di Don Alberto Fusi

In queste pagine potete trovare il commento alla liturgia domenicale e festiva secondo il RITO AMBROSIANO, curata da don Alberto Fusi.

 

10 ottobre 2010


1. La sesta domenica “dopo il martirio” di san Giovanni il Precursore      


Mette in rilievo la continuata presenza del Signore nella sua Chiesa mediante la missione affidata ai suoi “inviati”. Il Lezionario prevede i seguenti brani della Scrittura: Lettura: 1Re 17,6-16; Salmo 14; Epistola: Ebrei 13,1-8; Vangelo: Matteo 10,40-42. Il Vangelo della Risurrezione, da proclamare nella Messa vigiliare del sabato, è preso da Luca 24,13b.36-48. Le orazioni e i canti per la Messa sono quelli della XXVIII domenica del Tempo “per annum” del Messale ambrosiano.    


2. Vangelo secondo Matteo 10,40-42     

In quel tempo. Il Signore Gesù disse: 40«Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato. 41Chi accoglie un profeta perché è un profeta, avrà la ricompensa del profeta, e chi accoglie un giusto perché è un giusto, avrà la ricompensa del giusto. 42Chi avrà dato da bere anche solo un bicchiere d’acqua fresca a uno di questi piccoli perché è un discepolo, in verità io vi dico: non perderà la sua ricompensa».    


3. Commento liturgico-pastorale
     

Il brano evangelico segna la conclusione del “discorso della missione” (Matteo 10,5-42), incentrata sull’accoglienza degli inviati per la predicazione del Vangelo. In particolare il v 40 riporta un “detto” di Gesù rivolto proprio agli apostoli, suoi inviati, nei quali si fa presente lui stesso e, tramite lui, colui che lo ha “mandato”, Dio!    
Il v 41 contiene il “detto” di Gesù rivolto a quanti accolgono i suoi messaggeri promettendo loro la stessa “ricompensa” data a essi. Il v 42, infine, riferisce la promessa della “ricompensa” a quanti accoglieranno “questi piccoli” ossia poveri, perseguitati, emarginati, proprio perché suoi “discepoli”.    
I testi biblici di questa domenica convergono nell’evidenziare come è Dio stesso e, di conseguenza, il Signore Gesù a farsi presente nel suo popolo e ora, nella Chiesa, attraverso il servizio “missionario” compiuto da qualificati suoi “invitati”.    
I medesimi testi sono inoltre concordi nel sottolineare l’esigenza di “accogliere” tali “inviati”. Essi, in realtà, come i profeti, preparano la venuta di Gesù Cristo, il Figlio “mandato” dal Padre o, come nel caso degli apostoli, sono mandati da Gesù a predicare il suo Vangelo di salvezza a partire dalla comunità stessa del Signore, dalla Chiesa.    
Alla Chiesa Gesù insegna ad “accogliere” i suoi messaggeri, ovvero quanti prolungano la sua presenza, con un’accoglienza che non si limiti alla pura ospitalità, per quanto premurosa, ma con un’accoglienza che dica accettazione del messaggio che essi trasmettono. 
  
La Sacra Scrittura ha in grande onore e pone in grande rilievo l’“ospitalità” accordata specialmente ai servi di Dio. La Lettura, in proposito, propone l’esempio della «vedova di Sarepta di Sidone» che non esita ad accogliere il profeta Elia e a mettere a sua disposizione tutto quanto le era rimasto per sopravvivere con suo figlio (1Re 17,12).     Anche l’Epistola sottolinea, con riferimento all’accoglienza riservata da Abramo ai tre misteriosi personaggi presso le querce di Mamre (Genesi 18,1-4), come alcuni praticando l’ospitalità «senza saperlo hanno accolto degli angeli» (Ebrei 13,2), ovvero, messaggeri celesti. Nei messaggeri e inviati a portare la Parola i credenti sono perciò esortati da Gesù ad “accogliere” lui stesso e colui che lo ha inviato Dio il Padre.
   
Tale ospitalità verso i suoi messaggeri è a Dio molto gradita. Egli non lascerà senza “ricompensa” anche i più semplici e umili gesti di accoglienza come offrire «anche solo un bicchiere d’acqua fresca» soprattutto ai “piccoli” ossia a quei membri della comunità che trasmettono la sua Parola e rendono al vivo la persona del Signore Gesù non tanto con la predicazione ma con la loro stessa vita contrassegnata da povertà materiale e da marginalità.    
La vedova di Sarepta come “ricompensa” dell’ospitalità data a Elia ottenne che la «farina della giara non venne meno e l’orcio dell’olio non diminuì» (1Re 17,16). Di lei e di suo figlio si prese cioè cura Dio stesso come fece con il profeta Elia per il quale dispose che “i corvi” gli portassero mattina e sera “pane e carne” (1Re 17,6).  
 
Chi accoglie il messaggero del Vangelo sia esso un “profeta”, un “giusto”, ovvero “uno di questi piccoli” che la lettera agli Ebrei individua nei “carcerati” e nei “maltrattati” (Ebrei 13,3), in quanto “discepoli” e, perciò, immagine di Gesù maltrattato e rifiutato come inviato del Padre, riceverà la “ricompensa”. 
  
Questa consiste nella premurosa vicinanza di Dio da lui stesso assicurata: «Non ti lascerò e non ti abbandonerò» (v 5) e così espressa nel Salmo 4: «Il Signore fa prodigi per il suo fedele; il Signore mi ascolta quando lo invoco», ma specialmente  nella partecipazione alla salvezza e alla vita divina che è la ricompensa spettante ai “profeti”, ai “giusti” e a “questi piccoli”.

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3 ottobre 2010

1. La quinta domenica “dopo il martirio” di S. Giovanni il Precursore

Presenta, nella carità, il cuore dell’insegnamento del Signore, che la Chiesa dovrà trasmettere e testimoniare lungo i secoli. Vengono oggi proclamate le seguenti lezioni bibliche: Lettura: Isaia 56,1-7; Salmo 118; Epistola: Romani 15,2-7; Vangelo: Luca 6,27-38. Alla Messa vigiliare del sabato viene letto Luca 24,13-35, quale Vangelo della Risurrezione. Le orazioni e i canti per la Messa sono quelli della XXVII domenica del Tempo “per annum” nel Messale ambrosiano.


2. Vangelo secondo Luca 6,27-38

In quel tempo. Il Signore Gesù disse: 27«A voi che ascoltate, io dico: amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano, 28benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi trattano male. 29A chi ti percuote sulla guancia, offri anche l’altra; a chi ti strappa il mantello, non rifiutare neanche la tunica. 30Da’ a chiunque ti chiede, e a chi prende le cose tue, non chiederle indietro.    
31E come volete che gli uomini facciano a voi, così anche voi fate a loro. 32Se amate quelli che vi amano, quale gratitudine vi è dovuta? Anche i peccatori amano quelli che li amano. 33E se fate del bene a coloro che fanno del bene a voi, quale gratitudine vi è dovuta? Anche i peccatori fanno lo stesso. 34E se prestate a coloro da cui sperate ricevere, quale gratitudine vi è dovuta? Anche i peccatori concedono prestiti ai peccatori per riceverne altrettanto. 35Amate invece i vostri nemici, fate del bene e prestate senza sperarne nulla, e la vostra ricompensa sarà grande e sarete figli dell’Altissimo, perché egli è benevolo verso gli ingrati e i malvagi.     36Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso. 37Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati; perdonate e sarete perdonati.
38Date e vi sarà dato: una misura buona, pigiata, colma e traboccante vi sarà versata nel grembo, perché con la misura con la quale misurate, sarà misurato a voi in cambio».
    


3. Commento liturgico-pastorale      

Il brano evangelico fa parte del discorso di Gesù alle folle e ai suoi discepoli (6,20-49) che riflette quello di Matteo 5-7 detto il “discorso del monte”. Qui sono raccolti alcuni “detti” di Gesù riguardanti temi importanti per la formazione e la vita della sua comunità ovvero della Chiesa.    
I vv 27-35, in particolare, riportano la parte centrale del discorso relativo “all’amore per il nemico”, un amore senza misura e senza calcolo che rivela, in chi così lo vive, la sua realtà di “figlio dell’Altissimo”. I vv 36-38 sembrano invece riguardare l‘amore per i fratelli, ossia all’interno della Chiesa. Anche qui un tale amore trova la sua ispirazione in Dio che è misericordioso e pronto al perdono.    
In questa quinta domenica dopo il martirio del Precursore viene messa in luce l’attività “legislativa” del Signore che, in tal modo, intende formare la comunità dei suoi discepoli, nella quale, lungo i secoli, si raduneranno gli “ascoltatori” della sua Parola disponibili ad accoglierla ossia a osservarla (v 27).    
Questa, nei disegni di Dio progressivamente svelati tramite i Profeti, è destinata a formarsi da tutti i popoli della terra e da gente ritenuta esclusa come l’“eunuco” e lo “straniero” (Lettura: Isaia 56,3), che il Signore vuole invece condurre «sul mio monte santo e li colmerò di gioia nella mia casa di preghiera» (v 7).    
Al cuore delle disposizioni del Signore c’è la carità, ovvero l’amore del tutto gratuito verso ogni uomo, verso il “nemico”, come verso i “fratelli” nella fede. L’intento di Gesù è quello di dotare la sua Chiesa di una proposta del tutto originale, unica tra tutte le proposte di vita offerte agli uomini in questo mondo. Queste, si sa, sono fondate sulla ricerca e sull’affermazione del proprio “io” da esercitare come potere su tutto e su tutti.    
Al contrario, la comunità del Signore deve saper presentare un’alternativa a tali proposte e mostrare com’è possibile vivere non “per sé stessi”, ma “per” gli altri, nella capacità cioè di “accogliersi gli uni gli altri” (Epistola: Romani 15,7). Un’accoglienza che non è limitata a chi è simpatico, a chi ci è amico o comunque non nemico. Anzi, è proprio l’accoglienza piena e incondizionata verso “chi ci odia, chi ci maledice, chi ci maltratta” (cfr. Luca 6,27-28), senza aspettare da essi il contraccambio, a vanificare il comportamento ostile e oltraggioso dei “nemici”.    
Questa è la “testimonianza” a cui Gesù chiama e destina la sua Chiesa. In tal modo essa renderà immediatamente comprensibile a tutti Dio, così come il suo Figlio Gesù lo ha rivelato con la sua parola e i suoi stessi gesti. Egli ha per primo letteralmente “amato” i suoi nemici; ha fatto del bene a quanti lo odiavano, ha pregato e ha benedetto quanti lo hanno messo a morte! È proprio lui, Gesù, a dare con l’offerta di sé la dimostrazione che già in questo mondo è possibile la presenza del “mondo” o del Regno di Dio.    
Di conseguenza ogni volta che, come suoi discepoli ascoltiamo e mettiamo in pratica queste sue parole, avremo fatto brillare nel mondo l’agire stesso di Dio del quale, a buon ragione, potremo chiamarci “figli”. Dio infatti si comporta così: “è benevolo verso gli ingrati e i malvagi” e mostra la sua onnipotenza nella misericordia e nel perdono.    
È ciò che la preghiera liturgica di continuo proclama rivolgendosi così al Padre: «Tu… tanta pietà ai provato per noi da mandare il tuo Unigenito come redentore» e: «nel tuo Figlio fatto uomo ci hai amato tutti con un amore nuovo e più alto» (Prefazio).    
Un simile messaggio evangelico è ciò che il mondo attende dalla Chiesa del Signore e da ognuno di noi. Il mondo ha già visto e sentito tutto, ma rimane sempre sbalordito e sorpreso quando chi muore perdona chi lo uccide, quando il maltrattato prega per il suo carnefice, quando il calunniato benedice il suo accusatore. Sono cose queste che può fare solo Dio. Sono cose che ha fatto Gesù. Sono cose che la “grazia” dona di fare ai “figli dell’Altissimo”.

