconosciamo: «Dal tuo cuore, Signore Gesù, fiumi d’acqua viva scorreranno. Ascolta pietoso il grido di questo popolo e aprici il tesoro della tua grazia che santifica il cuore dei credenti»(Canto Alla Comunione), grazia che accende il desiderio di Dio, che permette di penetrare sempre di più nel suo mistero ed è per noi fonte di vita “eterna”. Per questo non ci stanchiamo di domandare ogni giorno: «O Gesù, hai detto alla samaritana: “Chi berrà dell’acqua che io darò, non avrà più sete in eterno”. Donaci di quell’acqua, Signore, così berremo e non avremo più sete» (Canto Allo Spezzare del Pane).

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13 marzo 2011 – Prima domenica di Quaresima


1. La domenica all’inizio di Quaresima
     

E' caratterizzata, nella nostra tradizione liturgica ambrosiana, dalla proclamazione evangelica delle tentazioni di Gesù nel deserto secondo il racconto di Matteo. Le lezioni bibliche prese dal Libro II del Lezionario ambrosiano: Mistero della Pasqua del Signore sono: Lettura: Isaia 58,4b-12b; Salmo 102; Epistola: 2Corinzi 4,16b-5,9; Vangelo: Matteo 4,1-11. Alla Messa vespertina del sabato viene proclamato: Marco 16,9-16 quale Vangelo della risurrezione.    


2. Vangelo secondo Matteo 4,1-11      

In quel tempo. 1Il Signore Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto, per essere tentato dal diavolo. 2Dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, alla fine ebbe fame. 3Il tentatore gli si avvicinò e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, dì che queste pietre diventino pane». 4Ma egli rispose: «Sta scritto:
Non di solo pane vivrà l’uomo,
ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio».     5Allora il diavolo lo portò nella città santa, lo pose sul punto più alto del tempio 6e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio. Gettati giù; sta scritto infatti:
Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo
ed essi ti porteranno sulle loro mani
perché il tuo piede non inciampi in una pietra».    
7Gesù gli rispose: «Sta scritto anche:
Non metterai alla prova il Signore Dio tuo».    
8Di nuovo il diavolo lo portò sopra un monte altissimo e gli mostrò tutti i regni del mondo e la loro gloria 9e gli disse: «Tutte queste cose io ti darò se, gettandoti ai miei piedi, mi adorerai». 10Allora  Gesù gli rispose: «Vattene, Satana! Sta scritto infatti: Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto».    
11Allora il diavolo lo lasciò, ed ecco, degli angeli gli si avvicinarono e lo servivano.      


3. Commento liturgico-pastorale      

Il presente brano segue immediatamente il racconto del battesimo al Giordano: Mt 3,13-17 e ad esso si riallaccia ponendo in primo piano l'azione dello Spirito nel “condurre” Gesù nel deserto per andare incontro alla tentazione da parte del “diavolo”, una parola greca che significa: “colui che divide o distoglie” da Dio (v. 1).

Il v. 2, con allusione all’esperienza di Mosè al Sinai (Es 24,18; 34,28) e del profeta Elia nel deserto (1Re 19,8), riferisce che Gesù: «dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, alla fine ebbe fame». Su tale constatazione si iscrive la prima tentazione (vv. 3-4) che potremmo chiamare quella del “pane”. Essa riguarda il “nutrimento” di cui l’uomo ha davvero bisogno per “vivere” e che, stando alla risposta di Gesù al tentatore, presa da Deuteronomio 8,3, consiste in «ogni parola che esce dalla bocca di Dio» e che è per noi custodita e trasmessa nelle Scritture.

La seconda è la tentazione del «punto più alto del tempio» (vv. 5-7) di Gerusalemme, dal quale Gesù viene invitato a gettarsi mettendo alla prova Dio stesso che, stando al Salmo 91,11-12 parzialmente citato dal diavolo, dovrebbe intervenire a sua protezione e custodia. La risposta di Gesù, presa da Deuteronomio 6,16, esclude la pretesa di attendere da Dio un segno prodigioso per credere e obbedirgli.

La terza tentazione è quella del “monte altissimo” (vv. 8-10), dal quale il satana mostra a Gesù il suo regno, ovvero il mondo intero, e si dichiara disposto a cederlo a lui a una condizione: che Gesù volti le spalle a Dio interrompendo così il suo rapporto filiale con lui! Con la sua decisa risposta, presa da Deuteronomio 6,13, Gesù allontana da sé il tentatore e ribadisce la sua piena e definitiva obbedienza al Padre nella quale consiste l’adorazione e il vero culto a Dio.

Il racconto si chiude al v. 11 con il satana che abbandona, sconfitto, il campo e con l’intervento degli “angeli” che si prendono cura di Gesù.

Proclamato all’inizio della Quaresima, il tempo liturgico orientato all’annuale solenne celebrazione della Pasqua, il brano evangelico odierno intende presentare Gesù, il figlio obbediente del Padre, quale modello ed esemplare a cui guardare e da riprodurre nella vita di chi, grazie all’immersione battesimale nella morte del Signore, è rinato alla vita nuova di “figlio” e incorporato nell’unico corpo del Signore che è la Chiesa.

La “tentazione” a cui Gesù si sottopose nel deserto è avvenuta perché tutti trovassimo in lui l’ispiratore delle parole, dei sentimenti e delle azioni da mettere in campo lungo il cammino della nostra vita durante il quale il “nemico” farà di tutto per distrarci dalla “bocca” di Dio, per insinuare il dubbio lacerante sulla sua effettiva bontà e paternità nei nostri riguardi e per indurci a  voltargli le spalle, rifiutando di “adorarlo” e di “servirlo” ossia di prestargli filiale ascolto e obbedienza per adorare e servire gli “idoli” inconsistenti di questo mondo effimero.

Per questo la Quaresima ci propone alcuni “esercizi” spirituali come, ad esempio, il “digiuno” ben conosciuto nella Scrittura e, come abbiamo visto, praticato dal Signore stesso. Esso, per essere “gradito” a Dio non deve limitarsi a una semplice privazione del cibo materiale fine a sé stessa. Il digiuno, in realtà, deve dare l’opportunità di capire fino in fondo le parole del Signore: «Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio».

Al digiuno, inoltre, deve essere data un’anima che, come apprendiamo dalle parole profetiche della Lettura, è la carità così concretamente esemplificata: «sciogliere le catene inique, togliere i legami del giogo, rimandare liberi gli oppressi… nel dividere il pane con l’affamato, nell’introdurre in casa i miseri senza tetto, nel vestire uno che vedi nudo» (Isaia 58,6-7).

Del resto è proprio la carità di Dio a operare “in Cristo” suo Figlio la “riconciliazione” dell’umanità immiserita e umiliata dal peccato, che Dio decide di “non imputare” agli uomini perché di esso, con indicibile amore, si è caricato Gesù (cfr. Epistola: 2Corinzi 5,19b). Il cammino quaresimale verso la Pasqua, diviene così esemplare del cammino dell’intera nostra esistenza.

