09
nov
Non sono infrequenti le consultazioni in cui i genitori vengono a parlare di ragazzi che li picchiano. Non una sola volta, ma con qualche frequenza. Di fronte a proibizioni o richieste ripetute da parte di mamma o papà. In genere i figli sono maschi alle soglie dell’adolescenza (12 -14 anni). Ragazzini non ancora maturi sul piano fisico, ma che sentono di poter dire attraverso il loro corpo tutta la rabbia per essere stati contrastati. Come se incominciassero a capire che i criteri dei genitori sono diversi dai loro e che, più delle parole, è la reazione fisica che può dire direttamente ciò che sentono dentro. Non sembra ancora acquisita quella consapevolezza della forza muscolare dell’adolescente, che lo porta ad esprimerla solo in situazioni ‘regolamentate’ (lo sport, il gioco tra coetanei…) ed eccezionalmente a scopo di nuocere, comunque non verso gli adulti più prossimi.
Qualche volta questi comportamenti appaiono come il prolungamento di una reazione da bambini non contenuta a suo tempo. Se prendono uno scappellotto, lo restituiscono in automatico; e non importa che siano la mamma o il papà a mollarlo, anziché un coetaneo… Sembra che non abbiano la percezione della asimmetria che c’è tra l’adulto e il ragazzo, tra il genitore e il figlio. Si sentono sullo stesso piano. Molte volte, infatti, i genitori raccontano di figli che da bambini sono stati al centro di amorevoli attenzioni e concessioni, che hanno a lungo andare consolidato una posizione di privilegio, quasi di sudditanza dell’adulto (genitore, nonno, baby sitter) al bambino. Raramente, si tratta di ragazzi che le hanno prese da piccoli più spesso di quanto si dovrebbe…
Ma tutto questo non basta a dare significato a quelle reazioni fisiche così anomale e che ripugnano istintivamente. Forse ciò che manca in questi genitori è proprio la percezione della gravità dell’accaduto. Fin dalla prima volta, le reazioni aggressive fisiche del figlio vengono rubricate come intemperanze e non come atti gravissimi. Atti di non ritorno, che possono ledere la relazione affettiva tra i genitori e i figli. Che richiedono una risposta forte e pensata, non la reazione immediata e speculare. Non l’affermazione di chi tra i due è più forte. Ma un segnale che è stata superata una barriera. Che il legame va curato e ristabilito. Dapprima attraverso il silenzio e il distacco per qualche ora, meglio qualche giorno. Non si può andare avanti come se niente fosse accaduto: occorre uno stop. Un segnale che manifesti la gravità dell’atto. Ma che dia anche tempo per riflettere. E’ il tempo in cui entrambi devono poter pensare a quanto avvenuto per dargli un senso.
Magari, per il genitore è il momento di capire che certe richieste devono essere fatte in altro modo. Che l’ansia o la rabbia di un momento non vanno rovesciate sul figlio, soprattutto se questi è per lunga consuetudine così legato al genitore da non riuscire a prendere le distanze. E’ il caso, ad esempio, delle continue e ripetute richieste di fare i compiti rivolte a ragazzi ansiosi e in conflitto con se stessi tra divertimento e dovere, tra prestazione e fuga da essa.
Per il figlio è il tempo per riconoscere che si può fare male ad un genitore. Che mamma e papà non sono appendici di lui, o adulti indistruttibili e idealizzati. Non sono parti di sé, fusi con lui in un legame simbiotico. Sembra che la rabbia che scatena nel figlio le botte ai genitori sia in ultima analisi la scoperta stupita e furibonda che i genitori non sono come lui li aveva pensati e vissuti, come coloro che proteggendolo si incaricano di realizzare i suoi desideri. Se il figlio coglie invece il distacco da loro, magari si può anche arrabbiare con la mamma o con il papà, perché capisce che ragionano con criteri (educativi) diversi dai suoi. Ma è il sano riconoscimento di una alterità e di una differenza che permette di crescere. E crea lo spazio per chiedersi scusa e per perdonarsi.
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09 novembre 2010 - Commenti
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