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26 settembre 2010


IV Domenica dopo il martirio di S. Giovanni il Precursore.


1. La quarta domenica “dopo il martirio” di S. Giovanni il Precursore


Ci indirizza al Signore Gesù riconosciuto nella fede quale “pane vivo disceso dal Cielo” per donare al mondo la “vita”. Vengono, pertanto, oggi proclamate le seguenti lezioni bibliche: Lettura: Proverbi 9, 1-6; Salmo 33; Epistola: 1Corinzi 10, 14-21; Vangelo: Giovanni 6, 51-59. Il Vangelo della Risurrezione, da proclamare nella Messa vigiliare del sabato, è preso da: Giovanni 20, 11-18. I canti e le orazioni della Messa sono quelli della XXVI domenica del Tempo “per annum” nel Messale ambrosiano.


2. Vangelo secondo Giovanni 6,51-59

In quel tempo. Il Signore Gesù disse: 51«Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo». 52Allora i Giudei si misero a discutere aspramente fra loro: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?». 53Gesù disse loro: «In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. 54Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. 55Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. 56Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. 57Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me. 58Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno». 59Gesù disse queste cose, insegnando nella sinagoga a Cafàrnao.


3. Commento liturgico pastorale

     Il brano evangelico è desunto da quello che si è soliti indicare come il discorso di Gesù sul mistero del “pane della vita”: Giovanni 6,25-58. In particolare il v 51 riporta le misteriose parole conclusive di autorivelazione come “pane della vita” ovvero come “il pane vivo disceso dal cielo” (vv 48-51). Il v 52 riferisce la reazione assai polemica degli ascoltatori che, in pratica, si rifiutano di accettare che la loro “vita” dipenda da un uomo qual è Gesù!

    I vv 53-58 contengono la risposta all’obiezione incredula dei Giudei con la dettagliata spiegazione delle precedenti parole di “autorivelazione”. Il v 59, infine, che di per sé, conclude l’intero discorso, si incarica di riferire che esso è stato pronunziato da Gesù “insegnando nella sinagoga di Cafarnao”.

    Il raccordo del brano evangelico con la Lettura presa dal libro dei Proverbi e con l’Epistola paolina è offerta dal simbolismo sapienziale del “nutrimento” espresso realisticamente nel Vangelo con il verbo “mangiare”. In questa quarta domenica dopo il martirio del Battista, la liturgia offre la sua specifica “testimonianza” su Gesù che si è rivelato come il “pane vivo disceso dal Cielo” del quale è indispensabile nutrirsi per avere in dono la “vita eterna”.

    Questa va intesa anzitutto come comunione di amore con Dio stesso, resa possibile e stabilita con il «mangiare la carne del Figlio dell’uomo» e con il «bere il suo sangue» (6,53). Nell’invito del Signore a mangiare la sua “carne” e a “bere” il suo “sangue” si compie, in tutta verità, ciò che la Scrittura aveva annunziato come invito della Sapienza a “mangiare il mio pane e a bere il mio vino” (Proverbi 9,5).

    Il “cibo” imbandito dalla Sapienza è in realtà la Legge donata da Dio al suo popolo al fine di preservarlo dalle tristi conseguenze dovute alla sua “inesperienza” e soprattutto per farlo camminare “per la via dell’intelligenza” ovvero dell’accoglienza amorosa e concreta della stessa Legge.

    Eppure, questo “cibo”, così come quello della “manna” fatta piovere da Dio sul suo popolo in marcia nel deserto, pur essendo veri “doni” divini non lo hanno preservato dalla morte! La Legge e la “manna”, pertanto, sono da considerare come annuncio profetico che prepara a ricevere e a mangiare il “pane vivo disceso dal Cielo”, vale a dire la “carne” e il “sangue” di Gesù, compreso nella sua realistica condizione di mortalità così come si è manifestata dall’Incarnazione e, massimamente, nell’ora della croce.

    È questo il cibo in grado di assicurare la “vita eterna” qui intesa come intima comunione con il Signore. Nel “mangiare la carne e bere il suo sangue”, infatti, si realizza, come Gesù stesso afferma, una sorprendente, reciproca osmosi: «rimane in me e io in lui» (Giovanni 6,56).

    Anche l’Apostolo, al riguardo, parla di “comunione” ossia di intima reciproca unione che viene a stabilirsi tra Gesù e i fedeli i quali nel “calice” e nel “pane” della mensa eucaristica (1Corinzi 10,16) partecipano, nel mistero, a ciò che il “pane e il “calice” significano e contengono: il corpo offerto e il sangue del Signore versato per la salvezza e la vita del mondo.

    Nel Signore Gesù, nell’atto di dare “la sua carne per la vita del mondo”, si attua così il disegno della Sapienza divina che consiste nel rendere partecipe il credente della sua stessa vita. La celebrazione eucaristica, attraverso la proclamazione della Parola e i santi “segni” dell’altare, è “testimonianza” viva di ciò che il Signore ha detto e ha fatto al fine di donare la sua “carne”, ossia tutto sé stesso come vero “cibo” di vita.

    La celebrazione ci esorta, anzitutto, a “credere” nella Parola che viene pronunziata sul pane e sul vino per la loro trasformazione nel “corpo” e nel “sangue” del Signore. La celebrazione ci invita a “mangiare” e a “bere” alla mensa del Signore per avere parte alla sua passione e alla sua morte sofferta perché tutti noi avessimo, da ora, la “vita”, la sua stessa “vita”.

    La preghiera liturgica, perciò, “rende grazie” ed “esalta” la divina sapienza del Padre il quale, nel donarci il «pane vivo disceso dal Cielo»: «già in questa fuggevole vita» ci assicura e ci anticipa il possesso della ricchezza eterna (Prefazio).

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19 settembre 2010

 
1. La terza domenica “dopo il Martirio” di S. Giovanni Battista il Precursore      

Presenta la “testimonianza” resa da Dio Padre a Gesù, il suo Figlio Unigenito mandato nel mondo a compiere “l’opera” della salvezza. Il Lezionario riporta le seguenti lezioni bibliche:  Lettura: Isaia 43,24c-44,3; Salmo 32; Epistola: Ebrei 11,39-12,4; Vangelo: Giovanni 5,25-36. Nella Messa vigiliare del sabato viene proclamato Matteo 28,8-10, quale Vangelo della Risurrezione. I canti e le orazioni della Messa sono quelli della XXV Domenica del Tempo “per annum” nel Messale ambrosiano    


2. Vangelo secondo Giovanni 5, 25-36     

In quel tempo. Il Signore Gesù disse: 25«In verità, in verità io vi dico: viene l’ora – ed è questa – in cui i morti udranno la voce del Figlio di Dio e quelli che l’avranno ascoltata, vivranno. 26Come infatti il Padre ha la vita in sé stesso, così ha concesso anche al Figlio di avere la vita in sé stesso, 27e gli ha dato il potere di giudicare, perché è figlio dell’uomo. 28Non meravigliatevi di questo: viene l’ora in cui tutti coloro che sono nei sepolcri udranno la sua voce 29e usciranno, quanti fecero il bene per una risurrezione di vita e quanti fecero il male per una risurrezione di condanna.
30Da me, io non posso fare nulla. Giudico secondo quello che ascolto e il mio giudizio è giusto, perché non cerco la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato.    
31Se fossi io a testimoniare di me stesso, la mia testimonianza non sarebbe vera.
32C’è un altro che dà testimonianza di me, e so che la testimonianza che egli dà di me è vera. 33Voi avete inviato dei messaggi a Giovanni ed egli ha dato testimonianza alla verità. 34Io non ricevo testimonianza da un uomo; ma vi dico queste cose perché siate salvati. 35Egli era la lampada che arde e risplende, e voi solo per un momento avete voluto rallegrarvi alla sua luce.    
36Io però ho una testimonianza superiore a quella di Giovanni: le opere che il Padre mi ha dato da compiere, quelle stesse opere che io sto facendo, testimoniano di me che il Padre mi ha mandato».
    


3. Commento liturgico pastorale      

Il brano evangelico, qui riportato, fa parte di un più ampio discorso di autorivelazione di Gesù come Figlio di Dio (5,19-30) e al quale Dio stesso rende “testimonianza” (31-47). In particolare nei vv 25-30 viene messa in luce “l’opera” propria che è affidata a Gesù nei confronti dell’intera umanità dall’inizio alla conclusione della storia contrassegnata dal “giudizio”.

    I vv 31-36, invece, riportano le autorevoli “testimonianze” elencate da Gesù stesso e che riguardano la sua persona e la sua missione: la “testimonianza resa da Giovanni Battista” (vv 32-33) e soprattutto quella del Padre che lo ha “mandato” (v 36).    
In questa domenica è perciò posto in primo piano il mistero di Gesù, il Figlio di Dio inviato nel mondo per attuare la missione salvifica nei riguardi dell’intera umanità. Questa, a causa dell’incredulità e del peccato che la allontana dalla “vita”, da Dio, è come chiusa in un sepolcro dal quale verrà richiamata in vita per ricevere la sentenza della definitiva condanna (cfr. v 29).

    La Scrittura, con accenti molto simili, descrive la situazione drammatica in cui versa il popolo stesso di Dio a motivo dei suoi peccati e delle sue iniquità (cfr. Lettura: Isaia 43,24s). Ma è sempre la stessa Scrittura a rivelare l’agire buono e misericordioso di Dio “per amore” di sé stesso, in corrispondenza cioè con la sua natura. Egli, con decisione libera e gratuita, “cancella” i misfatti del suo popolo, non “ricorda” i suoi peccati (cfr. v 25) e addirittura riversa su di esso il “suo spirito” e la “sua benedizione” per sempre (44,3). In tal modo Dio rianima e fa rifiorire il suo popolo, come avviene per un “suolo assetato” e un “terreno arido” su cui viene riversata acqua in abbondanza (v 3).

    Questa unica prospettiva salvifica per il mondo e la storia si è definitivamente e concretamente realizzata con la “benedizione” di Dio che è il suo Figlio Gesù, il quale con la predicazione del suo Vangelo richiama “in vita” quanti “ascoltano” la sua voce, ossia lo accolgono e credono in lui (Vangelo: Giovanni 5,25).

    Il Figlio, “che ha la vita in sé stesso” (v 26), viene nel mondo per donare la vita “eterna”. Questo dono, però, esige di essere accolto liberamente, con adesione di fede, sulla base di precise “testimonianze” destinate ad assicurare che lui è il Messia, è l’inviato da Dio. La testimonianza prima e “superiore” è data da Dio stesso al suo Figlio attraverso le “opere”, ossia i miracoli che Gesù compie e che di per sé solo Dio può compiere (v 36): “dare la vista ai ciechi, far parlare i muti, risuscitare i morti”.

    A ben guardare, come afferma la Lettera agli Ebrei una moltitudine di “testimoni”, vale a dire i grandi personaggi biblici quali i Patriarchi, Mosè, i Profeti e, da ultimo, Giovanni il Battista, danno “testimonianza” che la loro opera e la loro missione, pur autentica, è provvisoria e limitata nel tempo e nello spazio e preannunciano perciò la missione e l’opera definitiva di Gesù il Figlio di Dio che ha un valore sovratemporale e universale e, nel quale, “Dio aveva predisposto qualcosa di meglio” (Epistola: Ebrei 11,40) per noi: il “dono” della vita che ha “in sé stesso” e che «ha concesso anche al Figlio di avere in sé stesso» (Giovanni 5,26).

    Mossi da questa moltitudine di “testimoni”, anche noi siamo invitati a tenere «fisso lo sguardo su Gesù, colui che dà origine alla fede e la porta a compimento» (Ebrei 12,2). Siamo sollecitati, in una parola, ad accogliere con fede il Figlio, rivelatore del Padre, portatore della “vita” capace di risuscitare i morti, nello spirito come nel corpo.