Per non venir meno e non soccombere alle insidie del “tentatore”. la preghiera liturgica ci esorta a tenere fisso lo sguardo su Gesù nel quale, come diciamo nel Prefazio: «riconosciamo o Padre la tua Parola che ha creato ogni cosa, e in lui ritroviamo il pane vivo e vero che, quaggiù ci sostenta nel faticoso cammino del bene e, lassù, ci sazierà della sua sostanza nell’eternità beata del cielo».

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6 marzo 2011 – Ultima dopo l’Epifania


1. La domenica detta «del perdono»
     

Conclude il tempo liturgico “dopo l'Epifania” e, di fatto, prepara alla Quaresima che avrà come punto focale il mistero pasquale del Signore considerato nel suo primo versante riguardante la sua morte in croce nella quale il “perdono” da lui portato nel mondo è dato per tutti gli uomini che si convertono e credono.    
Il Lezionario propone: Lettura: Osea 1,9a; 2,7a.b-10. 16-18. 21-22; Salmo: 102; Epistola: Romani 8,1-4; Vangelo: Luca 15,11-32.    
Nella Messa vespertina viene proclamato quale Vangelo della risurrezione:  Luca 24,13a.36-48. Le orazioni e i canti della Messa sono quelli della IX Domenica Per annum nel Messale ambrosiano.    


2. Vangelo secondo Luca 15,11-32      

In quel tempo. Il Signore Gesù 11disse ancora: «Un uomo aveva due figli. 12Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. 13Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. 14Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. 15Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. 16Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. 17Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! 18Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; 19non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei salariati”. 20Si alzò e tornò da suo padre. Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. 21Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. 22Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l'anello al dito e i sandali ai piedi. 23Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa.     25Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; 26chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. 27Quello gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. 28Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. 29Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. 30Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale  ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso”. 31Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; 32ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”».    


3. Commento liturgico-pastorale      

E' la terza delle parabole narrate da Gesù per rispondere ai farisei e agli scribi che lo rimproverano per la sua accoglienza e disponibilità verso “i peccatori” con i quali addirittura siede a mensa (Matteo 15,1-2). Le prime due sono rispettivamente quella della “pecora perduta e ritrovata” (vv. 4-7) e della “moneta perduta e ritrovata” (vv. 8-10).

La parabola oggi proclamata, che ha il Padre come protagonista principale, è divisa in due parti. La prima riguarda il “figlio più giovane” prima “perduto” e poi “ritrovato” (vv. 11-24) e la seconda parla del “figlio maggiore” che non si è mai mosso da casa e che, in verità, non si è mai sentito e comportato come vero “figlio” (vv. 25-30). I vv. 31-32, infine, riportano la risposta del Padre, al figlio maggiore, nella quale abbiamo la rivelazione della bontà di Dio nei confronti di tutti gli uomini e, con la quale, Gesù l’inviato di Dio, giustifica il suo atteggiamento misericordioso specialmente verso i “perduti” ossia “i peccatori”.

La parabola prende avvio con la richiesta del figlio minore di avere la parte del patrimonio a lui spettante sulla base delle prescrizioni della Legge (vedi Levitico 27,8-11; e Numeri 36,7-9) e la sua partenza da casa verso “un paese lontano” dove rapidamente esaurisce le sue sostanze conducendo una vita disordinata (vv. 12-13).

I vv. 14-16 segnano il repentino mutamento delle condizioni di vita del giovane che si trova per necessità a doversi occupare di una mandria di porci. Cosa, questa, proibita dalla Legge e segno dell’abiezione più profonda per un giudeo.

L’osservazione riportata al v. 17 è determinante per il profondo cambiamento del cuore del ragazzo.  Finalmente “rientrò” in sé stesso compiendo idealmente il percorso di ritorno alla casa del Padre e  preparandosi convenientemente all’incontro con lui riconoscendo il suo “peccato” (vv. 17-19).

Di qui la decisione di ritornare effettivamente dal Padre (v. 20) il quale addirittura preso da una grande commozione gli va incontro e compie gesti di “riconoscimento” del prodigo come suo “figlio” (lo abbraccia e lo bacia). L’amore straripante del Padre non gli permette neppure di aprire bocca, anzi si manifesta con segni di generosa accoglienza:  il vestito più bello, l’anello, i calzari, il vitello grasso che viene imbandito perché la festa sia piena (vv. 22-23).

Il v. 24 riporta la motivazione di tutto ciò: il figlio che era come “morto” è “tornato in vita”, il figlio che si era “perduto” è stato “ritrovato” e riconsegnato all'amore del Padre.

Nella seconda parte viene descritta la reazione del “figlio maggiore” una volta appreso, si badi non dal Padre, ma da un servo, il motivo della festa (vv. 26-27). Stavolta è lui ad allontanarsi da casa senza curarsi di provocare dolore nel cuore del Padre costretto a uscire incontro a lui e addirittura “a pregarlo” (v. 28). Le sue parole dicono in verità che lui non si è mai veramente considerato “figlio” ponendosi in un rapporto di “servizio” formalmente obbediente non certo dunque filiale con il Padre. Rapporto che, come avviene, dovrebbe essere ricompensato almeno da un “capretto”.

La risposta del Padre vuole rassicurare il figlio maggiore che i suoi sentimenti per lui non sono da meno di quelli riservati al figlio scapestrato e lo invita a far festa, a gioire cioè con lui che ha recuperato un “figlio” al suo amore e lui stesso un “fratello”.

Proclamata in questa domenica che fa da ponte tra il Tempo dopo l’Epifania del Signore e quello di Quaresima, la parabola del Padre buono e dei due figli entrambi “perduti” intende esortare tutti a intraprendere nel prossimo tempo quaresimale, un deciso cammino di conversione e di ritorno a Dio.

Con le sue parole e con i suoi gesti Gesù ci ha con evidente chiarezza fatto comprendere che Dio, il Padre «è buono e grande nell'amore» (Ritornello al Salmo responsoriale) verso tutti, senza eccezione. Non ci sono uomini o donne per quanto lontani e addirittura “perduti” che Dio non tenga sempre nel suo cuore, spiando l’occasione propizia per attirarli nuovamente a sé, per parlare al loro cuore (cfr. Lettura: Osea 2,16) al fine di poterli finalmente annoverare tra i suoi figli.

Del resto, come insegna l’Apostolo, Dio ha già perdonato i nostri peccati, anzi ha fatto sì che «la giustizia della Legge fosse compiuta in noi» perché il nostro e il peccato di tutti egli li ha perdonati una volta «condannato il peccato nella carne» ossia nella persona del suo Figlio fatto uomo in Gesù (cfr. Epistola: Romani, 8,3).

