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Telefoni? No, terminali

Immagini dalla campagna pubblicitaria di 1st Fone
Immagini dalla campagna pubblicitaria di 1st Fone

Bambini e telefono. Secondo un report recente di Telefono Azzurro, il 53,7% dei bambini e il 97,8% degli adolescenti italiani ne possiedono uno. Sarebbe interessante verificare quante e quali funzioni svolgono questi apparecchi, che nella grande maggioranza dei casi sono in grado di svolgere ben altre funzioni oltre a quella di fare e ricevere chiamate: videogiochi, fotografie, filmati, accesso a internet e ai social media.

Dalla Gran Bretagna, secondo quanto riferiva il Corriere della Sera qualche giorno fa, arriva la novità del “1st Fone”, un apparecchio abilitato soltanto a telefonare, e soltanto a pochi numeri predeterminati: c’è un “tasto mamma”, un “tasto papà”, uno dedicato ai nonni o a chi si vuole, e nient’altro.

La nostra voglia di sapere dove sono e che cosa fanno i nostri ragazzi ha condizionato sempre più la diffusione dei cellulari in mano a giovani e giovanissimi. Essendo però telefoni portatili, la localizzazione del possessore resta affidata alla fiducia: “Dove sei?” è la frase più gettonata, ma anche quella che può ricevere le risposte più evasive.

L’idea dei britannici è quella di limitare il traffico telefonico alle chiamate di prima necessità. Non so se quei telefoni arriveranno mai in Italia, Paese telefonico per eccellenza (siamo i primi al mondo per numero di utenze in rapporto alla popolazione), ma lo spunto è buono per riflettere sulla reale impossibilità, in famiglia, di governare l’accesso dei più giovani alla rete globale: per riuscirci un telefono basta e avanza.

Sappiamo quali funzioni sono abilitate nei cellulari dei nostri figli? Sappiamo se sono in grado di acquisire applicazioni, magari gratuite, in qualche caso consentite dall’inserimento distratto del nostro numero di carta di credito?

Il problema non è, in sé, soltanto quello di poter accedere alla rete. È piuttosto quello di avvertire la responsabilità delle conseguenze che si innescano a partire da quegli accessi: il consenso esplicito o implicito a divulgare dati personali che spesso sono anche fotografie, filmati, spezzoni di vita privata che una volta immessi nella rete non si possono più controllare.

Una mamma mi raccontava l’episodio, accaduto a scuola, di una ragazzina quattordicenne che aveva spedito una propria foto intima al suo ragazzo, come gesto privato di affetto. Solo che il destinatario l’aveva girata al migliore amico, come “trofeo” condiviso. E l’amico a sua volta l’aveva inoltrata, fino al punto che della foto, pochi giorni dopo giravano un centinaio di esemplari.

La questione è finita in mano alla polizia, dal momento che inoltrare una foto del genere equivale a diffondere materiale pedopornografico. Ma di questa vicenda è lampante soprattutto l’incoscienza dei protagonisti, incapaci di distinguere fra un gesto discutibile, sì, ma privato, e un atto pubblico dalle gravi conseguenze.

Non voglio spaventare nessuno, ma occorre essere responsabili per sé e per i più giovani. Una seria conversazione sull’uso dei terminali portatili s’impone, anche su cose che sembrano banali: giochi innocenti come Angry Birds trasmettono a terze parti nome utente e password, lista contatti, posizione dell’utente e id del telefono. Sono dati sensibili, che alterano non poco il concetto di “gratis” e di privacy.

Pubblicato il 14 maggio 2013 - Commenti (0)
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Giuseppe Romano

Giuseppe Romano insegna Lettura e creazione di testi interattivi all'Università Cattolica di Milano e collabora con quotidiani e riviste su temi riguardanti l’era digitale, la comunicazione interattiva, i videogame, i fenomeni di massa.

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