    Siamo inoltre sollecitati a dare la nostra personale e comunitaria “testimonianza” a Gesù, deponendo concretamente «tutto ciò che è di peso e il peccato che ci assedia» (Ebrei 12,1) per chiuderci nel “sepolcro” di morte. Egli, non lo dimentichiamo, «si sottopose alla croce» (v 2), l’“opera” ultima che il Padre gli ha dato da compiere e con la quale ci ha resi partecipi della “vita”.

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12 Settembre 2010–II domenica dopo il martirio


1. La seconda domenica “dopo il martirio” di san Giovanni il Precursore  
    

Presenta Gesù, il Figlio “obbediente” nel quale anche noi siamo chiamati a diventare figli di Dio. Le lezioni bibliche del Lezionario sono: Lettura: Isaia 5,1-7, Salmo 79; Epistola: Galati 2,15-20; Vangelo: Matteo 21,28-32. Il Vangelo della Risurrezione da proclamare nella Messa vigiliare del sabato è preso da: Giovanni 20,1-8. Le orazioni e i canti della Messa sono quelli della XXIV domenica del Tempo “per annum” nel Messale ambrosiano.

2. Vangelo secondo Matteo 21, 28-32     

In quel tempo. Il Signore Gesù disse: 28«Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli. Si rivolse al primo e disse: “Figlio, oggi va’ a lavorare nella vigna”. 29Ed egli rispose. “Non ne ho voglia”. Ma poi si pentì e vi andò. 30Si rivolse al secondo e disse lo stesso. Ed egli rispose: “Sì, signore”. Ma non vi andò 31Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?». Risposero: «Il primo». E Gesù disse loro: «In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio. 32Giovanni infatti venne a voi sulla via della giustizia, e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto. Voi, al contrario, avete visto queste cose, ma poi non vi siete nemmeno pentiti così da credergli».    

3. Commento liturgico pastorale     

Il brano appare chiaramente diviso in due parti. I vv 28-31a riportano la “parabola” dei due fratelli dal comportamento dissimile nei confronti della richiesta del loro padre di andare a lavorare nella vigna di famiglia. Chi dice: «Non ne ho voglia», poi «si pentì e vi andò», mentre chi con slancio dice subito: «Sì, signore», di fatto, «non vi andò». La parabola, è bene ricordarlo, è rivolta ai sommi sacerdoti e agli scribi (v 23).

    Nella seconda parte: (vv 31b-32) abbiamo l’applicazione della parabola che si apre con la domanda retorica posta da Gesù ai suoi interlocutori seguita dal “detto” riguardante “i pubblicani e le prostitute” evidentemente raffigurati nel primo figlio. Essi, una volta pentiti, accolgono il volere di Dio e, perciò, «passano avanti nel regno di Dio», s’intende, ai sommi sacerdoti e agli scribi.

    Al v 32 viene registrato il “detto” con il quale Gesù stesso pone in relazione la parabola con la predicazione del Battista a cui i capi hanno opposto un rifiuto. Essi, perciò, sono raffigurati nel secondo figlio.

    I brani biblici odierni e il testo evangelico, in particolare, letti nel peculiare momento liturgico che prende avvio dalla memoria del martirio del Battista, ci invitano a guardare al cuore della predicazione e della missione del Precursore del Signore che prepara l’immediata sua venuta.

    Al centro della predicazione del Battista è posto, come sappiamo, l’annunzio del regno di Dio, con il perentorio invito a prendere con urgenza una decisione davanti al Regno stesso. Decisione che comporta la conversione del cuore e della vita significata esteriormente nella successiva immersione battesimale nell’acqua.

    Ciò che sorprende è che i più pronti ad accogliere e a credere alla predicazione di Giovanni sono persone di per sé ritenute perdute e irrimediabilmente irrecuperabili: “pubblicani e prostitute”, appunto, mentre i “capi” del popolo, dediti allo studio delle Scritture, non hanno accolto né “creduto” in Giovanni e nella sua predicazione.

    Lo stesso avviene di fronte alla Parola vivente di Dio, a Gesù e alla sua predicazione. Egli è il Figlio obbediente che il Padre manda a lavorare “nella sua vigna”, nella «casa d’Israele» (Lettura: Isaia 5,7) che è, in verità, l’intera umanità. Egli, diversamente dal Battista, viene nel mondo non solo per “annunziare” che il regno di Dio “è vicino” ma per portare effettivamente, proprio nella sua persona, il regno di Dio e il conseguente estremo appello alla conversione e alla fede per potervi accedere.

    Davanti a Gesù ogni uomo è perciò sollecitato a prendere una decisione che, come avverte la parabola, può risultare del tutto sorprendente e inattesa. C’è chi, al pari del “primo figlio”, trattenuto e come imprigionato dall’attaccamento al peccato, sembra rispondere a Gesù con un rifiuto, un “no” deciso. È il “no” detto da Paolo di Tarso, orgoglioso della “via della giustizia” ovvero dell’osservanza della Legge, finché non si arrende a Gesù il «Figlio di Dio che mi ha amato e ha consegnato sé stesso per me» (Epistola: Galati 2,20).

    C’è chi, conducendo un’esistenza apparentemente irreprensibile anche dal punto di vista religioso sembra naturalmente candidato a entrare nel “regno”. Di fatto, credendosi a posto e ritenendo di camminare sulla “via della giustizia”, non avverte il bisogno di quella profonda conversione del cuore al volere di Dio indispensabile per cogliere l’urgenza del regno.

    Tutto ciò deve far molto riflettere anche noi, membra della Chiesa, che, a ragione, ci chiamiamo “vigna” del Signore e «sua piantagione preferita» (Isaia 5,7). Non deve capitare che il Signore mentre si aspetta da noi “giustizia”, ossia prontezza nel fare il suo volere, debba ricevere invece “acini acerbi” ovvero presuntuosa chiusura e pratico rifiuto a obbedire e a credere!

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5 Settembre 2010-I Domenica dopo il Martirio


1. La prima domenica “dopo il martirio” di S. Giovanni il Precursore

Ha il compito di “testimoniare” che in Gesù la salvezza brilla per ogni uomo. A lui, al suo Vangelo, perciò, occorre convertirsi. Il Lezionario riporta i seguenti brani biblici: Lettura: Isaia 30,8-15b; Salmo 50; Epistola: Romani 5,1-11; Vangelo: Matteo 4,12-17. Nella Messa vigiliare del sabato viene proclamato: Luca 24,9-12, come Vangelo della Risurrezione. Le orazioni e i canti della Messa sono quelli della XXIII domenica del Tempo “per annum” nel Messale ambrosiano.    


2. Vangelo secondo Matteo 4,12-17

In quel tempo. 12Quando il Signore Gesù seppe che Giovanni era stato arrestato, si ritirò nella Galilea, 13lasciò Nazaret e andò ad abitare a Cafàrnao, sulla riva del mare, nel territorio di Zàbulon e di Nèftali, 14perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta Isaia: 15«Terra di Zàbulon e terra di Nèftali, / sulla via del mare, oltre il Giordano, / Galilea delle genti! / 16Il popolo che abitava nelle tenebre / vide una grande luce, / per quelli che abitavano in regione e ombra di morte / una luce è sorta». 17Da allora Gesù cominciò a predicare e a dire: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino».


Commento liturgico-pastorale

Il brano concerne l’esordio dell’attività pubblica di Gesù che coincide con l’uscita di scena di Giovanni Battista, fatto imprigionare da Erode (v 12). L’attività di Gesù prende avvio, non a caso, dalla Galilea, una regione con una notevole componente di popolazione pagana. L’evangelista con la citazione di Isaia 8,23-9,1 vuole inquadrarla da subito nel disegno divino di universale salvezza di cui è attuazione e compimento.

    Gesù, infatti, non si limiterà a predicare al suo popolo ma la sua azione missionaria riguarderà tutte le “genti” oppresse, di fatto, dal potere tenebroso del male e sulle quali egli sfolgorerà come “grande luce”, ossia come salvezza. Essa, perciò, è resa accessibile nel Signore Gesù che annunzia e inaugura nella sua persona «il regno dei cieli» destinato a estirpare dall’umanità il regno delle tenebre. Di qui l’imperativo «convertitevi» (v 17).

    Si tratta di distogliersi dal proprio “io” malvagio, dalla condotta cattiva, e rivolgersi con decisione al Signore Gesù. A lui, infatti, il Battista ha indirizzato e diretto il popolo che lo seguiva. Il suo arresto, in seguito alla “testimonianza” resa davanti a Erode, prepara e annuncia la sua morte che lo annovera nel numero dei profeti perseguitati e uccisi proprio a motivo del servizio da essi compiuto a Dio con l’annuncio della sua Parola. In ciò Giovanni viene legato a quello che sarà il destino dello stesso Gesù (cfr. Matteo 17,22; 20,18-19) e di chiunque intende “seguirlo” (cfr. Matteo 10,17-21; 24,9).

    La Lettura evidenzia un dato inquietante presente nel popolo d’Israele e che deve far riflettere anche noi membri del popolo di Dio che è la Chiesa. È l’atteggiamento di chi non vuole ascoltare la Parola capace di smascherare convincimenti profondi e atteggiamenti molto radicati nel cuore dell’uomo chiamandolo a conversione.

    Questi, infatti, non vuole piegarsi ad accogliere sinceramente la Parola, preferendo impostare la vita sulla propria volontà che porta a confidare «nella vessazione dei deboli e nella perfidia» (Isaia 30,12). Di qui il rifiuto dei predicatori della Parola: «Non fateci profezie sincere, diteci cose piacevoli, profetateci illusioni. Scostatevi dalla retta via, uscite dal sentiero, toglieteci dalla vista il Santo d’Israele» (Isaia 30,10-11).

    Questa situazione in cui versava Israele è esemplare della situazione in cui versa l’umanità incredula in ogni tempo e che il profeta Isaia, citato nel brano evangelico odierno (Matteo 4,15-16), vede collocata «nelle tenebre e in regione e ombra di morte». Il disegno divino di salvezza che, a partire da Israele riguarda l’intera umanità, è di far sorgere in quell’"ombra di morte”, ossia di perdizione, “una luce” simbolo della divina presenza che salva.

    I profeti, il Battista, sono le “lampade” che Dio ha fatto brillare nell’oscurità di questo mondo come annunzio della «grande luce» capace di mettere in fuga e, per sempre, le tenebre dalla storia e dal cuore dell’uomo. La «grande luce» è Gesù, il Figlio, «Luce da Luce». In lui brilla e risiede concretamente la salvezza destinata a tutti i popoli e che l’Apostolo declina come “giustificazione”, “riconciliazione”, “pacificazione” nel suo sangue (Epistola: Romani 5,1-11), nell’offerta cioè della sua vita.

    La preghiera liturgica, dal canto suo, volge i cuori dei fedeli a colui che oggi e fino alla consumazione dei secoli strappa dal carcere oscuro del male attualizzando  ciò che ha storicamente compiuto quando, «mosso a pietà degli errori umani, è voluto nascere dalla Vergine Maria; con la sua morte volontaria sulla croce ci ha liberato dalla morte eterna e con la sua risurrezione ci ha conquistato a una vita senza fine» (Prefazio).

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29 Agosto 2010


1. La domenica che precede il martirio di S. Giovanni il Precursore

Capitando di domenica, la festa del martirio del Precursore del Signore, destinata a segnare una svolta nel Tempo “dopo Pentecoste”, viene celebrata il 1° settembre. Il Lezionario presenta i seguenti brani biblici: Lettura: 2Maccabei 6,1-2.18-28; Salmo 140; Epistola: 2Corinzi 4,17-5,10; Vangelo: Matteo 18,1-10. Marco 16,1-8a viene proclamato nella Messa vigiliare del sabato come Vangelo della Risurrezione. Le orazioni e i canti per la Messa vengono presi dal formulario della XXII domenica del Tempo “per annum”.