Un simile potente annuncio dell’amore davvero sorprendente di Dio deve essere capace di muovere anche nel nostro cuore quella decisione che ha rappresentato la salvezza per il figlio che era perduto: «Mi alzerò, andrò da mio padre» (Luca 15,18). Egli ci attende attorno alla mensa eucaristica dove: «Gli angeli stanno intorno all’altare e Cristo porge il pane dei santi e il calice di vita a remissione dei peccati» (antifona Alla Comunione) per «purificarci dalle colpe, per infondere vigore nella nostra debolezza e per guidarci verso la gioia del regno eterno» (Orazione Dopo la Comunione) nella sua Casa.

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27 febbraio 2011 – Penultima dopo l’Epifania


1. La domenica detta «della divina clemenza»
     

La tradizione liturgica propria della nostra Chiesa ambrosiana orienta, con le ultime due domeniche del Tempo dopo l’Epifania, alla suprema manifestazione del Signore nell’ora della croce e della risurrezione a cui veniamo preparati con la Quaresima. In questa domenica si pone in primo piano la «divina clemenza» che si rivela nel Signore Gesù, nelle sue parole e nei suoi gesti fino alla croce.

Il Lezionario prevede le seguenti lezioni bibliche: Lettura: Baruc 1,15a; 2,9-15a; Salmo 105; Epistola: Romani 7,1-6a; Vangelo: Giovanni 8,1-11. Nella Messa vespertina del sabato viene proclamato Luca 24,13-35 quale Vangelo della risurrezione. Le orazioni e i canti della Messa sono quelli dell’VIII domenica «Per annum» nel Messale ambrosiano.    


2. Vangelo secondo Giovanni 8,1-11      

In quel tempo. 1Il Signore Gesù si avviò verso il monte degli Ulivi. 2Ma al mattino si recò di nuovo nel tempio e tutto il popolo andava da lui. Ed egli sedette e si mise ad insegnare loro. 3 Allora gli scribi e i farisei gli condussero una donna sorpresa in adulterio, la posero in mezzo e 4gli dissero: «Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. 5Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?». 6Dicevano questo per metterlo alla prova e per avere motivo di accusarlo. Ma Gesù si chinò e si mise a scrivere col dito per terra. 7Tuttavia, poiché insistevano nell’interrogarlo, si alzò e disse loro: «Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei». 8E, chinatosi di nuovo, scriveva per terra. 9Quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani. Lo lasciarono solo, e la donna era là in mezzo. 10Allora Gesù si alzò e le disse: «Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?». 11Ed ella rispose: «Nessuno, Signore». E Gesù disse: «Neanch’io ti condanno; va’  e d’ora in poi non peccare più».       


3. Commento liturgico-pastorale      

I vv. 1-3 servono da raccordo con quanto è stato detto prima a proposito dell’ammirazione della folla per Gesù e della crescente avversione dei capi del popolo nei suoi confronti (Giovanni 7,45-52), ma anche per preparare la scena del presente racconto. Questa è ambientata nel tempio (v. 2), luogo dell’incontro di Dio con il suo popolo e, proprio nel tempio, accorreva “tutto il popolo” per ascoltare l’insegnamento di Gesù.

I vv. 3-6 registrano l’iniziativa malvagia di “scribi e farisei” al fine, come avverte il v. 6a, di mettere Gesù «alla prova o per avere motivo di accusarlo». Viene, perciò, condotta davanti a lui una donna colta in flagrante adulterio. Una colpa, questa, che per le norme contenute nella Legge mosaica (cfr. Esodo 20,14; Levitico 20,10; Deuteronomio 22,22) andava punita senz’altro con la morte per lapidazione. Pena a cui, certo, non poteva sottrarsi quella donna perché presa nell’atto stesso di commettere adulterio.

La domanda posta a Gesù dai suoi avversari (v. 5) era destinata a metterlo in una situazione di autentico disagio. Se Gesù avesse detto una parola di perdono sarebbe palesemente andato contro la Legge squalificandosi, così, come “maestro” in Israele. Se Gesù avesse consentito a condannare a morte la donna avrebbe smentito tutto il suo insegnamento e i suoi atteggiamenti di perdono e di accoglienza verso i “peccatori”.

Il v. 6b pone al centro della scena Gesù mentre compie due gesti misteriosi: «si chinò e si mise a scrivere col dito per terra», gesto che ripete (v. 8) a motivo dell’insistenza dei suoi avversari di ottenere da lui una risposta (v. 7).

La tradizione della Chiesa, così come lo stesso sant’Ambrogio, ha interpretato il gesto misterioso di Gesù di scrivere per terra secondo le parole del profeta Geremia, che a proposito di coloro che si allontanano da Dio afferma che i loro nomi «saranno scritti per terra» (Geremia 17,13). Con questo gesto simbolico Gesù vuole ricordare a tutti i presenti il giudizio di Dio sui “peccatori” ossia su tutti gli uomini che, proprio a motivo del loro peccato, sono destinati a svanire come polvere della terra.

In una parola, Gesù esorta gli accusatori della donna a rientrare in sé stessi e a guardare in faccia alla verità: sono peccatori e, come l’adultera, di per sé meritevoli della giusta condanna di Dio.

È ciò che viene poi chiarito dalle parole stesse di Gesù: «Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei» (v. 7). Con ciò Gesù invita gli accusatori della donna a rendersi conto che «nessun uomo è  giusto davanti a Dio» (Salmo 14,1-3; 53,2-4; Romani 3,9-12.23) e, perciò, tutti sono meritevoli di condanna.

Il v. 9 riporta le reazioni degli scribi e farisei che se ne vanno «cominciando dai più anziani» perché più esperti della miseria e del peccato!

I vv. 10-11 riportano infine il dialogo tra Gesù e l’adultera, rimasta sola davanti a lui, e a lui ella si rimette dicendogli: «Nessuno, Signore». Le parole del Signore: «Neanch’io ti condanno», lasciano intendere che lui è venuto non a condannare, ma a salvare gli uomini, peccatori! Perciò la donna, d’ora in poi, è da Gesù esortata a “non peccare più”, a vivere cioè nella condizione di libertà dalla condanna di morte dovuta per il suo peccato.

Proclamato nel peculiare contesto liturgico che fa da ponte tra la prima manifestazione della divina clemenza e quella suprema della croce, il brano evengelico dispone con il prossimo tempo di Quaresima a guardare alla Pasqua di morte e di risurrezione come al “giudizio” di Dio su tutti gli uomini, senza eccezione sotto il giogo del peccato, da intendere però, non come giudizio di condanna, ma di assoluzione e di perdono.

L’atteggiamento di Gesù nei riguardi della donna adultera è in perfetta sintonia con la rivelazione della misericordia e della clemenza di Dio nei riguardi del suo popolo “adultero” perché traviato dalle perversioni dell’infedeltà e dell’idolatria.

