24 feb
Gioie materne, opera di Stefano Ussi (1822-1901), Firenze, Galleria d’Arte Moderna
"Si dimentica forse una donna del suo bimbo, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se queste donne si dimenticassero, io invece mai ti dimenticherò!"
(Isaia 49,25)
«Il cuore di una madre è un abisso in
fondo al quale si trova sempre un perdono
». Così scriveva il romanziere
francese ottocentesco, Honoré de Balzac, nella
sua opera La donna di trent’anni, illuminando
un segreto profondo del cuore materno.
È su questa base che si sviluppa anche la
stupenda dichiarazione che il profeta Isaia
raccoglie da Dio nei confronti del suo «figlio
primogenito», come è chiamato nella Bibbia
Israele (Esodo 4,22). È interessante notare
che una studiosa tedesca, Hanna-Barbara
Gerl, anni fa ha elencato, accanto a ottanta
immagini maschili applicate dalle Sacre
Scritture al Signore, una ventina di tratti
femminili e questo versetto isaiano ne è una
straordinaria attestazione.
Nello stesso libro profetico più avanti si leggerà quest’altra affermazione divina: «Come una madre consola un figlio, così io vi consolerò» (66,13). Curiosamente a Dio viene a più riprese assegnato un termine ebraico che in prevalenza è applicato alla donna, rahamîm, un vocabolo che designa le “viscere”, il “grembo”. Esso si trasforma in un aggettivo che esprime affetto, clemenza, tenerezza, misericordia. Tra l’altro, la stessa radice che sta alla genesi della parola rahamîm è ripresa dai due attributi «clemente e misericordioso » che il Corano dedica a Dio in apertura a tutte le “sure” o capitoli.
Il Signore fa questa confessione di amore materno proprio quando sta scoprendo le infedeltà di Israele che rincorre altri padri e madri, ossia gli idoli. Per riprendere l’idea di Balzac, il cuore divino perdona sempre, non può “dimenticare” suo figlio (il verbo è ripetuto tre volte), non può non fremere di commozione quando ha ancora tra le braccia la sua creatura amata. E a questo proposito vorremmo di nuovo evocare una scenetta che abbiamo tempo fa presentato nella nostra antologia di frammenti biblici luminosi.
Intendiamo riferirci al Salmo 131 in cui il fedele stesso si rappresenta «come un bimbo svezzato in braccio a sua madre». Ora, il bambino svezzato non è più il neonato che quasi inconsciamente si attacca per istinto al seno della madre: nell’antico Vicino Oriente lo svezzamento ufficiale avveniva attorno ai tre anni con un rito tribale. Si suppone, quindi, un legame di intimità più consapevole e non un mero rapporto di dipendenza biologica.
È per questo, allora, che la relazione materno- filiale (come la parallela paterno-filiale che pure la Bibbia applica a Dio e al suo popolo) si trasfigura in un simbolo mistico. Basti solo pensare all’“infanzia spirituale” esaltata da santa Teresa di Lisieux che introduce una concezione della fede fortemente personale, in cui l’amore, l’intimità e la donazione trionfano. Rimane, comunque, il primato dell’amore divino che non si «dimentica» mai, che non spegnemai la fiamma del suo ricordo appassionato, che non si lascia stravolgere dall’infedeltà o dalla cattiveria del figlio.
Per usare una colorita espressione di Tertulliano, il primo scrittore cristiano di lingua latina a noi noto, «qualunque ingiuria, quando si scontra contro l’amore, si spunta come la freccia contro un macigno».
Pubblicato il 24 febbraio 2011 - Commenti (0)
17 feb
Il tre maggio (1808 - 1814), opera di Francisco Goya, Madrid, Prado.
"Non ti vendicherai né coverai rancore contro i figli del tuo popolo. Amerai, invece, il tuo prossimo come te stesso".