2. Vangelo secondo Matteo 18,1-10

1In quel tempo. I discepoli si avvicinarono al Signore Gesù dicendo: «Chi dunque è più grande nel regno dei cieli?». 2Allora chiamò a sé un bambino, lo pose in mezzo a loro 3e disse: «In verità io vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli. 4Perciò chiunque si farà piccolo come questo bambino, costui è il più grande nel regno dei cieli. 5E chi accoglierà un solo bambino come questo nel mio nome, accoglie me. 6Chi invece scandalizzerà uno solo di questi piccoli che credono in me, gli conviene che gli venga appesa al collo una macina da mulino e sia gettato nel profondo del mare. 7Guai al mondo per gli scandali, ma guai all’uomo a causa del quale avviene lo scandalo! 8Se la tua mano o il tuo piede ti è motivo di scandalo, taglialo e gettalo via da te. È meglio per te entrare nella vita monco o zoppo, anziché con due mani o due piedi essere gettato nel fuoco eterno. 9E se il tuo occhio ti è motivo di scandalo, cavalo e gettalo via da te. È meglio per te entrare nella vita con un occhio solo, anziché con due occhi essere gettato nella Geènna del fuoco. 10Guardate di non disprezzare uno solo di questi piccoli, perché io vi dico che i loro angeli nei cieli vedono sempre la faccia del Padre mio che è nei cieli».


3. Commento liturgico-pastorale

Il brano evangelico riporta l’avvio di una serie di “insegnamenti” del Signore che attengono alla vita della sua comunità, la Chiesa, autentico germoglio del regno dei cieli. I vv 1-5 raggruppano alcuni “detti” di Gesù sui “bambini”, vale a dire sui discepoli più umili, semplici e indifesi, affermando che è necessario, per tutti, assumere la semplicità e la piccolezza davanti a Dio e ai fratelli per aver parte al regno dei cieli, ossia alla salvezza definitiva (vv 1-4). In essi, nei “piccoli” si identifica lo stesso Signore Gesù (v 5).

    I vv 6-9 ruotano attorno all’esigenza, nella comunità, di evitare, a tutti i costi, lo “scandalo” dei “piccoli” ponendo un ostacolo nel loro cammino di fede e di adesione a Gesù con mentalità e atteggiamenti antievangelici. I vv 8-9, con accenti paradossali, invitano i membri della comunità a sacrificare tutto ciò che è di impedimento e di ostacolo all’ingresso nella “vita”, quella “eterna” s’intende.

    Le lezioni bibliche proposte per questa domenica sono segnate, secondo la tradizione propriamente “ambrosiana”, dalla Lettura presa sempre dai due Libri dei Maccabei. Si vuole, così, preparare quella “svolta” nel Tempo dopo Pentecoste rappresentata dall’annuale memoria del “martirio” di san Giovanni Battista, il Precursore del Signore.

    Il suo martirio come già quello dei sette fratelli Maccabei, della loro madre, e di Eleazaro «uno degli scribi più stimati» (2Maccabei 6,18), ricorda alla Chiesa la vocazione al martirio, ovvero alla testimonianza che essa è chiamata a dare al Signore Gesù e al suo Vangelo tra le inevitabili prove e persecuzioni, anche violente, che accompagneranno sempre il suo cammino. La Chiesa, per questo, potrà contare sull’assistenza continua dello Spirito Santo dono del Signore risorto.

    Stando alla pagina evangelica, la peculiare “testimonianza” che la Chiesa è chiamata a dare riguarda la sequela del Signore nella via dell’umiltà e della piccolezza evangelica. È la via di chi diventa «bambino» per poter «entrare nel regno dei cieli» (Matteo 18,2) ovvero per «entrare nella vita» (v 8-9) quella eterna, nella salvezza! La Chiesa e in essa ogni credente dovrà guardarsi dagli “scandali” vale a dire dagli ingombri che le vengono dalla mentalità mondana consacrata alla ricerca del potere, del dominio, dell’affermazione di sé.

    L’esempio dello scriba Eleazaro, pronto a morire, pur di mantenersi fedele alle «sante e venerande leggi» (2Maccabei 6,28), l’esempio del Precursore, spronano ogni discepolo del Signore a perseverare nella fede, a dare con coraggio testimonianza del suo Vangelo, nella consapevolezza che «il momentaneo, leggero peso della nostra tribolazione ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria» (Epistola: 2Corinzi 4,17). Questa consapevolezza in Paolo, come già in Eleazaro e nel Precursore del Signore è sorretta dal fatto che nulla può essere anteposto al Regno, alla prospettiva cioè della definitiva salvezza. Essa non fa temere il giudizio e la condanna degli uomini ma solo il giudizio di Dio, il quale è pronto a donare «un’abitazione, una dimora non costruita da mani d’uomo, eterna, nei cieli» a chi, per la fedeltà a lui ha avuto «distrutta la dimora terrena» (2Corinzi 5,1), vale a dire è andato incontro alla persecuzione e addirittura alla morte!

    È quanto avviene ancora in ogni angolo della terra, dove un gran numero di fratelli soffrono persecuzioni senza venir meno alla loro fede nel Signore Gesù. Occorre anche a noi rendere più robusta la nostra fede, cercando ogni giorno il contatto con il Signore che ci parla nelle Divine Scritture e, nel sacramento eucaristico, ci offre la viva testimonianza della sua inesauribile carità e l’anticipo della “vita”.

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22 Agosto 2010-XIII Domenica dopo Pentecoste


1. La tredicesima domenica “dopo Pentecoste”

Il ritorno in patria di Israele dall’esilio babilonese è certamente uno dei momenti più alti ed esaltanti della storia della salvezza. Esso annunzia il ritorno a Dio, in Cristo Gesù, dell’intera umanità.

    Il Lezionario prescrive le seguenti lezioni scritturistiche: Lettura: Neemia 1,1-4; 2,1-8; Salmo 83; Epistola: Romani 15,25-33; Vangelo: Matteo 21,10-16. Alla Messa vigiliare vespertina del sabato viene proclamato: Marco 16,9-16 quale Vangelo della Risurrezione. Le orazioni e i canti per la Messa sono quelli della XXI Domenica del Tempo “per annum” nel Messale ambrosiano.


2. Vangelo secondo Matteo 21,10-16

In quel tempo. 10Mentre il Signore Gesù entrava in Gerusalemme, tutta la città fu presa da agitazione e diceva: «Chi è costui?». 11E la folla rispondeva: «Questi è il profeta Gesù, da Nazaret di Galilea». 12Gesù entrò nel tempio e scacciò tutti quelli che nel tempio vendevano e compravano; rovesciò i tavoli dei cambiamonete e le sedie dei venditori di colombe 13e disse loro: «Sta scritto: “La mia casa sarà chiamata casa di preghiera. Voi invece ne fate un covo di ladri”». 14Gli si avvicinarono nel tempio ciechi e storpi, ed egli li guarì. 15Ma i capi dei sacerdoti e gli scribi, vedendo le meraviglie che aveva fatto e i fanciulli che acclamavano nel tempio: «Osanna al figlio di Davide!», si sdegnarono, 16e gli dissero: «Non senti quello che dicono costoro?». Gesù rispose loro: «Sì! Non avete mai letto: “Dalla bocca di bambini e di lattanti hai tratto per te una lode”?».


3. Commento liturgico-pastorale

Il brano evangelico riporta, con i vv 10-11 la conclusione del racconto dell’ingresso solenne di Gesù in Gerusalemme (21,1-11) acclamato nel suo avvicinamento alla città dalla folla. Gli abitanti di Gerusalemme, invece, rimangono scossi e si interrogano sull’identità di Gesù (v 10) ricevendo risposta dai suoi festanti accompagnatori che lo riconoscono come “profeta” originario dell’oscura Nazaret di Galilea (v 11).

    L’ingresso culmina con l’entrata di Gesù nel Tempio, dove prende di mira i venditori che rifornivano i visitatori dell’occorrente per il culto (v 12). Gesù accompagna il suo gesto violento con la doppia citazione biblica che, mentre riconosce al Tempio la dignità propria della casa di Dio destinata alla preghiera (cfr. Is. 56,7), dall’altra, con la citazione di Ger 7,11, ne anticipa la fine in quanto trasformata in “covo di ladri” (v 13).

    I vv 14-16 riferiscono sull’attività di guarigione compiuta da Gesù proprio nel Tempio e della gioia dei bimbi che gridano all’indirizzo di Gesù “Osanna al Figlio di Davide”, con la reazione “indignata” di “sommi sacerdoti e scribi”. A essi Gesù risponde citando il Salmo 8,3 che attribuisce proprio “ai bambini e ai lattanti”, ossia ai “piccoli”: poveri, umili ed emarginati, la capacità di dare lode conveniente a Dio, riconoscendo cioè il suo agire misericordioso e benevolo verso tutti.

    Questa penultima domenica dopo Pentecoste evoca, come evento significativo della storia della salvezza, il ritorno dall’esilio babilonese e l’opera di ricostruzione della città di Gerusalemme e specialmente del Tempio già distrutto da Nabucodonosor, re di Persia nel 597 a.C. Alla ricostruzione materiale va di pari passo la ricostruzione della vita religiosa di Israele. La Lettura sottolinea come quel ritorno e quella ricostruzione rientrano nei disegni divini e, per questo, trovano il favore davvero insperato nel re persiano Artaserse.

    Questi non solo lascia partire Neemia, con l’intento esplicito di far rinascere Gerusalemme, ma addirittura gli fornisce l’occorrente come «il legname per munire di travi le porte della cittadella del tempio» (Neemia 2,8). Neemia stesso riconosce che tutto ciò si spiega con l’intervento misterioso di Dio: «Il re mi diede le lettere, perché la mano benefica del mio Dio era su di me» (v 8).

    Il testo evangelico mette in luce che quella “mano benefica” di Dio si è posata sul suo Figlio Gesù che fa il suo ingresso in Gerusalemme e nel Tempio, ponendo fine alla vita religiosa in esso vissuta come commistione tra culto offerto a Dio mediante offerte e sacrifici di animali inconsapevoli e il vantaggio economico da esso derivante.

    Le parole con cui Gesù accompagna i suoi gesti violenti, rovesciando i tavoli e le sedie dei venditori, sono prese dalle Scritture e decretano la fine del Tempio che il peccato ha trasformato da “casa di Dio” in “un covo di ladri”.

    Contemporaneamente, Gesù, proprio nel Tempio, opera guarigioni di “ciechi e di storpi” quali rappresentanti di tutti gli uomini emarginati, di tutti gli sfigurati che egli intende far ritornare dalla situazione di degrado e di esclusione, nella casa di Dio, nel nuovo e definitivo Tempio che è la sua stessa persona. In lui si riceve misericordia, perdono, dignità, pace che permettono di rendere a Dio il culto che egli cerca, quello reso da coloro che credono e obbediscono alla sua Parola. Con cuore umile e sincero, con il cuore dei piccoli di cui parla il Salmo citato da Gesù: «Dalla bocca di bambini e di lattanti hai tratto per te una lode».

    L’esempio di Gesù che inaugura la nuova casa di Dio, abitata dai piccoli, dai poveri, dagli emarginati, è stato seguito nella Chiesa delle origini. L’Apostolo, infatti, si reca a Gerusalemme per compiere un vero atto di culto: soccorre i “poveri tra i santi” nelle loro “necessità materiali” (Epistola: Romani 15,27).

    Nella celebrazione eucaristica il Signore Gesù riceve il riconoscimento e la lode “di bimbi e di lattanti”, vale a dire dal popolo da lui riscattato dalla triste condizione di esilio, di degrado e di emarginazione dovuta all’oppressione della colpa e dei peccati. Un popolo da lui ricostruito come Tempio e casa di Dio, come suo unico “corpo”!

    Nella celebrazione, con l’offerta sacrificale che «in tutta la Terra si eleva dalla sparsa moltitudine delle genti» (cfr Prefazio XXI Domenica del Tempo “per annum”), viene reso a Dio il culto perfetto, a lui gradito e, per Cristo, con Cristo e in Cristo, la preghiera e la supplica della Chiesa giunge infallibilmente fino al trono dell’Altissimo.

