di Fabrizio Fantoni
Fabrizio Fantoni, 54 anni, sposato, tre figli. Psicologo psicoterapeuta, esperto di adolescenti.
09 mar
Vorrei che non ci fosse l’età fra i dieci e i ventitré anni, o che la gioventù la passasse tutta a dormire; perché non c’è niente in mezzo se non metter e incinte le ragazze, far soprusi agli anziani, rubare e picchiarsi.
(W. SHAKESPEARE, Il racconto d’inverno, atto III, scena 3a)
Dopo il consueto aggiornamento su voti e note, Dario (17 anni) mi dice di conoscere sia il ragazzo che ha subito il pestaggio che il gruppo degli aggressori. E’ gente del quartiere, ma appena escono lui e i suoi amici gliela devono far pagare… Sono bastardi che hanno approfittato del numero per picchiare ingiustamente uno che non c’entrava niente. Ed era pure più piccolo.
Mi colpisce la carica da giustiziere, e la difficoltà di uscire dalla logica del far pagare la violenza con altra violenza. Certo, e lo dice con qualche sollievo, da un po’ si vede una maggiore presenza delle forze dell’ordine, che hanno già fermato spacciatori e piccoli boss della zona, e ne hanno messo dentro qualcuno. Lui sa starci con queste persone. Lì ci è nato e sa come muoversi. Non ha paura; ha messo in fuga tre ceffi che volevano rapinarlo, e solo quando l’ha detto a suo padre ha capito che la sua reazione difensiva poteva essere rischiosa, e magari provocargli una coltellata.
Come avviene per la sessualità, anche per la loro carica aggressiva gli adolescenti devono imparare ad esprimerla in forma controllata, spesso attraverso attività come lo sport o la musica. Tuttavia ci sono situazioni in cui, per condizionamenti ambientali (la famiglia, il gruppo di riferimento), i maschi adolescenti non ce la fanno (o non vogliono?) contenere la loro aggressività.
E’ una sfida ardua per le famiglie e per gli educatori. Perché è una carica che non si può ammansire facilmente. Bisogna provare ad ascoltarla, a riconoscere che cosa c’è in profondità. A proporre modi diversi e interessanti di vivere la virilità. A sfidarli a dimostrare che hanno la colonna vertebrale dritta se imparano ad affrontare il cammino per diventare adulti. Che non è la paura (che hanno o che fanno a qualcuno) che può impedire di incontrarsi e di parlarsi. Che non è possibile crescere e affermare se stessi se non si impara ad utilizzare bene l’aggressività, per affrontare le sfide, per difendere un proprio spazio personale dalle intrusioni degli adulti o dei coetanei, per tollerare e gestire la conflittualità presente in tutti i rapporti umani.
Tutto questo si impone a maggior ragione quando l’aggressività dell’adolescente esplode in casa e incrina gli equilibri familiari. Qualcuno ne ha esperienza?
Pubblicato il 09 marzo 2011 - Commenti (0)
02 feb
31 gennaio : si festeggia s. Giovanni Bosco, il santo educatore fondatore dei Salesiani. Sono particolarmente legato a questa ricorrenza. Mi rimanda ai ricordi di 15 anni di insegnamento nelle scuole professionali e tecniche salesiane. Questa giornata era particolarmente attesa e viva: la sospensione delle lezioni, la messa corale, i tornei, la grande estrazione della lotteria… Momenti di intensa carica emotiva e tempi di relazione più distesi e sereni con i ragazzi e con i colleghi.
Tra le intuizioni educative di d. Bosco, mi sono sempre piaciute quelle relative ai castighi. Don Bosco era particolarmente refrattario ai castighi, che riteneva da utilizzarsi solo in casi estremi, nei tempi e nei modi adeguati; senza emotività, ma con moderazione, e lasciando sempre aperta la possibilità del perdono.
Spesso con i genitori riflettiamo sull’opportunità dei castighi. A me sembra che funzionino poco, anzi spesso siano controproducenti. Suscitano in molti adolescenti reazioni rabbiose e di sfida. Un braccio di ferro alla fine senza vincitori. Piuttosto è meglio pensare a proibizioni o incombenze che nascano come naturale conseguenza delle azioni dei ragazzi, e che magari ci consentano di trascorrere del tempo insieme. Un figlio si mostra poco affidabile a scuola o con gli amici? Piuttosto che minacciare castighi, credo sia meglio mostrargli che, per ora, non ci si può fidare di lui. Che per il momento non gli si può permettere di fare ciò che fa ordinariamente, come uscire, perché non si è sicuri di lui… Fino a che non riesce a recuperare la nostra fiducia.