La consapevolezza di Israele testimoniata nel Salmo 105: «Si ricordò della sua alleanza con loro e si mosse a compassione», è riconoscibile nell’invocazione corale della Lettura dove il popolo, in esilio, prendendo coscienza del proprio peccato si appella al proprio Dio: «Allontana da noi la tua collera... Ascolta, Signore, la nostra preghiera, la nostra supplica, liberaci per il tuo amore» (Baruc 2,13-14).

Anche noi, ponendoci davanti a Gesù, mentre apriamo gli occhi sulla nostra reale condizione di peccatori, riconosciamo in lui la divina clemenza che liberandoci dal cerchio mortale delle nostre colpe ci restituisce, come avvenne per l’adultera, a vita nuova.

È ciò che ci dice l’Apostolo: «Anche voi, mediante il corpo di Cristo, siete stati messi a morte quanto alla Legge per appartenere a un altro, cioè a colui che fu risuscitato dai morti, affinché noi portiamo frutti per Dio» (Epistola: Romani 7,4). L’esperienza della “divina clemenza” che si fa concreta per tutti noi nella celebrazione eucaristica, ci restituisce continuamente a vita nuova, ci rende più forti nel perseverare in essa secondo il comando del Signore all’adultera perdonata e ci fa capaci di  portare “frutti per Dio”, primo fra tutti la “clemenza” e la carità verso il nostro prossimo.

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20 febbraio 2011–VII domenica dopo l’Epifania


1. La settima domenica dopo l’Epifania
     

In continuità con le domeniche precedenti insiste sull’“epifania” di Gesù come “maestro” e “medico” mandato dal Padre per liberare l’uomo dal potere malvagio del male e dei demoni. Il Lezionario riporta le seguenti lezioni bibliche: Lettura: Isaia 64,3b-8; Salmo 102; Epistola: Filippesi 2,1-5; Vangelo: Matteo 9,27-35. Alla Messa vespertina del sabato il Vangelo della risurrezione è preso da Giovanni 20,11-18. Le orazioni e i canti della Messa sono quelli della VII Domenica «Per annum» nel Messale ambrosiano.    


2. Vangelo secondo Matteo 9,27-35    
  

In quel tempo. 27Mentre il Signore Gesù si allontanava di là, due ciechi lo seguirono gridando: «Figlio di Davide, abbi pietà di noi!». 28Entrato in casa, i ciechi gli si avvicinarono e Gesù disse loro: «Credete che io possa fare questo?». Gli risposero: «Sì, o Signore!». 29Allora toccò loro gli occhi e disse: «Avvenga per voi secondo la vostra fede». 30E si aprirono loro gli occhi. Quindi Gesù li ammonì dicendo: «Badate che nessuno lo sappia!». 31Ma essi, appena, usciti ne diffusero la notizia in tutta quella regione. 32Usciti costoro, gli presentarono un muto indemoniato. 33E dopo che il demonio fu scacciato, quel muto cominciò a parlare. E le folle, prese da stupore, dicevano: «Non si è mai vista una cosa simile in Israele!». 34Ma i farisei dicevano: «Egli scaccia i demòni per opera del principe dei demòni». 35Gesù percorreva tutte le città e i villaggi, insegnando nelle loro sinagoghe, annunciando il vangelo del Regno e guarendo ogni malattia e ogni infermità.    


3. Commento liturgico-pastorale     
 

Il brano è composto dal racconto della guarigione dei due ciechi (vv.27-31) e del muto indemoniato (vv.32-34) e dal resoconto dell’attività messianica di Gesù (v. 35).

Il racconto della guarigione dei due ciechi si apre al v. 27 con l’implorazione rivolta a Gesù invocato come “Figlio di Davide”. In Israele vi era infatti la convinzione che il Messia sarebbe stato un discendente di Davide secondo la promessa fatta da Dio stesso (cfr. 2Samuele 7,12-16).

All’implorazione Gesù risponde sollecitando la confessione di fede dei ciechi: «Credete che io possa fare questo?» che arriva pronta e inequivocabile: «Sì, Signore» (v. 28). Segue la parola di guarigione: «Avvenga per voi secondo la vostra fede», accompagnata dal gesto di Gesù che «toccò loro gli occhi» (v. 29).

Viene da pensare che Dio, pur sapendo di quali cose abbiamo bisogno prima ancora che gliele chiediamo (cf Matteo 6,8), tuttavia si aspetta che gli rivolgiamo le nostre richieste il cui esaudimento, come ci fanno capire le parole di Gesù ai due ciechi: «Avvenga per voi secondo la vostra fede», è in qualche modo proporzionato proprio alla nostra fede.

Il v. 30 tiene a precisare che «si aprirono i loro occhi» e dunque l’avvenuta guarigione dei ciechi. Il racconto si conclude con l’inutile ingiunzione data da Gesù ai ciechi ormai guariti: «Badate che nessuno lo sappia». Essi non potevano trattenersi dal dire a tutti ciò che il maestro di Nazaret aveva loro fatto.

Il secondo racconto riguarda la guarigione del “muto indemoniato” (vv. 32-34) che, al contrario del precedente racconto, non riporta alcuna richiesta di guarigione trattandosi di un “muto”, né la professione di fede, né parole e gesti compiuti da Gesù. Ci si limita a constatare che: «dopo che il demonio fu scacciato, quel muto cominciò a parlare» (v. 33).

L’accento cade qui, invece, sulla duplice reazione, della folla e dei farisei, davanti a tali prodigi. La gente semplice è presa da stupore ammirato (v. 33b) mentre da parte dei farisei viene insinuata la convinzione che Gesù agisce sotto l’influsso della magia e della stregoneria. Con un simile atteggiamento privo totalmente di “fede” e per giunta blasfemo, i farisei, nella loro chiusura, diventano i prototipi degli increduli, capaci di resistere anche all’azione potente dello Spirito che agisce in Gesù per la salvezza degli uomini.

Il brano si conclude, al v. 35, con una sintetica dichiarazione relativa all’opera evangelizzatrice del Signore portata in ogni città e villaggio e che consiste anzitutto nell’“insegnamento”, ovvero nella spiegazione delle Scritture, nella predicazione e nell’annuncio del “vangelo del Regno” che è presente proprio nella sua persona ed è come illustrato e confermato nella sua opera di guarigione da «ogni malattia e da ogni infermità».

La proclamazione di questa pagina evangelica nel tempo dopo l’Epifania mette in luce ancora una volta come in Gesù, che guarisce i ciechi e libera dalla forza diabolica il muto indemoniato, si rivela e si manifesta la bontà e la grandezza dell’amore di Dio liricamente cantato nel Salmo 102 che ci fa dire più volte: «Il Signore è buono e grande nell’amore».