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15 Agosto-XII Domenica dopo Pentecoste


1. La dodicesima domenica “dopo Pentecoste”

La storia della salvezza registra eventi tragici per il popolo di Israele come conseguenza del suo allontanamento da Dio e della sua ostinata resistenza ai richiami dei profeti. Siamo così messi in guardia dal fare altrettanto chiudendoci a Gesù e al suo Vangelo.    
Le lezioni bibliche offerte dal Lezionario sono: Lettura: 2 Re 25,1-17; Salmo 77; Epistola: Romani 2,1-10; Vangelo: Matteo 23,37-24,2. Nella Messa vespertina del sabato il Vangelo della Risurrezione è preso da Giovanni 21,1-14. Le orazioni e i canti della Messa sono quelli della XX Domenica del Tempo “per annum” nel Messale ambrosiano.    


2. Vangelo secondo Matteo 23,37-39.24,1-2      

In quel tempo.  Il Signore Gesù disse: 37«Gerusalemme, Gerusalemme, tu che uccidi i profeti e lapidi quelli che sono stati mandati a te, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come una chioccia raccoglie i suoi pulcini sotto le ali, e voi non avete voluto! 38Ecco, la vostra casa è lasciata a voi deserta! 39Vi dico infatti che non mi vedrete più, fino a quando non direte: “Benedetto colui che viene nel nome del Signore!”».    
24,1Mentre Gesù, uscito dal tempio, se ne andava, gli si avvicinarono i suoi discepoli per fargli osservare le costruzioni del tempio. 2Egli disse loro: «Non vedete tutte queste cose? In verità io vi dico: non sarà lasciata qui pietra su pietra che non sarà distrutta».   
 


3. Commento liturgico-pastorale      

Il brano evangelico si presenta diviso in due parti: la prima, comprendente i vv 37-39, rappresenta la parte finale del discorso polemico contro “scribi e farisei”, ma anche contro Israele e la stessa Gerusalemme, pronunciato da Gesù nel Tempio. La seconda 24,1-2 riporta l’avvio del discorso fatto da Gesù ai suoi discepoli, “fuori” dal Tempio e riguardante gli eventi finali che preparano la “parusia”, la venuta cioè del Signore, alla fine dei tempi, per il giudizio.     In particolare, nei vv 37-39, Gesù dopo l’invettiva  contro scribi e farisei e, in generale, contro il popolo d’Israele, “uccisori di profeti”, si rivolge direttamente alla città di Gerusalemme. A essa ricorda il suo passato fatto di disobbedienze a Dio e del rifiuto di ascoltare e di accogliere i profeti di continuo mandati da lui come segno della sua premura “paterna”.

    La Lettura ci presenta il resoconto della distruzione della città a opera di Nabucodonosor, re di Persia (597 a.C.), come conseguenza del degrado religioso e morale della città, a causa del suo traviamento idolatrico.

    Gesù, in linea con il comportamento di Dio stesso, usa l’immagine biblica della chioccia (cfr. Isaia 31,5; Sl 36,8) per dichiarare il suo grande amore per il suo popolo e la città sede del Tempio. Un amore che intende proteggerla e preservarla dagli eventi luttuosi attraverso i suoi richiami, le sue parole. Ma invano. Gesù subisce, come tutti i precedenti inviati di Dio, il rifiuto e come essi, la morte violenta.

     Si aggancia, così, con il v 38, l’annunzio come conseguenza del rifiuto del “giudizio” sulla città che “vi sarà lasciata deserta”, predicendo con ciò il definitivo ritiro e abbandono da parte di Dio della sua “casa”, ovvero del Tempio e del suo popolo, lasciando perciò campo libero ai tragici eventi come l’effettiva e definitiva distruzione di Gerusalemme e del Tempio, nel 70 d.C. a opera delle legioni romane.

    Al v 39 Gesù parla della sua dipartita, ovvero della sua morte come di una sua momentanea assenza fino alla sua “parusia”, nella quale verrà da tutti riconosciuto come il Messia, il Figlio dell’uomo mandato “nel nome del Signore” (cfr. Salmo 118,6).

    I vv 1-2 del cap. 24, come abbiamo già detto, ci trasportano fuori dal Tempio e riportano parole di Gesù dirette ai suoi discepoli e quindi di grande importanza per la sua comunità che viene così informata sugli eventi finali riguardanti la già citata distruzione di Gerusalemme e del Tempio e sulla necessità di farsi trovare preparati.

    Nello spiegarsi graduale della salvezza che l’attuale tempo liturgico ci fa ripercorrere alla luce della Pasqua del Signore, ci viene oggi offerta dalla Parola una chiave interpretativa delle vicende  della storia nella quale, come un tempo Israele, oggi è immersa la comunità del Signore, ossia la Chiesa. Questa, alla luce delle vicende di Israele, è messa in guardia dal cadere nella stessa triste condizione di chiusura, di indifferenza alla parola di Dio, di rifiuto pratico del suo ultimo e definitivo inviato, ossia il suo Figlio Gesù.

    Tale rifiuto espone oggi, come allora, la comunità a eventi davanti ai quali è come disarmata e indifesa, come lo fu Gerusalemme davanti a Nabucodonosor prima e poi all’imperatore romano Vespasiano. La Chiesa, dunque, e tutti noi  in essa, siamo esortati ad ascoltare i richiami pieni di amore che il Signore Gesù ci rivolge, come fa la chioccia verso i suoi pulcini indifesi.

    Sotto le sue ali, al suo riparo, la Chiesa andrà incontro agli eventi della storia, certa di non essere quella casa “lasciata deserta” dall’abbandono del suo Signore. Istituita da lui saprà valutare, come si conviene, le realtà di questo mondo destinate a “passare” così come le belle pietre del Tempio di Gerusalemme.

    In una parola, la Chiesa, certa che il suo Signore, non l’abbandonerà mai, sarà stimolata ad accoglierlo e ad ascoltarlo come l’unico supremo inviato di Dio e a ubbidire a ogni sua parola convertendosi dal “cuore duro e ostinato” (cfr. Romani 2,5). In tal modo non sarà scossa e turbata dagli accadimenti spesso tragici della Storia e, avvertendo la protezione amorosa del Signore, si manterrà fedele alla sua parola attendendo così, con serenità, la sua “parusia”, il suo “giudizio”.

    Per questo, mentre chiediamo a Dio di “renderci attenti e docili alla voce interiore dello Spirito” (orazione All’inizio dell’Assemblea Liturgica) che ci porta viva la Parola di Gesù, così supplichiamo: «Donaci, o Dio, la sapienza dell’umiltà; non abbandonarci ai calcoli incerti degli accorgimenti umani, ma serbaci nella protezione della tua provvidenza che non delude»  (orazione A conclusione della Liturgia della Parola)  



16 agosto 2010 – Assunzione della Beata Vergine Maria

La tradizione liturgica della nostra Chiesa ambrosiana riserva il giorno di domenica alla celebrazione, in modo esclusivo, del mistero di Cristo, segnatamente della sua Pasqua di morte e di risurrezione. Per questo la solennità dell’Assunzione, coincidendo quest’anno con il giorno di domenica, viene posticipata di un giorno.

    Il Lezionario prevede le seguenti lezioni bibliche: Lettura: Apocalisse 11,19; 12,1-6.10; Salmo 44; Epistola: 1Corinzi 15,20-26; Vangelo: Luca 1,39-56. Il Lezionario prevede le seguenti lezioni bibliche: Lettura: Apocalisse 11,19; 12,1-6.10; Salmo 44; Epistola: 1Corinzi 15,20-26; Vangelo: Luca 1,39-56.

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8 Agosto 2010 - XI Domenica dopo Pentecoste

 
1. L’undicesima domenica “dopo Pentecoste”

Pone in rilievo la figura di Elia, il più grande dei profeti. Egli annunzia, nella sua predicazione e nell’intera sua vicenda, la persona e la missione di Gesù che porta nel mondo la Parola di salvezza da lui attuata nella sua Pasqua. Il Lezionario fa oggi proclamare: Lettura: 1Re 21,1-19; Salmo 5; Epistola: Romani 12,9-18; Vangelo: Luca 16,19-31. Alla Messa vigiliare del sabato il Vangelo della Risurrezione è preso da Giovanni 20,24-29. Le orazioni e i canti della Messa sono quelli della XIX Domenica del Tempo “per annum” nel Messale ambrosiano.


2. Vangelo secondo Luca 16,19-31

In quel tempo.  Il Signore Gesù disse: 19«C’era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti. 20Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe, 21bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe. 22Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. 23Stando negli inferi fra i tormenti, alzò gli occhi e vide di lontano Abramo, e Lazzaro accanto a lui. 24Allora gridando disse: “Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua, perché soffro terribilmente in questa fiamma”. 25Ma Abramo rispose: “Figlio, ricordati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora in questo modo lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti. 26Per di più, tra noi e voi è stato fissato un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono, né di lì possono giungere fino a noi”. 27E quello replicò: “Allora, padre, ti prego di mandare Lazzaro a casa di mio padre, 28perché ho cinque fratelli. Li ammonisca severamente, perché non vengano anch’essi in questo luogo di tormento”. 29Ma Abramo rispose: “Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro”. 30E lui replicò: “No, padre Abramo, ma se dai morti qualcuno andrà da loro, si convertiranno”. 31Abramo rispose: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti”».


3. Commento liturgico-pastorale

Il brano, noto come la parabola “del ricco epulone” e del povero Lazzaro, mostra le conseguenze tragiche prodotte dall’uso perverso delle ricchezze da cui il Signore aveva già messo in guardia con la precedente parabola dell’amministratore infedele (16,1-8) e con il suo insegnamento al riguardo (16,9-13) che  addita, nell’elemosina, l’uso buono delle stesse ricchezze.

    La parabola si presenta divisa in due parti. Nella prima, vv 19-25, viene illustrato il totale ribaltamento di situazione che avviene per il ricco e per il povero, nell’ora della morte. Un cambiamento reso drammatico dalla visione del ricco non più vestito di “porpora e di lino finissimo”, ma nell’inferno tra “i tormenti”. Egli, abituato ai sontuosi banchetti quotidiani, ora chiede solo una goccia d’acqua fresca. Il povero, al contrario, ora è “nel seno di Abramo” ovvero partecipa della beatitudine e della felicità eterna. Un simile cambiamento, avverte il v 26, è irreversibile e non è pensabile passare dai “tormenti” al “seno di Abramo” per via del “grande abisso” che divide per sempre le due situazioni.
Nella seconda parte della parabola (vv 27-30) l’attenzione è rivolta ai cinque fratelli del “ricco” i quali, evidentemente, vivendo come lui, sono inesorabilmente destinati alla sua orribile fine. Essi, però, essendo ancora in vita, possono evitare tale fine, decidendo di obbedire a “Mosè e i Profeti” (v 29. v 31).

    Nel progressivo dispiegarsi della storia della salvezza che il tempo liturgico “dopo Pentecoste” ci fa rivivere nelle sue grandi tappe considerate nella loro tensione alla Pasqua, un posto di rilievo è occupato dai Profeti rappresentati emblematicamente da Elia. Egli riassume la rivelazione vetero-testamentaria che va sotto il nome, appunto, di  “Profeti” e che, insieme a Mosè, che riassume in sé il Pentateuco (la Legge), indica, di fatto, tutta la Scrittura così come viene fatto capire nel testo evangelico oggi proclamato.

    I profeti sono mandati da Dio con il compito essenziale di mantenere il popolo a lui appartenente nella fedeltà all’alleanza, additando le mancanze che ledono tale alleanza e che spiegano anche le “prove” che, per questo, si abbattono sul popolo stesso. I profeti, perciò, predicano la necessità di conversione dall’idolatria e dalla condotta malvagia volgendosi con fiducia a Dio e camminando nelle sue vie.

