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La conservazione del grano nell'antichità
Foto: Thinkstock
Per preservare il grano da possibili furti e dalle nefaste variazioni giornaliere e stagionali della temperatura e della umidità, gli antichi romani erano soliti sotterrarlo in fosse asciutte e ben chiuse, a forma di un tronco di cono di circa 5 metri di diametro alla base e profondo una decina di metri. Le fosse venivano riempite a metà e, una volta chiuse, le derrate immagazzinate (grano,orzo, miglio, fave) rimanevano isolate dall’ambiente esterno. La traspirazione vegetale della massa depositata ben presto esauriva l’ossigeno dell’aria rimasta nella parte superiore della fossa, creando così l’anidride carbonica (CO2) che procurava la morte di larve e parassiti infossati con le stesse derrate.
L’ambiente diventava sterile e garantiva alle derrate una lunga conservazione, con una durata, secondo Varrone, di 50 anni per il grano e di 100 anni per il miglio. Plinio parla di 120 anni per le fave.
Prima di poter accedere al prelevamento del grano era necessario, però, un periodo di circa 3 ore perché la CO2 svaporasse, altrimenti risultava pericoloso calare subito sul fondo gli operai addetti allo svuotamento, senza esporli al pericolo di mortale asfissia per la presenza di CO2 nell’ambiente. Allora si lasciava la fossa aperta e con una funicella, periodicamente, si calava un lume acceso che, in presenza di CO2, subito si spegneva. Quando il lume non si spegneva più, era il segno dell’avvenuta bonifica della fossa e consentiva finalmente l’inizio delle operazioni di svuotamento.
Pubblicato il 18 settembre 2012 - Commenti (0)