I celeberrimi personaggi di PacMan, la bocca vorace che mangia palline. Sotto, il filmato presenta Monkey Island 2, episodio di un’avventura prodotta da George Lucas.
Va di moda dividere il mondo contemporaneo in due schiere: i “nativi digitali”, nati dagli anni Novanta in qua, e gli “immigrati digitali”, ovvero gli adulti nati prima. Il senso della divisione – coniata dall’americano Marc Prensky nel 2001 e da allora divenuta un luogo comune – sta nell’attribuire agli “immigrati digitali” una insostenibile fatica a padroneggiare tecnologie e linguaggi in cui i “nativi”, invece, si muovono come a casa loro. Di qui un ineluttabile abisso, un “divario digitale” tra generazioni che non si capiscono più.
Adottare alla lettera questa distinzione è ingenuo e soprattutto
inesatto proprio per quel che riguarda gli “immigrati digitali”. Tanto
per cominciare, praticamente tutte le innovazioni dell’era digitale si
devono proprio a loro, agli adulti che quest’era l’hanno inaugurata e la
fanno crescere. In secondo luogo, proprio il terreno dei videogiochi,
di cui qui ci occupiamo, sbaraglia qualsiasi rigida barriera visto che,
anche in Italia, questo mondo esiste e prospera almeno dagli anni
Settanta: i papà dei “nativi digitali” sono quei bambini e ragazzi che
da Pong (1972) a Space Invaders (1978), da PacMac (1980) a Monkey Island
(1990) e a Wolfenstein 3d (1992), hanno fatto propria la cultura
dell’interattività mentre l’internet e il web erano ancora di là da
venire. Questo video fa vedere come, compatibilmente con le qualità
video e audio dei pc di allora, alcune “storie digitali” fossero
incantevoli già all’inizio degli anni Novanta:
Non per niente gli ex bambini degli anni Ottanta sono tuttora acquirenti
abituali di videogiochi (l’età media di chi li usa in Italia s’aggira
sui 30 anni) e, certamente, sono loro che hanno introdotto i propri
figli a questo mondo. Anche per questo una famiglia su due, oggi, ha in
casa almeno una console.
Quindi, papà e mamme, non accettate di sentirvi escludere da un mondo
che è legittimamente vostro. Quella di essere “immigrati digitali”, se
deve equivalere a sentirsi incapaci (o, peggio, giustificati) rispetto
al capire che cosa fanno i figli davanti agli schermi, è una panzana
bella e buona.
Detto questo, i “nativi digitali” esistono ed è un discorso molto serio, di cui riparleremo. Seriamente.
Pubblicato il
11 maggio 2011 - Commenti
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