    La Lettura ci offre la testimonianza di Elia che non teme di affrontare il perfido re Acab denunciando apertamente il suo crimine – l’uccisione proditoria di Nabat e l’usurpazione della sua vigna – e la conseguente punizione che lo attende (1Re 21,8-19).
Tutta la Scrittura (= Mosè e i Profeti), perciò, è da Dio donata perché sia “ascoltata” e “obbedita”. Essa, in realtà, annuncia e prepara l’invio nel mondo non più di intermediari per quanto grandi come Mosè e i Profeti, ma della stessa “Parola” ossia di Gesù di Nazaret. Egli insegna  agli uomini la via per sfuggire al triste destino del “ricco” ossia alla rovina eterna  e arrivare così nel “seno di Abramo” ossia alla felicità eterna.

    Nel Signore Gesù, nella sua Parola noi abbiamo la possibilità di ascoltare “tutta la Legge e tutti i Profeti” che lui riassume nel comandamento dell’amore di Dio e del prossimo teso a ribaltare totalmente quella mentalità e quello stile di vita emblematicamente espresso nella figura del “ricco epulone”.

    Egli divenuto oramai impermeabile ai divini richiami, si ostina a perseguire un’esistenza illusoriamente ritenuta sicura perché al riparo delle “ricchezze” di questo mondo: il denaro, il potere, il piacere. Una tale esistenza è inesorabilmente  avviata al “grande abisso” dal quale neanche un “miracolo”, quello invocato dal “ricco” per i suoi fratelli, potrebbe liberare.

    Immensamente grati al Padre per il dono del suo Figlio, sua Parola vivente, cogliamo anche noi l’invito delle Scritture a verificare il nostro autentico atteggiamento di fronte a Gesù e al suo Vangelo. “Oggi” è ancora possibile, qualora registrassimo in noi indifferenza e chiusura alla Parola, fermarci dal cadere nel “grande abisso” e operare quella “conversione” del cuore che l’apostolo Paolo traduce in concreto programma di vita (Epistola: Romani 12,9-18) e che il Canto al Vangelo così sintetizza: «Beati coloro che custodiscono la parola di Dio con cuore integro e buono e producono frutto con perseveranza».

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1 Agosto 2010 - X Domenica dopo Pentecoste


1. La decima domenica “dopo Pentecoste”

Nel re Salomone, figlio di Davide, guida saggia e sapiente del suo popolo è annunziato Gesù, il Figlio di Dio che, nella sua morte e risurrezione ha aperto e indicato all’intera umanità il sicuro passaggio verso il Regno, verso la salvezza. Il Lezionario prevede le seguenti lezioni bibliche: Lettura: 1Re 3,5-15; Salmo 71; Epistola: 1Corinzi 3,18-23; Vangelo: Luca 18,24b-30. Nella Messa vigiliare del sabato si legge Giovanni 20,19-23 quale Vangelo della Risurrezione. Le orazioni e i canti della Messa sono quelli della XVIII Domenica del Tempo “per annum” nel Messale ambrosiano.


2. Vangelo secondo Luca 18,24b-30


In quel tempo. Il Signore Gesù disse: 24«Quanto è difficile, per quelli che possiedono ricchezze, entrare nel regno di Dio. 25È più facile infatti per un cammello passare per la cruna di un ago, che per un ricco entrare nel regno di Dio!». 26Quelli che ascoltavano dissero: «E chi può essere salvato?». 27Rispose: «Ciò che è impossibile agli uomini, è possibile a Dio». 28Pietro allora disse: «Noi abbiamo lasciato i nostri beni e ti abbiamo seguito». 29Ed egli rispose: «In verità io vi dico, non c’è nessuno che abbia lasciato casa o moglie o fratelli o genitori o figli per il regno di Dio, 30che non riceva molto di più nel tempo presente e la vita eterna nel tempo che verrà».


3. Commento liturgico-pastorale


Il brano segue immediatamente il racconto dell’incontro di Gesù con un personaggio assai in vista (“un capo” dice Luca) che non raccoglie l’invito a seguire Gesù (18,18-23) “poiché era assai ricco” e prende avvio, al v 24, dalla constatazione: «Quanto è difficile, per quelli che possiedono ricchezze, entrare nel regno di Dio». Ad essa fa seguito il celebre “detto” riguardante il passaggio del cammello “per la cruna di un ago” (v 25).

Intervengono a questo punto gli astanti con la domanda: «E chi può essere salvato?» (v 26). Essa dice che i presenti hanno ben capito che soltanto un miracolo può permettere a un “ricco” di entrare nel Regno di Dio, ossia di “salvarsi”.

Il v 27 mitiga, con la risposta, la precedente severa affermazione di Gesù, appellandosi al fatto che a Dio è possibile ciò che non lo è per gli uomini, alludendo così alla “grazia” capace di fare cose inimmaginabili.

A questo punto intervengono i discepoli tramite Pietro, loro portavoce, mettendo in luce la loro pronta disponibilità a lasciare tutto per seguire Gesù (v 28) divenendo così una chiara alternativa al comportamento del “capo” che non se la sentì di far parte ai poveri dei suoi averi in vista del Regno. La risposta di Gesù al v 29 assicura ai discepoli, che hanno lasciato addirittura gli affetti umani più belli per seguirlo, un’adeguata “ricompensa”, a partire già da questa vita e destinata a manifestarsi come “vita eterna”, dunque come condizione permanente di salvezza.

Letto nel conteso del tempo liturgico in atto, il brano evangelico ci chiede una presa di coscienza e una conseguente valutazione sulla reale accoglienza del dono divino di salvezza ricevuto nei sacramenti pasquali. Per loro mezzo il credente è, di fatto, già “entrato” nel regno di Dio, è, dunque, già salvo. Si comprende, perciò, come l’effettiva appartenenza al Regno è ciò che deve stare a cuore al credente, più di ogni altra realtà terrena. In una parola la vera “sapienza”, per noi che crediamo, è quella di non anteporre nulla e nessuno al dono di salvezza effettivo in Cristo crocifisso e risorto.

La pagina vetero-testamentaria ci offre l’esempio del grande re Salomone, figlio di Davide, conosciuto su tutta la terra come “sapiente” possessore cioè di un’irresistibile capacità di “distinguere il bene dal male” e dunque in grado di garantire al suo popolo una vita serena e ordinata. Il “cuore saggio” di Salomone aspirava, dunque, a ottenere da Dio questo unico dono: “il discernimento nel giudicare” per il servizio della sua gente mettendo da parte, come Dio stesso riconosce, le richieste per sé stesso quali “molti giorni” di vita, ricchezze e la vita dei suoi nemici, cose, peraltro, che Dio ugualmente a lui dona come sovrappiù! (cfr. Lettura: 1Re 3,11-13).

Così deve essere per noi: ottenere da Dio la grazia di saper abbandonare tutto ciò che costituisce un ostacolo nel nostro cammino di salvezza sulle orme di Cristo. Si tratta, se necessario, di diventare “stolti” agli occhi del mondo, valutando con “sapienza” ciò che davvero conta per l’uomo: “salvarsi”, ossia perseverare nella sequela di Gesù, costi quel che costi! Tutto ciò può apparire una pazzia agli occhi di chi, confidando in sé stesso e nelle tante cose che possiede, crede di essere al riparo da tutti e da tutto, ignorando così, di fatto, Dio e la sua proposta salvifica.

È evidente che nessuno di noi, con le sole sue forze e con la sua umana sapienza, è in grado di capire tali esigenze e di sceglierle e perseguirle. Se è davvero difficile “salvarsi” e se per “un ricco”, non solo di beni materiali ma anche della “sapienza di questo mondo” (cfr. 1Cor 3,18-20) è addirittura “impossibile”, occorre chiedere la salvezza a Dio, al quale nulla è impossibile, come “grazia”!

In tal modo lo Spirito ci fa interiormente convinti che, ciò che conta “in assoluto” è “entrare nel regno di Dio”. Mancare un simile obiettivo significa andare incontro al drammatico definitivo fallimento della propria vita. È questa la vera “sapienza” che non fa temere al discepolo del Signore di apparire “stolto” agli occhi del mondo, nella consapevolezza che essere “di Cristo” vuol dire essere “di Dio” e, dunque, possedere ogni cosa.

Così si esprime, al riguardo, l’Apostolo: «tutto è vostro: Paolo, Apollo, Cefa, il mondo, la vita, la morte, il presente, il futuro, tutto è vostro» (1Corinzi 3,21-22). È il dono da chiedere e da ottenere nella celebrazione eucaristica quando, nella croce del Signore, brilla la “sapienza” stessa di Dio che nell’”umiliazione” del suo Figlio ha fatto risiedere la salvezza per tutti e apre il passaggio al suo Regno.

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25 Luglio 2010 IX Domenica dopo Pentecoste

25 Luglio 2010  - IX Domenica dopo Pentecoste – Anno C      


1. La nona domenica “dopo Pentecoste”     

 Presenta, con l’elezione regale di Davide, l’annunzio profetico dell’invio nel mondo di Gesù, il Figlio di Dio, il re e messia, liberatore dell’intera umanità. Il Lezionario riporta i seguenti brani scritturistici: Lettura: 1Samuele 16,1-13; Salmo 88; Epistola: 2Timoteo 2,8-13; Vangelo: Matteo 22,41-46. Nella Messa vigiliare del sabato si legge Luca 24,13b.36-48 come Vangelo della Risurrezione. Le orazioni e i canti della Messa sono quelli della XVII domenica del Tempo “per annum” nel Messale ambrosiano.    


2. Vangelo secondo Matteo 22,41-46      

In quel tempo.  41Mentre i farisei erano riuniti insieme, il Signore Gesù chiese loro: 42«Che cosa pensate del Cristo? Di chi è figlio?». Gli risposero: «Di Davide». 43Disse loro: «Come mai allora Davide, mosso dallo Spirito, lo chiama Signore, dicendo: / 44“Disse il Signore al mio Signore: / Siedi alla mia destra / finché io ponga i tuoi nemici / sotto i tuoi piedi”? 45Se dunque Davide lo chiama Signore, come può essere suo figlio?». 46Nessuno era in grado di rispondergli e, da quel giorno, nessuno osò più interrogarlo.    