I due ciechi, il muto indemoniato e i guariti da “ogni malattia e ogni infermità” in realtà rappresentano tutti gli uomini, di tutti i tempie di tutte le latitudini, di fatto, in “balia delle loro iniquità” e di oscure forze demoniache e ai quali ben si addicono le parole profetiche della Lettura: «Siamo divenuti tutti come una cosa impura, e come panno immondo sono tutti i nostri atti di giustizia; tutti siamo avvizziti come foglie, le nostre iniquità ci hanno portato via come il vento» (Isaia 64,5).

Il pronto intervento di Gesù che fa seguito all’invocazione dei due ciechi: «Figlio di Davide, abbi pietà di noi», ci dice che è Gesù la risposta di salvezza che Dio dà, una volta per tutte, agli uomini che, presa coscienza della loro triste situazione, gli dicono: «Guarda: tutti siamo tuo popolo» (Isaia 64, 8).

Questa opera di guarigione e di salvezza il Signore Gesù continua a compierla nella sua Chiesa che, portando in sé «gli stessi sentimenti di Cristo Gesù» (Epistola: Filippesi 2,5) nei confronti degli uomini, continua a recare ovunque l’annunzio del vangelo del Regno e a guarire ogni malattia e infermità con il sacramento dell’amore del Signore: il suo corpo e il suo sangue.

Ogni uomo, perciò, può dire in tutta verità: «Canterò senza fine la pietà del Signore. Con la mia bocca annunzierò a tutte le genti la tua verità» (Canto Allo Spezzare del Pane).

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13 febbraio 2011 – VI domenica dopo l’Epifania


1. La sesta domenica dopo l'Epifania
     

Nel presentare ancora una volta l’attività taumaturgica del Signore si insiste sulla dimensione “epifanica” di tale attività. Essa, infatti, manifesta il volto di colui che è venuto dal Cielo per “fare del bene” a tutta l’umanità. Vengono, perciò, oggi proclamate le seguenti lezioni della Sacra Scrittura: Lettura: 1Samuele 21,2-6a.7ab; Salmo 42; Epistola: Ebrei 4,14-16; Vangelo: Matteo 12,9b-21. Come Vangelo della risurrezione nella Messa vespertina del sabato viene letto: Matteo 28,8-10. Le orazioni e i canti per la Messa sono quelli della VI Domenica “Per annum” nel Messale ambrosiano.    


2. Vangelo secondo Matteo 12,9b-21
     

In quel tempo. 9Il Signore Gesù andò nella sinagoga; 10ed ecco un uomo che aveva una mano paralizzata. Per accusarlo, domandarono a Gesù: «è lecito guarire in giorno di sabato?». 11Ed egli rispose loro: «Chi di voi, se possiede una pecora e questa, in giorno di sabato, cade in un fosso,  non l’afferra e la tira fuori? 12Ora, un uomo vale ben più di una pecora! Perciò è lecito in giorno di sabato fare del bene». 13E disse all’uomo: «Tendi la tua mano». Egli la tese e quella ritornò sana come l’altra. 14Allora i farisei uscirono e tennero consiglio contro di lui per farlo morire.    
15Gesù però, avendolo saputo, si allontanò di là. Molti lo seguirono ed egli li guarì tutti 16e impose loro di non divulgarlo, 17perchè si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta Isaia:   
18«Ecco il mio servo, che io ho scelto;
il mio amato, nel quale ho posto il mio compiacimento.
Porrò il mio spirito sopra di lui
e annuncerà alle nazioni la giustizia.
19Non contesterà né griderà
né si udrà nelle piazze la sua voce.
20Non spezzerà una canna già incrinata,
non spegnerà una fiamma smorta,
finché non abbia fatto trionfare la giustizia;
21nel suo nome spereranno le nazioni».
   


3.Commento liturgico-pastorale
     

Il testo evangelico è chiaramente diviso in due parti: vv. 9-14 e vv. 15-21. La prima parte riporta sostanzialmente la guarigione di un uomo con una “mano paralizzata” compiuta da Gesù in una sinagoga in giorno di sabato. Il racconto perciò, a ben guardare, si sviluppa proprio attorno alla domanda posta a Gesù dai farisei:  «è lecito guarire in giorno di sabato?» (v. 10).

Il sabato, com’è noto, è uno dei pilastri portanti di tutta la concezione religiosa di Israele. Esso fa parte della Legge data da Dio a Mosè e consiste in un giorno di riposo ad imitazione di ciò che Dio stesso fece al termine dei sei giorni della creazione. Il sabato, inoltre, è destinato al culto da rendere a Dio e, perciò, è un giorno sacro.

Con la sua risposta (vv. 11-12) Gesù, mentre sottolinea il primato dell’uomo su ogni altra creatura, afferma di voler sempre anteporre il “fare del bene” a ogni altra norma per quanto sacra qual è, appunto, l’osservanza del sabato.

La Scrittura, del resto, conosce e afferma la prevalenza del “fare del bene” sull’osservanza di norme religioso-cultuali. E il caso narrato nella Lettura: il sacerdote Achimélec non esita a dare a Davide e ai suoi accompagnatori affamati, i “pani sacri” che non era lecito a nessuno mangiare se non ai soli sacerdoti (1Samuele 21,7). Non è evidentemente questa la linea dei farisei i quali, infatti, davanti al comportamento di Gesù giudicato dissacrante: «tennero consiglio contro di lui per farlo morire» (v. 14).

La seconda parte del nostro brano, dopo aver detto come Gesù si sottrae alla polemica continuando però nella sua attività di “guarigione”, è come occupata dalla lunga citazione di Isaia  42,1-4 che viene qui trascritta ai vv. 18-21 e riguardante la peculiare modalità nella quale Gesù vive il suo ministero messianico: egli viene nel mondo a portare il “giudizio” a tutte le genti, ma il suo non sarà un giudizio di condanna bensì di salvezza! Il giudizio di condanna lo prenderà su di sé nell’ora della croce così che per gli uomini il giudizio sarà di salvezza.

Per questo egli si presenta come il Messia “mite”, il quale «non contesterà né griderà né si udrà nelle piazze la sua voce. Non spezzerà una canna già incrinata, non spegnerà una fiamma smorta». Anzi, proprio perché toglie di mezzo il giudizio di condanna, proprio perché mostra di saper «prendere parte alle nostre debolezze» (Epistola: Ebrei 5,15) in lui potranno davvero «sperare tutte le nazioni» (v. 21).

Proclamato in questi giorni del tempo liturgico che si prefigge di far risaltare i diversi aspetti dell’Epifania del Signore, il brano esalta l’attività taumaturgica nella quale il Signore rivela la sua bontà e il suo amore verso tutti gli uomini e mostra la modalità specifica nella quale compie la missione ricevuta dal Padre con la sua venuta in questo mondo: prendere parte alle debolezze dell’uomo, anzi, assumerle nella sua persona, per guarire e sollevare ogni uomo dall’oppressione del male e salvarlo dal “giudizio”.