Un figlio risulta poco ordinato nelle proprie cose? Deve sperimentarne gli effetti, ad esempio, non trovando in ordine l’abbigliamento o i materiali per lo sport. Oppure gli si può chiedere aiuto durante i lavori settimanali di pulizie e riordino della casa, o nella spesa settimanale, per allenarlo ad una visione più ampia delle incombenze familiari. Per mostrargli concretamente che cosa significa avere uno sguardo d’insieme sulla vita comune familiare.
Occorre pensare ad un repertorio di ‘conseguenze’ utilizzabili nella pratica quotidiana. Qualcuno vuole aggiungere qualche suggerimento efficace, già sperimentato?
Mi è stato comunicato il numero di accessi a questo blog. Ringrazio davvero le tantissime persone che si accostano al blog con attenzione e curiosità, qualcuno probabilmente seguendolo in modo più continuativo, altri occasionalmente. Il grande numero di contatti mi fa sentire un po’ meno solo nel mio lavoro quotidiano con gli adolescenti.
Pubblicato il 02 febbraio 2011 - Commenti (2)
17 gen
Ha suscitato scalpore e dibattito un articolo pubblicato sul Corriere della sera di qualche giorno fa, che riprende un estratto di un libro di Amy Chua, professoressa a Yale, apparso sul Wall Street Journal l’8 gennaio. In esso l’autrice cinese sostiene, con esempi tratti dalla concreta educazione delle sue due figlie, il metodo educativo della madre tigre cinese, severo oltre misura, contrapposto alle mollezze del metodo dei genitori occidentali (compreso il marito della signora, anche lui docente universitario, americano).
Amy Chua esordisce affermando che ci sono alcune cose che le sue due figlie (che sembrano essere adolescenti) sanno che non sono loro permesse: dormire fuori casa, partecipare a una recita scolastica, guardare la TV o giocare ai videogiochi, scegliere da sole le attività extracurriculari, prendere un voto inferiore al massimo, non essere lo studente numero 1 in tutte le materie tranne ginnastica e recitazione.
L’autrice sostiene che il suo modello educativo, di matrice orientale, si basa su tre principi fondamentali: innanzi tutto, mentre la preoccupazione dei genitori occidentali per l’autostima dei figli li porta ad assumere atteggiamenti comprensivi e supportivi, il genitore orientale infonde fiducia nei propri figli imponendo loro senza remissione il raggiungimento del massimo dei risultati. Per fare questo occorre una disciplina rigidissima, fatta di ore e ore di esercizi senza pietà, di punizioni, minacce e insulti.
In secondo luogo, i genitori cinesi ritengono che i figli siano in debito con loro e che debbano utilizzare le loro risorse per ripagare i genitori obbedendo loro e facendoli sentire orgogliosi dei successi dei propri figli.
Infine, i genitori orientali sono convinti di sapere ciò che è meglio per i loro figli e pertanto non devono tenere in considerazione i loro desideri e le loro preferenze. Per questo, non è pensabile che un figlio possa andare a dormire in casa di un compagno, né che una figlia cinese abbia il ragazzo alla scuola superiore, secondo gli esempi della stessa autrice, che prosegue dicendo «Dio protegga il figlio che osasse dire alla madre cinese che dovrà provare una parte nella recita scolastica tutti i pomeriggi dalle 3 alle 7 e dovrà stare via anche nel fine settimana!».
Così, mentre i genitori occidentali puntano al rispetto dell’individualità dei figli, incoraggiandoli a sviluppare le loro passioni, sostenendo le loro scelte e offrendo loro rinforzi positivi, il modello cinese afferma che il modo migliore per proteggere i figli sia quello di prepararli al futuro, dimostrando loro che sono capaci e armandoli di competenze, abitudine al lavoro e di una fiducia in se stessi che nessuno può loro togliere.
Queste posizioni hanno generato un dibattito, che i lettori possono ricostruire su Internet, e che oltre oceano serve da lancio per il libro di prossima pubblicazione dell’autrice, dal titolo evocativo L’inno di battaglia della madre tigre.
Al di là delle generalizzazioni etniche, sembra che l’alternativa si ponga tra un modello dirigistico e fondato sul massimo delle prestazioni e un altro fondato sulla disponibilità affettiva svincolata da ogni forma di richiesta da parte del genitore verso il figlio.
Le posizioni estreme della docente di Yale sono molto lontane dai modelli educativi correnti, ed hanno suscitato reazioni di vario tipo, per lo più contrarie.