3. Commento liturgico-pastorale      

Il brano conclude la serie dei dibattiti che oppongono soprattutto i farisei a Gesù e avvia, con il cap. 23, i discorsi polemici con i quali il Signore li smaschera nella loro autosufficienza e nella loro pretesa di conoscere e possedere la volontà di Dio. Può sorprendere come qui è Gesù a porre domande ai suoi avversari che, alla fine, non troveranno risposta. La prima domanda riguarda la figliolanza del “Cristo”, il vocabolo di origine greca che traduce quello ebraico di “messia” (v 42). È noto infatti come ai tempi di Gesù fosse viva più che mai l’attesa per la venuta del messia, letteralmente il “consacrato” inviato da Dio per risollevare le sorti del suo Popolo. Inserendosi nell’attesa della sua gente, Gesù pone dunque la domanda sull’origine del messia e alla quale i farisei rispondono: “Di Davide” sulla scorta della rivelazione vetero-testamentaria (2Samuele 7,12ss; Isaia 11,1; Geremia 23,5; Ezechiele 34,23; 37,24; Salmo 89,20). Questa riguarda sostanzialmente la promessa fatta da Dio di suscitare dalla stirpe di Davide il futuro messia e re del popolo il cui regno non avrebbe mai visto la fine. Di qui l’usanza, tipicamente semitica, di chiamare “figlio di Davide” il messia.    
    I vv 43-45 contengono domande con le quali Gesù intende fare ulteriori passi sulla via dell’identificazione dell’origine del messia. Egli è certamente della stirpe di Davide e, dunque, “discendente di Davide”. Un dato, questo, essenziale nella prima trasmissione della fede fatta dagli Apostoli (cfr. Epistola: 2Timoteo 2,8). Ma tale individuazione non dice tutto sul messia! Per questo, allo scopo di favorire un ulteriore progresso, Gesù cita il primo versetto del Salmo 110 composto, secondo gli antichi, da Davide: «Oracolo del Signore al mio signore: “Siedi alla mia destra finché io ponga i tuoi nemici a sgabello dei tuoi piedi”». In esso, dunque, Davide riferisce tali parole che provengono da Dio a un personaggio che lui chiama “mio signore” e che perciò non può essere suo figlio. A questa obiezione i farisei non sanno e non possono rispondere, perché la risposta la potrà dare solo chi crede che Gesù, il messia, è il Figlio di Dio.    
     Nel ripercorrere i momenti più significativi della storia della salvezza, in questa nona domenica del Tempo “dopo Pentecoste”, le divine Scritture ci presentano la figura di Davide. Egli, il “più piccolo” tra i suoi fratelli, incaricato dell’umile compito di “pascolare il gregge” (Lettura: 1Samuele 16,11), viene scelto da Dio, il quale, a differenza dell’uomo che “vede l’apparenza”, “vede il cuore” (v 7), quale “re” del suo popolo, anzi “il più alto tra i re della terra” (Salmo 88,28).     Su di lui, consacrato con l’olio che il profeta Samuele gli versa sul capo, “irruppe” lo spirito del Signore (cfr. 1Samuele 16,13). In tal modo Davide diviene come un annuncio profetico di quel re il cui regno non sarà mai scosso e che noi crediamo essere Gesù di Nazaret inserito nella “discendenza davidica” al fine di mostrare come realizzate le divine promesse riguardanti il re-messia liberatore del suo popolo.    
     In Gesù queste divine promesse hanno trovato il pieno compimento e superamento. Egli, infatti, non è soltanto “figlio di Davide”, egli è il Figlio di Dio che nella sua croce ha compiuto la liberazione definitiva dell’intera umanità ponendo i suoi “nemici” ovvero satana, il peccato, la morte, sotto i suoi piedi (cfr. Salmo 110,1). Perciò, nella sua risurrezione, Dio lo ha fatto “sedere alla sua destra” quale Kyrios e Signore di un regno che non avrà mai fine, il regno dei Cieli! In esso si entra già da ora con la piena adesione di fede in Gesù, il messia, il Figlio di Dio, e con la rigenerazione battesimale che aggrega alla Chiesa, autentico “germoglio” del Regno.     Perciò, diversamente dai farisei che non hanno potuto rispondere alle domande di Gesù, noi possiamo dire che “in” Gesù, il Kyrios risorto dai morti, si raggiunge “la salvezza” insieme “alla gloria eterna” (2Timoteo 2,10). Davanti al Signore riconosciamo dette per noi e per la comunità cristiana di tutti i tempi le parole profetiche con le quali prende avvio oggi la celebrazione eucaristica: «Non temere, Sion, non lasciarti cadere le braccia! Il Signore tuo Dio in mezzo a te è un salvatore potente, per te esulterà di gioia» (Canto “All’ingresso”).

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18 luglio 2010 VIII Domenica dopo Pentecoste

 
1. L’ottava domenica “dopo Pentecoste” 

L’istituzione della monarchia nel popolo d’Israele, di cui parla la Lettura vetero-testamentaria, rappresenta un ulteriore sviluppo della storia della salvezza. Essa annunzia l’inaugurazione, nella Pasqua del Signore, del regno di Dio che non avrà mai fine. I testi biblici offerti dal Lezionario sono: Lettura: 1Samuele 8,1-22a; Salmo 88; Epistola: 1Timoteo 2,1-8; Vangelo: Matteo 22,15-22. Alla Messa vigiliare del sabato viene proclamato: Luca 24,13-35, quale Vangelo della Risurrezione. Le orazioni e i canti per la Messa sono quelli della XVI Domenica del Tempo “per annum” nel Messale ambrosiano.    

2. Vangelo secondo Matteo 22,15-22      

In quel tempo. 15I farisei se ne andarono e tennero consiglio per vedere come cogliere in fallo il Signore Gesù nei suoi discorsi. 16Mandarono dunque da lui i propri discepoli, con gli erodiani, a dirgli: «Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità. Tu non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno. 17Dunque, di’ a noi il tuo parere: è lecito, o no, pagare il tributo a Cesare?». 18Ma Gesù, conoscendo la loro malizia, rispose: «Ipocriti, perché volete mettermi alla prova? 19Mostratemi la moneta del tributo». Ed essi gli presentarono un denaro.  20Egli domandò loro: «Questa immagine e l’iscrizione, di chi sono?». 21Gli risposero: «Di Cesare». Allora disse loro: «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio». 22 A queste parole rimasero meravigliati, lo lasciarono e se ne andarono.    

3. Commento liturgico-pastorale
 
Il brano evangelico fa parte di tutta una serie di dispute e di contrasti che di volta in volta oppongono Gesù ad avversari via via più numerosi e mal disposti nei suoi confronti.  È il caso dei farisei che si radunano per studiare le modalità al fine di cogliere «in fallo il Signore Gesù nei suoi discorsi» (v 15).
Di qui la domanda insidiosa fatta a Gesù circa la liceità o meno del tributo da pagare all’imperatore romano (v 17) e che non permetteva via di scampo. Un sì avrebbe attirato su Gesù la condanna di misconoscere la sovranità di Dio su Israele. Un no avrebbe rappresentato un atto sovversivo contro il potere costituito.
La domanda è preceduta da una specie di  captatio benevolentiae (v 16) che, pur viziata da intenzione malvagia, alla fine diviene un pubblico riconoscimento sulla predicazione di Gesù, libera nei confronti di tutti e specialmente conforme alla volontà di Dio.
La risposta di Gesù dapprima smaschera le cattive intenzioni del cuore dei suoi interlocutori (v 18) e, una volta avuta tra mano la moneta del tributo che i Romani esigevano ogni anno, da tutti, a partire dai 12 ai 65 anni, scolpisce e fissa il suo insegnamento: «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio» (v 21). Il v 22 registra la reazione dei suoi cattivi interlocutori: la “meraviglia” fatta di sorpresa e di amarezza per aver fallito nel loro intento.
Il brano evangelico va ora collocato, con gli altri testi biblici oggi proclamati, nel tempo liturgico in atto, vale a dire quello “Dopo Pentecoste” che fa ripercorrere l’opera divina di salvezza. Una tappa di notevole importanza nel cammino della salvezza è indubbiamente segnata nell’introduzione, nel popolo d’Israele, della “monarchia” al tempo del profeta Samuele e di cui ci riferisce la Lettura.
Fino a quel momento non è esistito in Israele, a differenza degli altri popoli, la figura del “re” terreno in quanto Jahweh, solo, regnava sul popolo da lui conquistato «con mano potente e braccio forte», strappato al faraone d’Egitto, liberato da tutti i nemici, dotato di una terra dove “scorre latte e miele”. Perciò Israele poteva dire in tutta verità: «Sei tu, Signore, la guida del tuo popolo» (Ritornello al Salmo responsoriale).
Nelle parole di Dio a Samuele si avverte come la delusione dell’Altissimo nei confronti del suo popolo: «Ascolta la voce del popolo, qualunque cosa ti dicano, perché non hanno rigettato te, ma hanno rigettato me, perché io non regni più su di loro» (1Samuele 8,7).
Della concezione riguardante la sovranità esclusiva di Jahweh su Israele si avverte ancora l’eco nella domanda-trabocchetto che i farisei fanno a Gesù: «È lecito, o no, pagare il tributo a Cesare?» (Matteo 22,17). È un modo di pensare che ha un valore non solo politico ma, come prima si ricordava, anche “teologico” perché evidenzia l’unicità di Israele a partire proprio dal suo essere “di” Dio, sua proprietà. Sicché non si poteva pensare che questo popolo avesse altro re al di fuori di Jahweh.
È quanto sostenevano al tempo di Gesù, anche con l’insurrezione armata contro i Romani, il gruppo degli Zeloti! Nella sua risposta «Rendete a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio» Gesù dà un’indicazione, tra l’altro, valida per tutti i tempi. Egli riconosce che “Cesare” ha e detiene un vero potere, quello significato nella “immagine” e nella “iscrizione” impresse sulla “moneta del tributo”.
Così è per la comunità cristiana delle origini. L’apostolo Paolo riconosce il potere civile e, per questo, raccomanda che «si facciano domande, ordinando suppliche, preghiere e ringraziamenti… per i re e per tutti quelli che stanno al potere» (Epistola: 1Tim 2,1). 
Il cuore della risposta del Signore è però l’affermazione su Dio, sulla sua sovranità che non è significata, come per quella provvisoria di Cesare, da un’immagine impressa sul metallo, ma risplende nel cielo, in terra, in tutto il creato, su ogni uomo, anche su Cesare. Così Gesù ha insegnato ai suoi discepoli a rispettare, a onorare e a obbedire a coloro che esercitano sulla terra, il potere, ma a vivere la giusta proporzione tra il “potere terreno” esercitato dai re, di per sé provvisorio e, dunque, limitato, e quello divino che è su tutto e su tutti e per sempre, cosa che gli riconoscono anche i suoi avversari (v 16).
Tra la sovranità esercitata dai re di questo mondo e che spesso è fuorviante e tirannica (cfr. 1Samuele) e la sovranità di Dio, il discepolo di Gesù d’ora in poi sa  a chi riconoscere il primato e a chi “pagare il tributo”. A «Cesare quello a lui dovuto perché possa svolgere il suo servizio a favore del bene comune, a Dio il tributo di tutto sé stesso, il tributo dell’obbedienza e della stessa vita». È la norma “apostolica” alla quale occorre attenersi. Si rispetta e si prega per l’autorità civile «perché possiamo condurre una vita calma e tranquilla, dignitosa e dedicata a Dio» (1Timoteo 2,2).

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11 luglio 2010 - VII domenica dopo Pentecoste

11 Luglio 2010  - VII domenica dopo Pentecoste – Anno C
 
1. La settima domenica “dopo Pentecoste”
 
È contrassegnata da Giosuè, successore di Mosè, che nella sua veste di guida intende portare il suo popolo a “servire il Signore”, a vivere cioè nella fedeltà a lui e alla sua Parola. In questo Giosiè è figura profetica del Signore Gesù, la “guida” data da Dio per l’intera umanità. Egli sollecita ogni uomo a decidersi in ordine alla sua persona e al suo Vangelo di salvezza. Il Lezionario prevede i seguenti brani scritturistici: Lettura: Giosuè 24,1-2a.15b-27; Salmo 104; Epistola: 1Tessalonicesi 1,2-10; Vangelo: Giovanni 6,59-69. Alla Messa vespertina del sabato viene proclamato: Giovanni 20,11-18 quale Vangelo della Risurrezione. I canti e le orazioni della Messa sono quelli della XV domenica del Tempo “per annum” nel Messale ambrosiano.  

 2. Vangelo secondo Giovanni 6,59-69
 
In quel tempo. Il Signore 59Gesù disse queste cose, insegnando nella sinagoga a Cafàrnao. 60Molti dei suoi discepoli, dopo aver ascoltato, dissero: «Questa parola è dura! Chi può ascoltarla?». 61Gesù, sapendo dentro di sé che i suoi discepoli mormoravano riguardo a questo, disse loro: «Questo vi scandalizza? 62E se vedeste il Figlio dell’uomo salire là dov’era prima? 63È lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla; le parole che io vi ho detto sono spirito e sono vita. 64Ma tra voi vi sono alcuni che non credono». Gesù infatti sapeva fin da principio chi erano quelli che non credevano e chi era colui che lo avrebbe tradito. 65E diceva: «Per questo vi ho detto che nessuno può venire a me, se non gli è concesso dal Padre».    
66Da quel momento molti dei suoi discepoli tornarono indietro e non andavano più con lui. 67Disse allora Gesù ai Dodici: «Volete andarvene anche voi?». 68Gli rispose Simon Pietro: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna 69e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il santo di Dio».    