Ben a ragione, perciò, possiamo tutti sperare in lui facendo nostre le parole del canto all’Ingresso: «Dalla mia angoscia ho invocato il Signore ed egli mi ha ascoltato. Ho gridato dal fondo dell’abisso e tu, o Dio, hai udito la mia voce. So che tu sei un Dio clemente, paziente e misericordioso e perdoni i nostri peccati».

Tutto ciò induce la Chiesa, ogni comunità e ogni fedele a riflettere attentamente sul proprio modo di porsi di fronte all’uomo d’oggi che appare come “paralizzato” e “indebolito” all’estremo dall’incredulità, dall’indifferenza, dal peccato. A imitazione di Cristo Signore occorre senza dubbio guardare in faccia il male che affligge l’uomo in atteggiamento, però, di continua paziente e premurosa accoglienza che, sola, è in grado di estendere l’opera di salvezza compiuta dal Signore quando, sulla croce, si caricò di tutte le “debolezze” dell’uomo per farlo entrare in quel “riposo” che non dura lo spazio di un giorno, ma che è quello proprio della felicità eterna.

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6 febbraio 2011 – V Domenica dopo l'Epifania


1. La quinta domenica dopo l'Epifania
     

Intende evidenziare come nel suo Figlio fatto uomo Dio manifesta il suo disegno di universale salvezza. Il Lezionario prevede: Lettura: Isaia 66,18b-22; Salmo 32; Epistola: Romani 4,13-17; Vangelo: Giovanni 4,46-54. Alla Messa vespertina del sabato viene proclamato Giovanni 20,1-8 quale Vangelo della risurrezione. I canti e le orazioni della Messa sono quelli della V Domenica «Per annum» nel Messale ambrosiano.  


2. Vangelo secondo Giovanni 4,46-54      

In quel tempo. 46Il Signore Gesù andò di nuovo a Cana di Galilea, dove aveva cambiato l’acqua in vino. Vi era un funzionario del re, che aveva un figlio malato a Cafàrnao. 47Costui, udito che Gesù era venuto dalla Giudea in Galilea, si recò da lui e gli chiedeva di scendere a guarire suo figlio, perché stava per morire. 48Gesù gli disse: «Se non vedete segni e prodigi, voi non credete». 49Il funzionario del re gli disse: «Signore, scendi prima che il mio bambino muoia». 50Gesù gli rispose: «Va’, tuo figlio vive». Quell'uomo credette alla parola che Gesù gli aveva detto e si mise in cammino. 51Proprio mentre scendeva, gli vennero incontro i suoi servi a dirgli: «Tuo figlio vive!». 52Volle sapere da loro a che ora avesse cominciato a star meglio. Gli dissero: «Ieri, un’ora dopo mezzogiorno, la febbre lo ha lasciato». 53Il padre riconobbe che proprio a quell’ora Gesù gli aveva detto: «Tuo figlio vive», e credette lui con tutta la sua famiglia. 54Questo fu il secondo segno, che Gesù fece quando tornò dalla Giudea in Galilea.    


3. Commento liturgico-pastorale      

Il brano evangelico si presenta diviso in due parti: i vv. 46-50 riportano il dialogo tra Gesù e “un funzionario del re”, ovvero di Erode Antipa, tetrarca di Galilea, con la richiesta della guarigione del figlio in fin di vita; e i vv. 51-53, con la constatazione della guarigione e dell’ora in cui è avvenuta.

Il brano, con il v. 46, è ambientato a Cana, località della quale l’Evangelista aveva già parlato a proposito del banchetto di nozze nel quale Gesù «aveva cambiato l’acqua in vino» (Giovanni 2,1-11) e viene concluso al v. 54 con la precisazione che la guarigione del bambino è il “secondo segno” compiuto da Gesù al fine di rivelare la sua “identità”.     Risulta sorprendente, a prima vista, la risposta di Gesù alla richiesta del funzionario del re: «Se non vedete segni e prodigi, voi non credete» (v. 48). In realtà Gesù  vuole condurre il suo interlocutore ad andare oltre il prodigio richiesto, per comprendere che, più della guarigione fisica del figlio, è importante per lui “credere”.

La risposta del padre addolorato non riesce ancora a fare un simile passo, egli infatti insiste: «Signore, scendi prima che il mio bambino muoia». La solenne affermazione: «Va’, tuo figlio vive» (v. 50a ) vuole indicare la piena sovranità del Signore sulla morte e sulla vita e, dunque, è sufficiente la sua parola, a far vivere il bambino.

Il v. 50 evidenzia la disponibilità del “funzionario del re” a pervenire a una fede vera in Gesù: lui crede già alla sua parola! Per questo egli “si mise in cammino” certo che questa si sarebbe realizzata.

I vv. 51-53 spostano il racconto lontano da Gesù e dicono come, in effetti, si è avverata la sua parola. Viene perciò riportato il dialogo tra il funzionario e i suoi servi che gli riferiscono della guarigione del bambino e la reiterata sottolineatura della perfetta coincidenza tra l’ora in cui Gesù pronunzia le parole: «Va’, tuo figlio vive» e l’effettiva guarigione del bambino. Con questo l’Evangelista ci fa capire che al centro, più che il miracolo, vi è la parola del Signore capace di dare “vita”.

La reazione del funzionario «e credette lui con tutta la sua famiglia» (v 53) dice come Gesù ha ottenuto ciò che cercava compiendo il miracolo: la fede in lui! Il miracolo, perciò, è il “segno” che la parola di Gesù è capace di far passare dalla morte alla vita. Ciò che conta è pervenire alla fede perfetta in Gesù e nella sua parola che dona la vita in pienezza.

Letto nel tempo dell’Epifania, il testo evangelico permette un’ulteriore proclamazione della universalità dell’opera di salvezza portata dal Signore Gesù, già evidenziata nei Magi che accorrono a lui guidati dalla stella e ora dal “funzionario del re” che la tradizione vuole di origine pagana.

Con ciò si realizza quanto era stato detto dal profeta Isaia a proposito della volontà salvifica di Dio: «Io verrò a radunare tutte le genti e tutte le lingue; essi verranno e vedranno la mia gloria» (Lettura: Isaia 66,18b). La “gloria di Dio”, lo sappiamo, risplende nel suo Figlio Gesù che è venuto a portare a tutti gli uomini la vita, strappandoli, come fa con il “bambino malato”, dal potere della morte, e a radunarli attorno a sé in un unico popolo, quello amato da Dio, e facendoli “eredi del mondo” (Epistola: Romani 4,13).

A essi, a noi, come a ogni uomo, è richiesta la fede, quella di Abramo che «credette a Dio che dà vita ai morti e chiama all’esistenza le cose che non esistono» (Romani 4,17) o quella del “funzionario del re” che credendo nella Parola ottiene la guarigione del suo figlio. L’Epifania del Signore apre le nostre menti e i nostri cuori alle grandi cose di Dio, ai suoi mirabili progetti di salvezza che riguardano tutti gli uomini indistintamente. A essi, infatti, ha inviato Gesù il Figlio portatore della vita, quella vera ed eterna, che è comunione con Dio donata, già da ora, a chi “crede”.