A me sorgono due riflessioni: la prima riguarda la centralità dello standard di prestazione. Spesso anche da noi i genitori sottolineano l’eccellenza come criterio di valutazione della bontà educativa di una proposta o di una istituzione. In questo si riflette la preoccupazione di fornire ai figli gli strumenti per affrontare la competitività dominante nel mondo, e la paura che i ragazzi siano schiacciati da essa, soprattutto nell’accesso al lavoro. Per alcuni la capacità di fornire ottime prestazioni sembra essere la dimensione unica dello sviluppo di un ragazzo, senza tenere in considerazione invece la centralità della persona che cresce, in tutti i suoi aspetti, compresi quelli prestazionali, ma anche quelli affettivi ed emotivi, la creatività, la relazionalità. E soprattutto i riferimenti di valore etico che i ragazzi vanno aiutati a sviluppare, e che consentono loro di avere una bussola nelle scelte e nei comportamenti.
In secondo luogo, se proviamo ad accogliere la provocazione del modello proposto, non possiamo fare a meno di chiederci se davvero a volte ingeneriamo nei figli l’idea che tutto (o quasi) sia loro dovuto o che qualcosa possiamo anche chiedere loro, serenamente e in modo non episodico, nei loro compiti quotidiani. Così i doveri cessano di essere solo qualcosa da adempiere più rapidamente possibile, e spesso alla bell’e meglio, e diventano una possibilità di sviluppo di quell’autostima che, in adolescenza, non nasce più tanto dal riconoscimento dei genitori, ma dal sentirsi in grado di affrontare da soli le sfide di ogni giorno.
Pubblicato il 17 gennaio 2011 - Commenti (2)
10 gen
Oggi riprendono le attività ordinarie dei ragazzi: la scuola, lo sport, gli altri appuntamenti fissi… Riprendono con l’auspicio che alla vacanza e al riposo segua ora un periodo di rinnovato impegno. La scuola, in modo particolare, è al centro dell’attenzione dei genitori, e talvolta anche dei ragazzi.
Il ritorno al contatto con la realtà, dopo la sospensione delle feste, ci permette di capire se il Natale, con i suoi auguri, i doni, il tempo dedicato a se stessi, è qualcosa di duraturo o si perde nell’effimero. Gli auguri che ci siamo scambiati, le belle frasi dette e scritte, i buoni sentimenti resistono ancora oggi, che si torna all’"ordinaria amministrazione"? Quali parole riescono a riecheggiare ancora dentro di noi? Il periodo di vacanza è stato occasione di qualche esperienza nuova. Per i ragazzi, magari, di una vacanza con i coetanei o di una notte (come quella dell’ultimo giorno dell’anno) per la prima volta trascorsa fuori casa con gli amici. Le ‘prime volte’ preoccupano sempre i genitori. Magari saranno occorse alcune riflessioni prima di accordare il permesso. Forse mamma e papà si saranno trovati su posizioni diverse, e sarà stato utile esplicitarle e fare la fatica di trovare un accordo tra genitori. E poi, il ragazzo o la ragazza saranno tornati a casa, il primo giorno dell’anno, e i genitori avranno cercato di capire com’è andata, che cosa i ragazzi hanno fatto in casa da soli per tutta la notte. Li avranno scrutati per cogliere gli eventuali segni dell’alcool o del fumo…
Anche questa ‘prima volta’ sarà stata archiviata. E adesso? Le esperienze sono tali se vengono pensate e non solo vissute. Se se ne parla a casa, con i genitori e con i fratelli, non tanto per dare giudizi, ma per evidenziare quanto in esse si è potuto sperimentare dell’essere più adulto. Quanta autonomia (di giudizio, di movimento), quanto senso di responsabilità i ragazzi, lasciati a se stessi, hanno potuto esprimere.
I genitori, più che parlare, possono ascoltare. Dai racconti del figlio o della figlia, possono capire qualcosa di più sulla capacità di gestire il tempo, le relazioni, i conflitti. Se sono ragazzi che sanno mantenere una propria autonomia di giudizio anche rispetto ai coetanei o se sono alla mercé delle situazioni e degli amici. Di fronte all’anno nuovo, ma soprattutto davanti a quella esperienza così profonda del rinascere che è il Natale, si può allora ripartire con qualche segno reale e non effimero di novità nel cuore.
Pubblicato il 10 gennaio 2011 - Commenti (0)
23 dic
Preparando gli auguri per il Natale, ritrovo questa frase di s.Agostino che ho utilizzato per gli auguri alle scuole di qualche anno fa:
“E’ ben più efficace, per imparare, il desiderio di sapere che nasce dalla libertà che non la necessità di sapere che nasce dalla paura” (Le Confessioni, Libro 1, 14).
Mi fa riflettere sulla motivazione allo studio che nasce faticosamente da un atto interiore di scelta e di ‘gusto’ per ciò che si fa, e non può venire primariamente dalle pressioni che genitori e insegnanti esercitano attraverso i voti negativi, i castighi, le minacce… E neppure dalle proiezioni in un futuro lavorativo fosco ed incerto dove si salverà solo chi ha un titolo di studio. Una motivazione interiore non è un dono di natura, ma una acquisizione spesso sofferta, maturata insieme alla crescita, con momenti di slancio e altri di stanchezza.
