16
apr
Che cosa sia accaduto nella mente delle due adolescenti friulane che hanno ucciso e poi se ne sono andate a girovagare non è dato sapere, al momento, nemmeno dal punto di vista fattuale, figurarsi da quello interiore.
Resta, tra le poche dichiarazioni riportate dai giornali, la frase “ci sembrava di essere in Grand Theft Auto”, ovvero nel videogioco indubbiamente “violento” di cui abbiamo varie volte, l’ultima recentemente.
Fin troppo facile saltare a bordo del carro dei “visto che succede con i videogiochi?”. A me pare più proficuo partire invece dall’evidenza di un comportamento così insensato da trovare paragone soltanto in vicende irreali. Non conosco – non conosciamo – dettagli sull’esistenza che le due ragazze conducevano, ma tutto lascia pensare che quanto accaduto rientri in un quadro di profonda distorsione della realtà a vantaggio, se così si può dire, di una fantasia che vuol imporsi a ogni costo.
I videogiochi possono contribuire a creare realtà alternative, certo. Ma è anche vero il contrario: il mondo è pieno di persone che, volendo evadere dalla realtà, si tuffano in mondi virtuali dove nessuna “dura verità” può contraddirle. E smarriscono la distinzione fra i due piani.
Credo che sia questo il pericolo più grande: dove si vuol vivere, nella realtà o nelle fantasie? L’assistenza dei familiari, dei formatori, verso i giovani dovrebbe essere un accompagnamento sui sentieri della vita vera. A volte è l’esatto contrario, e la vita diventa un incubo da cui si vorrebbe fuggire. Altre volte si fa del proprio meglio ma il malessere si fa strada lo stesso. In entrambi i casi l’esistenza può diventare un assurdo videogioco, ma i videogiochi c'entrano poco.
Pubblicato il
16 aprile 2013 - Commenti
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18
lug
La signora che ha scritto questo libro è autrice di videogiochi e dirige un istituto scientifico di studi sul futuro
È da poco uscito un libro, di Jane McGonigal, che s’intitola “La realtà in gioco” (Apogeo 2012) e contiene interessanti riflessioni sul rapporto tra videogiochi e realtà.
Si parte da un concetto inoppugnabile: i giochi danno molta soddisfazione, la vita quotidiana spesso molto meno. E da qui nasce la domanda: ma non potremmo far sì che la realtà sia più simile a un gioco?
La questione fondamentale sembra essere riprodurre quei due requisiti che sono, secondo l’autrice (sostenuta da ampie ricerche), i due fondamenti della “felicità” che si prova giocando: “flusso” e “fierezza”. Il primo è la gioia di giocare, la seconda è la gioia di superare ostacoli, di esserne capaci e riuscirci.
Il paragone con la realtà può sembrare esagerato, e in effetti scricchiola in qualche aspetto, ma è una buona provocazione. Su un punto però mi sembra – sono arrivato più o meno a metà del libro, potrei avere altre sorprese – di poter concordare appieno, ed è la considerazione che l’appagamento che si prova giocando è connesso soprattutto al fatto di svolgere bene il proprio “lavoro” di giocatore , una soddisfazione intima. Un tipo di felicità assai più duraturo che quello derivante dal conseguimento di beni estrinseci come oggetti, promozioni, successo. McGonigal cita a proposito una ricerca statunitense del 2009, svolta nell’Università di Rochester, che ha seguito per due anni la vita di 150 diplomati al college, interpellandoli regolarmente per documentare il loro livello di felicità commisurata agli obiettivi che ciascuno si era prefisso. La ricerca confrontava in che misura i ragazzi ottenevano gratificazioni estrinseche o intrinseche e quanto ciò arrecava soddisfazione e benessere. La conclusione è lapidaria: “Il raggiungimento di obiettivi estrinseci, da “sogno americano” – denaro, fama ed essere considerati fisicamente attraenti dagli altri – non contribuisce in alcun modo alla felicità”.
Mica male. Se giocare vuol dire mettersi in gioco alla ricerca di ciò che ci riempie e dura, allora sì che sarebbe interessante far somigliare la vita a un gioco. E creare giochi che aiutino a vivere la realtà, anziché allontanarcene ed evadere.
Pubblicato il
18 luglio 2012 - Commenti
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