L’ascolto della Parola e la partecipazione ai divini misteri nei quali si attua sempre la salvezza in Cristo, sprona ognuno di noi a diventare cantore della grandezza e della santità di Dio, offrendo il nostro contributo perché tutti possano giungere a quella “fede” che consente di avere parte alle promesse e all’eredità di Dio.

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30 gennaio 2010


30 gennaio 2010 – Santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe  


1. L'ultima domenica di Gennaio
     

È riservata, nella nostra tradizione liturgica ambrosiana, alla celebrazione della festa della Santa Famiglia  di Nazaret.    
Il Lezionario prevede le seguenti lezioni bibliche: Lettura: Siracide 7,27-30.32-36; Salmo 127; Epistola: Colossesi 3,12-21; Vangelo: Luca 2,22-33. Alla Messa vespertina del sabato viene proclamato Giovanni 20,11-18 quale Vangelo della risurrezione.    


2. Vangelo secondo Luca 2,22-33      

In quel tempo. 22Quando furono compiuti i giorni della loro purificazione rituale, secondo la legge di Mosè, portarono il bambino a Gerusalemme per presentarlo al Signore – 23com’è scritto nella Legge del Signore: Ogni maschio primogenito sarà sacro al Signore – 24e per offrire in sacrificio una coppia di tortore o due giovani colombi, come prescrive la legge del Signore.    
25Ora a Gerusalemme c’era un uomo di nome Simeone, uomo giusto e pio, che aspettava la consolazione d’Israele, e lo Spirito Santo era su di lui. 26Lo Spirito Santo gli aveva preannunciato che non avrebbe visto la morte senza prima aver veduto il Cristo del Signore. 27Mosso dallo Spirito, si recò al tempio e, mentre i genitori vi portavano il bambino Gesù per fare ciò che la Legge prescriveva a suo riguardo, 28anch’egli lo accolse tra le braccia e benedisse Dio, dicendo:
29«Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo vada in pace, secondo la tua parola,
30 perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza,
31preparata da te davanti a tutti i popoli:
32luce per rivelarti alle genti e gloria del tuo popolo, Israele».    
33Il padre e la madre di Gesù si stupivano delle cose che si dicevano di lui.  
 


3. Commento liturgico-pastorale
     

Il brano evangelico, inserito nel racconto della natività e dell’infanzia di Gesù, in un primo momento (vv. 22-24) riferisce i passi compiuti da Maria e da Giuseppe in ottemperanza alla “Legge di Mosè” che prescrivono riti di “purificazione” dopo il parto riguardanti la madre (cfr. Levitico 12,2-5) e l’offerta a Dio di Gesù, il loro figlio “primogenito” (cfr. Esodo 13,2). Riti che si compiono nel tempio di Gerusalemme che è il luogo eletto da Dio per significare la sua presenza in mezzo al suo popolo.

Segue l’incontro con Simeone del quale viene prima tracciato un profilo (vv. 25-26) come «uomo giusto e timorato di Dio» che aspettava “il conforto di Israele” ossia aperto e disponibile ad accogliere la visita di Dio a beneficio del suo popolo. Egli è soprattutto un “profeta” come insinua l’espressione: «lo Spirito Santo era su di lui» e porta nel cuore la rivelazione dell’imminente venuta del Messia.

I vv. 27-32 riportano i gesti e le parole pronunziate da Simeone in un contesto di “benedizione” del Signore e mentre teneva tra le sue braccia il bambino Gesù che riconosce come la “salvezza” personificata e come “luce” destinata a far uscire tutte le genti della terra dall’oscurità dell’incredulità e dell’idolatria e come “gloria”, ossia rivelazione di Dio al popolo di Israele.

Il v. 33, infine, registra la reazione “stupita” di Maria e di Giuseppe davanti a ciò che hanno visto e ascoltato.

Collocata nel peculiare contesto del tempo dopo l’Epifania la presente festività liturgica vuole certamente mettere in luce il carattere di esemplarità che la Famiglia di Nazaret riveste per tutte le nostre famiglie, ma sottolinea ancora una volta l’epifania del Figlio di Dio fatto uomo.

Egli, «svuotandosi della sua gloria divina», si fa in tutto uno di noi a cominciare dal mettersi totalmente nelle mani di un papà e di una mamma come avviene per ognuno di noi. I suoi primi giorni sono contrassegnati da un totale abbandono alla volontà di Dio, inizialmente manifestata nella “Legge di Mosè” e che contraddistinguerà tutta la sua esistenza fino alla fine, fino alla sua morte di  croce.

Lui, che è il Figlio dell’Altissimo, viene “riscattato” con una «coppia di tortore o due giovani colombe», perché i suoi genitori non sono in grado di offrire un “agnello di un anno” come prescrive il libro del Levitico 12,6. Tutto ciò rinnova nella Chiesa la grazia del Natale come apparizione nel mondo della “salvezza”, della “luce”, della “gloria” e della “consolazione” di Dio donata a tutti gli uomini.

Dalla Famiglia di Nazaret, inoltre, nella quale Dio ha «collocato le arcane primizie della redenzione del mondo» (Prefazio) impariamo a fondare le nostre famiglie sull’accoglienza e sull’obbedienza alla Legge del Signore che è tutta riassunta nel precetto della carità così declinata dall’apostolo Paolo: «rivestitevi dunque di sentimenti di tenerezza, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di magnanimità, sopportandovi a vicenda e perdonandovi gli uni gli altri, se qualcuno avesse di che lamentarsi nei riguardi di un altro» (Epistola, Colossesi, 3,12-13).

Tale precetto esige naturalmente l’osservanza di ciò che è stabilito da Dio nel cuore di tutti i figli verso i loro genitori: «Onora tuo padre con tutto il cuore e non dimenticare le doglie di tua madre. Ricorda che essi ti hanno generato: che cosa darai loro in cambio di quanto ti hanno dato?» (Lettura Siracide, 7,27-28).

Sappiamo bene che tale visione sulla famiglia fatica a conservarsi anche nelle nostre comunità ecclesiali. La tentazione di sganciare la famiglia dai disegni fondativi di Dio e dalla sua volontà su di essa fa breccia anche tra di noi. Occorre guardare, perciò, alla Famiglia di Nazaret, penetrare nel suo “segreto” e fare di tutto per rimanere fondati e fermi sulla divina volontà.

Per questo così preghiamo all’inizio dell’Assemblea Liturgica: «O Dio onnipotente, che hai mandato tra noi il tuo unico e dilettissimo Figlio a santificare i dolci affetti della famiglia umana e a donare, con la sua immacolata condotta e con le virtù di Maria e di Giuseppe, un modello sublime di vita familiare, ascolta la preghiera della tua Chiesa: concedi ai coniugi le grazie della loro missione di sposi e di educatori e insegna ai figli l’obbedienza che nasce dall’amore».