3. Commento liturgico-pastorale
 
Il brano riporta la parte conclusiva del discorso “del pane della vita” che occupa l’intero sesto capitolo del Vangelo secondo Giovanni. In particolare i vv 59-65, frammentati da alcune osservazioni dell’Evangelista, riportano le parole di Gesù mentre i vv 67-69 riferiscono la decisione di Pietro e dei dodici di continuare a seguirlo.    
Ambientato nella sinagoga di Cafarnao l’impegnativo discorso di autorivelazione di Gesù quale “pane disceso dal cielo” (v 58) trova resistenza, in qualche modo inaspettata, nella stessa cerchia dei suoi “discepoli” (v 60). A costoro Gesù ribatte affermando l’incapacità della “carne”, vale a dire dell’uomo nella sua dimensione puramente terrena, di accogliere le sue parole relative, s’intende, al dono della “sua carne per la vita del mondo” e che “sono spirito e sono vita” (v 63). È necessario, perciò, che il Padre, con il suo dono di grazia, apra i cuori all’intelligenza della fede (v 65).   
I vv 66-69, infine, riportano la constatazione che, “da quel momento, molti dei suoi discepoli” si allontanano definitivamente da Gesù (v 66) dicendo così il loro rifiuto a credere in lui come il portatore della “vita eterna” nel mondo. L’attenzione ora si sposta sulla cerchia dei Dodici, i più intimi e vicini a Gesù. Egli, infatti, è ben consapevole che l’incredulità e, perfino il tradimento, può attecchire anche nei cuori dei suoi apostoli!  
Per questo alla domanda di Gesù ai Dodici: «Volete andarvene anche voi» (v 67) risponde, a nome di tutti, Pietro professando la fede in lui: «tu solo hai parole di vita eterna» (vv 67-68) e la conseguente scelta di continuare a seguirlo e a stare con lui.    
Nel ripercorrere la storia della salvezza culminata nella Pasqua del Signore e nell’effusione del suo Spirito, siamo inevitabilmente portati a verificare, come Chiesa e come singoli, la nostra “scelta” in ordine alla fede, vale a dire, all’adesione al Signore
Gesù e a quanto lui ha compiuto per la nostra salvezza. Il testo evangelico ci pone, al pari dei discepoli che attorniavano Gesù nella sinagoga di Cafarnao, di fronte alla scelta o al rifiuto di lui che ha la “pretesa” di essere il Salvatore unico del mondo anzi di essere l’unico a poter donare il cibo di “vita eterna” che è la sua stessa “carne”.     Gesù, il Rivelatore unico del Padre, nutre anzitutto con il cibo della sua Parola, resa viva nello Spirito, come a dire che egli non è soltanto l’inviato di Dio, ma lui stesso è la vita che Dio, il Padre, dona al mondo. Siamo così messi di fronte all’alternativa: credere in Gesù e, ricevere con la sua Parola il dono della “vita eterna”, oppure rimanere nell’inconsistenza della “carne”, della nostra umana presunzione.    
La Lettura, al riguardo, ci presenta la scelta a cui Giosuè sottopose il popolo d’Israele in un momento cruciale della sua storia: «Scegliete oggi chi servire: se gli dei che i vostri padri hanno servito», o “il Signore” (Giosuè 24,15). Il testo biblico ci informa che tutto il popolo rispose a Giosuè: «Noi serviremo il Signore, nostro Dio, e ascolteremo la sua voce» (v 24).    
È la risposta che in ogni momento tutti noi siamo chiamati a dare a Gesù, scegliendo di seguire lui, il suo Vangelo e, di conseguenza, rifiutando ogni altra sequela, ogni altro “vangelo”. Una simile risposta va evidentemente data con libera decisione ma non senza l’impulso divino, quello che ha spinto Pietro, portavoce della Chiesa, a dichiarare con generoso moto del cuore: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna» (Giovanni 6,68).    
La stessa dinamica viene registrata nella prima comunità cristiana di Tessalonica. L’Apostolo loda la prontezza dei discepoli di quella città nel “convertirsi dagli idoli” a Dio, per servire il “Dio vivo e vero” (Epistola: 1Tessalonicesi 1,9). Questa prontezza però è propiziata dal fatto che essi sono stati “amati da Dio e scelti da lui” (v 4). In tal modo la predicazione evangelica di Paolo è stata pienamente accolta «in mezzo a grandi prove, con la gioia dello Spirito Santo» (v 6).    
Questa scelta è a noi posta ogni domenica, nella celebrazione eucaristica, nella quale il Signore che ha parole di vita eterna, nutre questa “vita” da noi accolta nella fede, con il suo stesso Corpo e il suo Sangue. Nessuno si “scandalizzi” di fronte a ciò, nessuno abbandoni il Signore, ma supplichiamo il Padre, perché con la grazia dello Spirito ci attiri irresistibilmente verso il suo Figlio Gesù “il santo di Dio”, l’unico a possedere e a donare al mondo “parole di vita eterna”.

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4 luglio - VI Domenica dopo Pentecoste

 

1. La sesta domenica “dopo Pentecoste”      

L’alleanza stipulata da Mosè tra Dio e Israele rappresenta un momento essenziale nel graduale svelarsi del volere salvifico di Dio. Essa, in realtà, prelude all’Alleanza “nuova ed eterna” sancita da Gesù nel sangue sparso sulla croce. Il Lezionario prevede i seguenti brani biblici: Lettura: Esodo 24,3-18; Salmo 49; Epistola: Ebrei 8,6-13a; Vangelo: Giovanni 19,30-35. Il Vangelo della Risurrezione da proclamare nella Messa vespertina del sabato è presa da: Matteo 28,8-10. Le orazioni e i canti per la Messa sono quelli della XIV Domenica del Tempo “per annum” nel Messale ambrosiano.

  


2. Vangelo secondo Giovanni 19,30-35    

In quel tempo. 30Dopo aver preso l’aceto, Gesù disse: «È compiuto!». E, chinato il capo, consegnò lo spirito. 31Era il giorno della Parasceve e i Giudei, perché i corpi non rimanessero sulla croce durante il sabato – era infatti un giorno solenne quel sabato –, chiesero a Pilato che fossero spezzate loro le gambe e fossero portati via. 32Vennero dunque i soldati e spezzarono le gambe all’uno e all’altro che erano stati crocifissi insieme con lui. 33Venuti però da Gesù, vedendo che era già morto, non gli spezzarono le gambe, 34ma uno dei soldati con una lancia gli colpì il fianco, e subito ne uscì sangue e acqua. 35Chi ha visto ne dà testimonianza e la sua testimonianza è vera; egli sa che dice il vero, perché anche voi crediate.    


3. Commento liturgico-pastorale  
Il testo evangelico riporta al v 30 la scena solenne della morte del Signore da lui stesso intesa, con le ultime parole: “È compiuto!”, quale compimento dell’”opera” che il Padre gli ha affidato: la salvezza del mondo. La sua morte è significata dal gesto di “chinare il capo” e di “consegnare lo spirito” quale preludio all’effusione dello Spirito Santo estensore della salvezza sino alla fine dei tempi.    
I vv 31-32 relativi alla richiesta fatta a Pilato dai capi del popolo di rimuovere i corpi dei crocifissi, a motivo dell’avvio delle celebrazioni pasquali, preparano l’evento della trafittura del “fianco” di Gesù e della misteriosa fuoriuscita di “sangue e acqua” (vv 33-34), particolari, questi, riferiti dal solo Giovanni, con il dichiarato intento di condurre il lettore e l’ascoltatore a “credere” (v 35).    
Particolari che, a ben guardare, vengono illustrati dall’evangelista sulla base di precisi riferimenti biblici. A Gesù, infatti, i soldati “non spezzarono le gambe” compiendo in tal modo ciò che la Scrittura prescriveva a riguardo dell’agnello pasquale (Esodo 12,46), ma con una lancia Gesù viene colpito al fianco nella direzione del cuore e, da quella apertura uscì “sangue e acqua” e verso di essa, commenterà l’evangelista al v 37: «volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto» (cfr. Zaccaria 12,10) indicando con ciò l’adesione di tutte le genti a Gesù.    
Circa la fuoriuscita del sangue e dell’acqua essa ha dato origine a varie interpretazioni anche simboliche. Il “sangue” simbolo della vita dice il dono che Gesù fa di sé, della sua vita, come vero agnello pasquale per la salvezza del mondo. L’acqua significa il dono dello Spirito promesso da Gesù per condurre tutti a credere in lui, e così potersi immergere nella salvezza racchiusa nella sua morte.    
Nel ripercorrere l’intero cammino della storia della salvezza scaturita dal cuore della Trinità la presente domenica pone in risalto la figura e l’opera di Mosè quale guida scelta da Dio non solo per condurre fuori dalla schiavitù d’Egitto il suo popolo, ma soprattutto per fare di quella gente da lui stesso liberata, il “suo” proprio popolo, quello che gli appartiene e al quale egli vuole legarsi con un vincolo indistruttibile qual è l’Alleanza.    
Con essa Dio si impegna a essere sempre “con” il suo popolo, al quale dona una “Legge” con precetti e norme che lo distinguono tra tutti i popoli della terra. Il popolo da parte sua è tenuto a mantenere fede all’alleanza mediante l’obbedienza alla Legge data da Dio: «Tutti i comandamenti che il Signore ha dato, noi li eseguiremo» (Esodo 24,3).    
Mosè, sigilla l’alleanza con l’offerta “di olocausti e sacrifici di giovenche” il cui sangue versa sull’altare e con il quale asperge il popolo a indicare il suggello perenne e infrangibile del loro legame. «Ecco il sangue dell’alleanza che il Signore ha concluso con voi sulla base di tutte queste parole» (Esodo 24,8).    
Questo evento carico di conseguenze  per la storia di Israele, è in realtà come un annuncio profetico dell’”alleanza migliore” (Epistola: Ebrei 8,6), immutabile e definitiva, stipulata tra Dio e l’intera umanità per la “mediazione” non di un uomo per quanto grande qual è Mosè, ma di Gesù Cristo, il Figlio stesso di Dio!    
Diversamente da Mosè che stabilì l’alleanza nel sangue di animali inconsapevoli, Gesù la sancì, con piena consapevolezza, nel suo sangue: “Sangue dell’Alleanza” (cfr. Matteo 26,28; Marco 14,24). Per questo il suo sangue, sparso sulla croce e fuoriuscito dal suo costato aperto dalla lancia del soldato (Giovanni 19,34), insieme con l’acqua, simbolo dello Spirito Santo è, perciò, il vincolo nuovo e indistruttibile che, da ora in poi, legherà per sempre Dio al suo popolo, quello raggiunto dal sangue vivificante del suo Figlio e che porta impresso “nella mente e nel cuore la nuova Legge” (cfr. Ebrei 8,10), lo Spirito dell’amore!    
Gesù dunque è il “vero” Mosè, l’unico intermediario o “mediatore” tra Dio e gli uomini che egli unisce in un vincolo “nuovo ed eterno”, che ha come segno perenne ed efficace il suo “sangue”, vale a dire la sua vita offerta in obbedienza al Padre e per l’amore bruciante per gli uomini suoi fratelli.    
Nella partecipazione all’Eucaristia, bevendo al calice, quello del sangue “per la nuova ed eterna Alleanza”, tutti avvertiamo la bellezza di appartenere al popolo il cui unico Dio è il Signore. A lui, perciò, la Chiesa in preghiera così si rivolge: «Tu sei, o Dio, la mia protezione, il mio rifugio, la salvezza della mia vita. Tu sei la mia forza e la mia difesa; nel tuo nome mi guidi e mi sostieni» (canto All’Ingresso).    
Nello stesso tempo, avvertiamo la responsabilità di tale appartenenza e il conseguente impegno di “fedeltà”. Per questo preghiamo: «Larga scenda, o Dio, la tua desiderata benedizione e confermi i cuori dei credenti, perché non si allontanino mai dal tuo volere e si allietino sempre dei tuoi doni generosi» (orazione A conclusione della Liturgia della Parola).

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