(Levitico 19,18)
«Si parla sempre del fuoco dell’inferno.L’inferno è freddo... L’inferno è non amare più». Ho intrecciato due frasi tratte da romanzi diversi dello scrittore cattolico francese Georges Bernanos (1888-1948) per introdurre uno degli appelli biblici più citati. Nella nostra ormai vasta raccolta di frammenti delle Sacre Scritture non poteva, infatti, mancare questo passo che nel suo apice – in ebraico we’ahavtà lere’akà kamôk, «amerai il prossimo tuo come te stesso» – era caro anche a Gesù che lo cita due volte (Matteo 5,48; 22,39), ricordando che è il «secondo comandamento, simile al primo», quello dell’amore per Dio, entrambi fondamento di «tutta la Legge e i Profeti». Su questa scia continuerà san Paolo quando ammonirà che tutti i comandamenti della Legge «si riassumono in queste parole: Amerai il prossimo tuo come te stesso» (Romani 13,9), dopo aver ribadito ai Galati che «tutta la Legge trova la sua pienezza in un solo precetto: Amerai il prossimo tuo come te stesso» (5,14).
Potremmo continuare a lungo nell’elencare quanti hanno trovato in questo precetto l’anima autentica della morale biblica e la sorgente della vera spiritualità.
Per stare ancora alla Bibbia, ricorderò solo la dichiarazione lapidaria
di san Giacomo: «Se adempite il più importante dei comandamenti secondo
la Scrittura: Amerai il prossimo tuo come te stesso, fate bene» (2,8).
Vorrei, invece, fare solo due note sul versetto del Levitico (ossia dei
sacerdoti, i figli di Levi, il terzo libro della Bibbia). In esso,
innanzitutto, si parla esplicitamente dei «figli del tuo popolo», cioè
di Israele. L’impegno dell’amore è, quindi, circoscritto a un orizzonte
preciso, quello della comunità ebraica.
Sappiamo, però, che già i profeti allargheranno questo spazio, invitando a condividere l’amore di Dio per tutte le sue creature:
«Benedetto sia l’Egiziano mio popolo, l’Assiro opera delle mie mani e
Israele mia eredità» (Isaia 19,25). E i sapienti biblici ricorderanno
che il Signore «ha compassione di tutti… e ama tutte le cose esistenti e
nulla disprezza di quanto ha creato perché, se avesse odiato qualcosa,
non l’avrebbe neppure creata» (Sapienza 11,23-24). Le frontiere saranno abbattute ulteriormente nel cristianesimo
allorché Gesù, commentando proprio il passo del Levitico, presenterà
un’applicazione quasi provocatoria, introducendo anche l’amore per il
nemico e giungendo così alla radice ultima del precetto
anticotestamentario: «Amate i vostri nemici e pregate per i vostri
persecutori» (Matteo 5,44). Il “prossimo” ora è divenuto veramente
l’altro, chiunque e comunque egli sia, un altro che tu trasformi in un
“io” che è come te stesso.
Una seconda nota sull’appello “levitico”. In apertura esso evoca due
realtà antitetiche all’amore: la vendetta e il rancore. A incarnare
nella sua forma estrema questo antipodo della carità è Lamek, il
discendente di Caino che minaccia così: «Uccido un uomo per una mia
scalfittura e un ragazzo per un mio livido. Sette volte sarà vendicato
Caino, ma Lamek settantasette» (Genesi 5,23-24). È il canto selvaggio
della vendetta a spirale, della zampata bestiale che gode del sangue
versato, della logica distruttrice della guerra che ignora ogni prossimo
in un empito insaziabile di odio per il nemico. Risuona, allora, per
contrasto l’ideale nuova applicazione del comandamento del Levitico nelle parole che Cristo rivolge a Pietro
che chiedeva: «Quante volte devo perdonare al mio fratello, se pecca
contro di me? Fino a sette volte?». E Gesù replica: «Non ti dico fino a
sette, ma fino a settanta volte sette!» (Matteo 18,21-22).
Pubblicato il 17 febbraio 2011 - Commenti (0)
10 feb
Offerta di Caino e Abele, maestro Bertram (1340-1415), altare maggiore, chiesa di San Pietro (Amburgo), Hamburger Kunsthalle
"Se stai per presentare la tua offerta all’altare, e là ti ricordi che tuo fratello ha qualcosa contro di te, lascia là il tuo dono, davanti all’altare, e va’ prima a riconciliarti col tuo fratello.