Qualcosa che va ‘educato’, nel senso che ogni ragazzo che cresce va aiutato a tirarla fuori dal proprio intimo, a crescerla, a tenerla viva. In altre parole, è una questione di senso. Accompagnare i figli adolescenti all’esperienza della scuola significa in fondo questo. Non basta sostenere, incoraggiare, dare indicazioni di metodo sull’organizzazione del tempo. Non basta neppure intervenire con forza quando le cose vanno male, dopo le verifiche negative e le pagelle disastrose, per aiutare a ritrovare la concentrazione e la forza di volontà. Non sono sufficienti le ripetute esortazioni banali : “Studia per farti una cultura! Studia perché potrai trovare un lavoro migliore!”
Come genitori, occorre ripensare alla propria esperienza, che si abbia avuto la possibilità di studiare oppure no, per trovare parole più autentiche sull’apprendimento e sul confronto (a volte scontro) con la fatica del pensare. Occorre riflettere con i figli sui linguaggi oggi necessari: la conoscenza della lingua italiana per poter meglio comunicare le proprie idee e i propri pensieri; della lingua straniera, per sentirci aperti al mondo più vasto che entra nelle nostre case attraverso le tv e internet; dell’economia e della storia; delle scienze e della matematica; delle tecniche… Occorre pensare che la mente è lo strumento più prezioso che ci accompagna nella vita. La fatica mentale è l’allenamento faticoso e costante di questa funzione, per uscire dal mondo dell’opinione ed entrare in quello della conoscenza, per capire meglio noi stessi e gli altri.
Pubblicato il 23 dicembre 2010 - Commenti (1)
30 nov
Torno sulla tematica dell’orientamento scolastico con un passo ulteriore. Tra le caratteristiche di un ragazzo da valutare in ordine alla scelta orientativa va data particolare attenzione all’atteggiamento nei confronti dello studio.
Quanto un ragazzo di terza media è in grado di affrontare la fatica mentale? Quali strategie ha appreso nei tre anni di scuola relativamente all’organizzazione pomeridiana del tempo, alla scansione degli impegni scolastici ed extrascolastici, alla preparazione in vista delle verifiche? Soprattutto, come affronta i pensieri anti-apprendimento che si affollano nella mente di molti adolescenti quando si mettono a studiare, e che si manifestano sotto forma di:
“Non ce la faccio! Non ci capisco!”
“Che noia! Basta!”
“Come faccio a studiare tutta questa roba?”
“ E poi, domani mi dimentico tutto…” e simili.
Si tratta in realtà di espressioni diverse di un unico malessere, quello relativo alla difficoltà di fare silenzio (fuori, ma anche dentro) per attivare i processi mentali di riflessione, elaborazione, memorizzazione propri dello studio.
I ragazzi di questa generazione sono forse più in difficoltà dei precedenti perché fin da piccoli sono immersi in un oceano di stimoli sensoriali ed emotivi dal quale non è facile uscire, per sperimentare un silenzio. Non è facile mettersi a studiare senza avere il cellulare che lancia squilli, le cuffie dell’I-pod nelle orecchie, msn che trilla e la tv accesa… Così il pomeriggio diviene un esercizio di multitasking, in cui cioè si svolgono più compiti mentali contemporaneamente, in una sorta di zapping frenetico tra stimoli diversi. Con le conseguenti difficoltà di attenzione, la minore memorizzazione ‘in profondità’ e un maggiore affaticamento.
Come se non bastasse, la mente di un adolescente è spesso un vulcano di pensieri diversi. Come andrà la partita che devo giocare dopodomani? Riuscirò a comperarmi per Natale l’I-phone con le mance dei nonni e degli zii? Come posso fare a attaccare discorso con il ragazzo o la ragazza che mi interessa? Che cosa pensano i miei amici di me? Come faccio a convincere i miei genitori a lasciarmi uscire?
Per qualcuno inoltre il corpo, messo in disparte per aprire la mente allo studio, si fa sentire con più forza. Mettersi a studiare e sentire fame o sete, alzarsi per sgranchirsi le gambe, sembrano sia un tutt’uno…
Di fronte a tutto questo, occorre fermarsi a pensare insieme al figlio. Bisogna riflettere insieme sul suo grado di consapevolezza di queste dinamiche. Sulla capacità (maggiore o minore) di arginare i pensieri interni e le stimolazioni esterne. Sull’ordine del tavolo e sul silenzio della stanza. Sull’utilizzo del tempo, che non è infinito (“Ho tutto il pomeriggio…”), ma limitato dagli impegni e dalla necessità di armonizzare studio e divertimento.
Pubblicato il 30 novembre 2010 - Commenti (2)
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