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23 gennaio 2011 – III Domenica dopo l’Epifania


1. La domenica dei “pani”  
   

Il miracolo dei pani, narrato da tutti gli evangelisti, è interpretato dalla nostra tradizione liturgica come uno dei momenti “epifanici” del mistero di Cristo. I brani biblici oggi proclamati sono: Lettura: Esodo 16,2-7a.13b-18; Salmo 104; Epistola: 2Corinzi 8,7-15; Vangelo: Luca 9,10b-17. Nella Messa vespertina del sabato il Vangelo della risurrezione è preso da: Marco 16,1-8a.    


2. Vangelo secondo Luca 9,10b-17      

In quel tempo. Il Signore Gesù 10bprese i suoi discepoli con sé e si ritirò in disparte, verso una città chiamata Betsàida. 11Ma le folle vennero a saperlo e lo seguirono. Egli le accolse e prese a parlare loro del regno di Dio e a guarire quanti avevano bisogno di cure.    
12Il giorno cominciava a declinare e i Dodici gli si avvicinarono dicendo: «Congeda la folla perché vada nei villaggi e nelle campagne dei dintorni, per alloggiare e trovare cibo: qui siamo in una zona deserta». 13Gesù disse loro: «Voi stessi date loro da mangiare». Ma essi risposero: «Non abbiamo che cinque pani e due pesci, a meno che non andiamo noi a comprare viveri per tutta questa gente». 14C'erano infatti circa cinquemila uomini. Egli disse ai suoi discepoli: «Fateli sedere a gruppi di cinquanta circa». 15Fecero così e li fecero sedere tutti quanti. 16Egli prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò su di essi la benedizione, li spezzò e li dava ai discepoli perché li distribuissero alla folla. 17Tutti mangiarono a sazietà e furono portati via i pezzi loro avanzati: dodici ceste. 
   


3. Commento liturgico-pastorale      

Il brano evangelico, nel versetto iniziale che non viene letto: «Al loro ritorno, gli apostoli raccontarono a Gesù tutto quello che avevano fatto» (v. 10a), si rifà a Luca 9,1-6 riguardante l’invio in missione dei dodici apostoli da parte di Gesù.

I vv. 10-11a rappresentano l’introduzione del racconto che vede Gesù invitare i suoi apostoli a ritirarsi “in disparte” dopo la loro attività missionaria. Si direbbe invano, perché la folla continuava a seguirli.

Il v. 11a sottolinea con il verbo “le accolse” la premura del Signore verso quanti lo seguono. Di essi si prende cura parlando «loro del regno di Dio», in qualche modo reso riconoscibile nella disponibilità di Gesù «a guarire quanti avevano bisogno di cure».

Il v. 12 nel dare ragguagli sull’ora, quella del tramonto, mette in campo i Dodici che si preoccupano della necessità della gente che li segue di trovare un alloggio per la notte e dei necessari rifornimenti di cibo con la precisazione «qui siamo in una zona deserta».

Segue, ai vv. 13-15, il dialogo tra Gesù e i discepoli avviato dall’ordine sorprendente ed incomprensibile dato da Gesù: «Voi stessi date loro da mangiare». La risposta mette in luce l’esiguità di ciò che essi hanno a disposizione: «cinque pani e due pesci» se messa in rapporto all’enorme numero di persone da sfamare: “cinquemila uomini” che vengono fatti accomodare per terra «a gruppi di cinquanta circa».

Il v. 16 che allude al racconto della cena rappresenta il centro del racconto occupato dal solo Gesù! Lui è il protagonista dei “gesti”: «prese i cinque pani e i due pesci» e «alzò gli occhi al cielo»; e delle parole di lode e di esaltazione di Dio: «recitò su di essi la benedizione»; e, ancora, del gesto importante, quello di “spezzare” i pani e di “darli” ai discepoli, i quali sono ora coinvolti nel distribuirli alla folla.

Con ciò si sottolinea ancora una volta, come già al v. 12, il ruolo di mediazione e la funzione di servizio dei Dodici che anticipa quello che dovranno assumere dopo la morte e la risurrezione del Maestro.

Il brano si chiude al v. 17 con le osservazioni relative all’abbondanza del cibo imbandito dal Signore. Non solo «tutti mangiarono a sazietà» ma addirittura, con i pezzi avanzati, si riempirono “dodici ceste” ad indicare, con ciò, la straordinaria grandezza di Dio che in Cristo, suo Figlio, viene incontro con sovrabbondanza e in modo definitivo, alle necessità degli uomini. “Sovrabbondanza”, quella di Dio, che sopravanza e si distingue da ogni altra abbondanza terrena.

Proclamato nel presente contesto liturgico dell’Epifania del Signore il brano evangelico mette in luce come Gesù, nel “pane” donato alla folla che lo segue, porta a compimento quanto è stato profeticamente annunziato nella «cosa fine e granulosa, minuta come è la brina sulla terra» e che gli Israeliti, in marcia nel deserto, chiamarono “manna” (Lettura: Esodo 16).

In verità Gesù non solo è il vero Mosè che ottiene da Dio il “pane” come cibo per il popolo affamato ma è lui stesso in grado di donare il nutrimento a quanti lo seguono e di donarlo in misura sovrabbondante.

Anzi, come sappiamo, è Gesù stesso il “pane” che viene dal Cielo nella donazione senza misura fatta di sé, nell’imminenza della sua morte. In lui, nel suo agire, si manifesta la grandezza dell’amore di Dio per tutti, così cantato nel Prefazio: «è giusto benedirti in ogni tempo perché da te ci viene ogni alito di vita, da te ci è data ogni capacità di agire, da te dipende tutta la nostra esistenza. Nessun momento mai trascorre senza i doni del tuo amore, ma in questi giorni, dopo che abbiamo rivissuto la venuta tra noi del Signore Gesù e tutti i prodigi della redenzione, si fa più chiara e viva la coscienza delle passate gioie e dei beni presenti».

Posti davanti a un così traboccante dono dell’amore del Signore che, venendo nel mondo, «da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà» (Epistola: 2Corinzi 8,9), impariamo da lui a fare altrettanto con il nostro prossimo, usando generosa carità, specialmente verso i poveri, i quali, spesso sono ricchi di fede e di grande umanità.

A questo, infatti, ci esorta l’Apostolo: «Per il momento la vostra abbondanza supplisca alla loro indigenza, perché anche la loro abbondanza supplisca alla vostra indigenza» (v. 14). è quanto domandiamo nell’orazione Dopo la Comunione: «Tu che ci nutri e ci rinnovi, o Dio, con la sublimità di questi misteri di grazia, disponi i tuoi fedeli a rendere operosa nella vita la ricchezza della loro divina efficacia».

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