Poi torna a offrire il tuo dono."
(Matteo 5,23-24)
La processione dei fedeli sta per accedere al tempio di Sion per offrire i sacrifici
rituali. Alla porta d’ingresso, ecco un
levita che proclama una serie di condizioni
prerequisite per poter essere ammessi al culto.
Quali erano queste clausole di ammissione?
Norme di purità esteriore con abluzioni,
come accadeva in molti templi dell’antichità
o come avviene con le fontane che precedono
le moschee? Prescrizioni sull’abbigliamento,
come leggiamo oggi sui cartelli posti davanti
alle nostre cattedrali o chiese storiche? Anche
l’antica raccolta delle tradizioni giudaiche, il
Talmud, ammoniva che «non si deve salire
sul monte del tempio con le scarpe, né con la
borsa, né con la polvere sui piedi e non si deve
sputare per terra».
Ecco, invece, l’elenco di coloro che sono ammessi
al tempio secondo quel levita: «Chi cammina
con moralità, chi pratica la giustizia,
chi dice la verità dal cuore, chi non ha calunnia
sulla lingua, chi non fa del male al suo
prossimo, chi non insulta il suo vicino, chi
considera spregevole il perverso e onora colui
che teme il Signore, chi non ha esitazioni, anche
se ha giurato a suo danno (nel mantenere
la parola data), chi non presta denaro a usura,
chi non si lascia corrompere contro l’innocente!
». A questo punto ecco la conclusione: «Chi
agisce così, sarà stabile per sempre» e quindi
starà sulla rupe solida del tempio, simbolo
della potenza salvatrice di Dio.
Abbiamo sceneggiato il testo del Salmo
15, perché esso è in qualche modo l’antefatto
del frammento che abbiamo proposto ritagliandolo
da quel fondamentale “Discorso
della Montagna”, considerato – forse un po’
eccessivamente – la “Magna Charta” del cristianesimo
(in verità, nel cuore del messaggio
cristiano si devono porre anche e soprattutto
l’Incarnazione e la Pasqua di Cristo).
Gli studiosi della Bibbia hanno classificato
il Salmo 15 e altri passi analoghi come una
“liturgia d’ingresso” ed è facile capirne il
motivo. L’ingresso al culto è aperto solo se si
ha la coscienza pura e onesta. Anche noi iniziamo
la Messa con l’atto penitenziale in cui
ci riconosciamo peccatori davanti a Dio e ai
nostri fratelli.
I fratelli sono, appunto, al centro del passo
matteano che stiamo considerando. Immaginiamo
allora due fratelli. Uno sta per entrare
nel tempio a pregare e a fare la sua offerta
sacrificale o a partecipare all’Eucaristia. L’altro
fratello è in città: tra i due c’è stata una lite
violenta e non si parlano più, anzi, si detestano.
Il primo sa di questa tensione e vorrebbe
quasi ignorarla. Ecco, però, la voce di Gesù:
lascia lì dono e offerta, rientra in città e
bussa alla porta di tuo fratello e cerca di riconciliarti
con lui. Tutto questo è emblematicamente
rappresentato oggi in un gesto liturgico
divenuto ormai abitudinario e scontato,
quello dello scambio di pace prima di ricevere
l’Eucaristia.
Più significativo al riguardo è il rito ambrosiano
della Chiesa di Milano che pone tale gesto
prima dell’offertorio con questa esortazione:
«Secondo l’ammonimento del Signore,
prima di presentare i nostri doni all’altare,
scambiamoci un segno di pace». Come insegnavano
i profeti, la liturgia senza la vita giusta,
il rito senza la giustizia, la preghiera senza
l’amore sono sgraditi a Dio e rischiano di
essere una farsa. Era ancora Gesù che ripeteva:
«Quando vi mettete a pregare, se avete
qualcosa contro qualcuno, perdonate, perché
anche il Padre vostro che è nei cieli perdoni a
voi i vostri peccati» (Marco 11,25).
