Ha suscitato scalpore e dibattito un articolo pubblicato sul Corriere della sera di qualche giorno fa, che riprende un estratto di un libro di Amy Chua, professoressa a Yale, apparso sul Wall Street Journal l’8 gennaio. In esso l’autrice cinese sostiene, con esempi tratti dalla concreta educazione delle sue due figlie, il metodo educativo della madre tigre cinese, severo oltre misura, contrapposto alle mollezze del metodo dei genitori occidentali (compreso il marito della signora, anche lui docente universitario, americano).
Amy Chua esordisce affermando che ci sono alcune cose che le sue due figlie (che sembrano essere adolescenti) sanno che non sono loro permesse: dormire fuori casa, partecipare a una recita scolastica, guardare la TV o giocare ai videogiochi, scegliere da sole le attività extracurriculari, prendere un voto inferiore al massimo, non essere lo studente numero 1 in tutte le materie tranne ginnastica e recitazione.
L’autrice sostiene che il suo modello educativo, di matrice orientale, si basa su tre principi fondamentali: innanzi tutto, mentre la preoccupazione dei genitori occidentali per l’autostima dei figli li porta ad assumere atteggiamenti comprensivi e supportivi, il genitore orientale infonde fiducia nei propri figli imponendo loro senza remissione il raggiungimento del massimo dei risultati. Per fare questo occorre una disciplina rigidissima, fatta di ore e ore di esercizi senza pietà, di punizioni, minacce e insulti.
In secondo luogo, i genitori cinesi ritengono che i figli siano in debito con loro e che debbano utilizzare le loro risorse per ripagare i genitori obbedendo loro e facendoli sentire orgogliosi dei successi dei propri figli.
Infine, i genitori orientali sono convinti di sapere ciò che è meglio per i loro figli e pertanto non devono tenere in considerazione i loro desideri e le loro preferenze. Per questo, non è pensabile che un figlio possa andare a dormire in casa di un compagno, né che una figlia cinese abbia il ragazzo alla scuola superiore, secondo gli esempi della stessa autrice, che prosegue dicendo «Dio protegga il figlio che osasse dire alla madre cinese che dovrà provare una parte nella recita scolastica tutti i pomeriggi dalle 3 alle 7 e dovrà stare via anche nel fine settimana!».
Così, mentre i genitori occidentali puntano al rispetto dell’individualità dei figli, incoraggiandoli a sviluppare le loro passioni, sostenendo le loro scelte e offrendo loro rinforzi positivi, il modello cinese afferma che il modo migliore per proteggere i figli sia quello di prepararli al futuro, dimostrando loro che sono capaci e armandoli di competenze, abitudine al lavoro e di una fiducia in se stessi che nessuno può loro togliere.
Queste posizioni hanno generato un dibattito, che i lettori possono ricostruire su Internet, e che oltre oceano serve da lancio per il libro di prossima pubblicazione dell’autrice, dal titolo evocativo L’inno di battaglia della madre tigre.
Al di là delle generalizzazioni etniche, sembra che l’alternativa si ponga tra un modello dirigistico e fondato sul massimo delle prestazioni e un altro fondato sulla disponibilità affettiva svincolata da ogni forma di richiesta da parte del genitore verso il figlio.
Le posizioni estreme della docente di Yale sono molto lontane dai modelli educativi correnti, ed hanno suscitato reazioni di vario tipo, per lo più contrarie.
A me sorgono due riflessioni: la prima riguarda la centralità dello standard di prestazione. Spesso anche da noi i genitori sottolineano l’eccellenza come criterio di valutazione della bontà educativa di una proposta o di una istituzione. In questo si riflette la preoccupazione di fornire ai figli gli strumenti per affrontare la competitività dominante nel mondo, e la paura che i ragazzi siano schiacciati da essa, soprattutto nell’accesso al lavoro. Per alcuni la capacità di fornire ottime prestazioni sembra essere la dimensione unica dello sviluppo di un ragazzo, senza tenere in considerazione invece la centralità della persona che cresce, in tutti i suoi aspetti, compresi quelli prestazionali, ma anche quelli affettivi ed emotivi, la creatività, la relazionalità. E soprattutto i riferimenti di valore etico che i ragazzi vanno aiutati a sviluppare, e che consentono loro di avere una bussola nelle scelte e nei comportamenti.
In secondo luogo, se proviamo ad accogliere la provocazione del modello proposto, non possiamo fare a meno di chiederci se davvero a volte ingeneriamo nei figli l’idea che tutto (o quasi) sia loro dovuto o che qualcosa possiamo anche chiedere loro, serenamente e in modo non episodico, nei loro compiti quotidiani. Così i doveri cessano di essere solo qualcosa da adempiere più rapidamente possibile, e spesso alla bell’e meglio, e diventano una possibilità di sviluppo di quell’autostima che, in adolescenza, non nasce più tanto dal riconoscimento dei genitori, ma dal sentirsi in grado di affrontare da soli le sfide di ogni giorno.
Pubblicato il 17 gennaio 2011 - Commenti (2)