Pubblicato il 10 febbraio 2011 - Commenti (0)
06 feb
La vedova (1941), opera di Italo Valenti, Firenze, Raccolta della Ragione
"Voi tutti che passate per la via, considerate se c’è un dolore simile al mio, al dolore che ora
mi tormenta: il Signore mi ha afflitta nel giorno della sua ira ardente."
(Lamentazioni 1,12)
Nel 1958 il grande musicista russo Igor Stravinskij elaborava una composizione per coro e orchestra intitolata Threni, un termine greco che significa “Lamentazioni”. Infatti, alla base di quell’opera c’era la raccolta di cinque elegie che la tradizione ha attribuito a Geremia e che sono entrate nella Bibbia proprio dopo il libro di quel profeta.
Si tratta di poemetti di tragica bellezza e di straordinaria intensità al cui centro risalta Gerusalemme, la città santa devastata dalle truppe del re babilonese Nabucodonosor nell’anno 586 a.C. Essa è raffigurata come una vedova sconsolata che lancia al cielo l’eterno interrogativo dei sofferenti (che è anche la prima parola ebraica della prima Lamentazione e che ha dato il titolo dell’intera raccolta secondo la tradizione giudaica): ’ekah, “come mai?”.
La vedova Gerusalemme si rivolge sia al Dio giudice inesorabile sia agli spettatori perché
entrambi abbiano compassione e donino conforto. Ma – come si intuisce nel frammento da noi evocato e suggerito amo’ di invito alla lettura integrale di questi gioielli di poesia e di umanità – le cinque Lamentazioni sono anche un’accorata meditazione sulla causa ultima di quella tragedia, ossia sul peccato umano e sul giudizio divino.
Non sono stati, allora, i Babilonesi a incendiare e a massacrare. In azione, attraverso le loro mani, era Dio stesso simile a un vendemmiatore che pigia l’uva della vigna d’Israele, spremendone sangue: «Il Signore ha pigiato nel torchio la vergine figlia di Giuda» (1,15).
Si apre, quindi, idealmente uno squarcio nelle mura della cittadella misteriosa del dolore. Certamente, questa non può essere l’unica soluzione di fronte a un tema così vasto e misterioso. Tuttavia, è indubbio che un’ampia fetta di sofferenza dell’umanità nasce dalle ingiustizie perpetrate da molti. Il dono della libertà si rivela spesso come un ordigno che è tra le nostre mani ed esplode ferendo noi e gli altri. Ma rimane nell’analisi di queste pagine bibliche crude un altro sapore in bocca al lettore ed è quello dell’amore per le proprie radici, che si rinvigoriscono proprio nel giorno della prova. Sion «piange amaramente nella notte, le lacrime rigano le sue guance. Nessuno la consola fra tutti i suoi amanti. Tutti i suoi amici l’hanno tradita, le sono divenuti nemici» (1,2). Il linguaggio amoroso serve non solo a definire gli antichi alleati che hanno tradito, ma anche il tradimento stesso di Israele che era andato a cercare divinità straniere, inquinando la sua
religiosità, avvelenando la sua stessa identità culturale e spirituale.
«Per questo», continua, allora, la vedova Gerusalemme, «piango e dal mio occhio scorrono lacrime, perché lontano da me è chi consola, chi potrebbe ridarmi la vita», cioè il Signore, la sorgente della vita e della speranza (1,16). Essa protende le mani, abbattuta nella polvere, e grida: «Guarda, Signore, quanto sono in angoscia!» (1,20). La domanda finale che suggella la quinta e ultima Lamentazione lascia aperta la via all’attesa, pur nello scoramento: «Ci hai forse rigettati per sempre, e senza limite sei sdegnato contro di noi?» (5,22). Ma questa stessa frase è da alcuni studiosi resa in modo affermativo: «Non ci hai rigettati per sempre e non sei sdegnato con noi sino alla fine». La fiammella della speranza rimane, dunque, sempre accesa.
Pubblicato il 06 febbraio 2011 - Commenti (0)
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