30
ago

Si fece buio

Cristo in croce di Jean-Baptiste Van Loo (1684-1745). Firenze, Palazzo Pitti.
Cristo in croce di Jean-Baptiste Van Loo (1684-1745). Firenze, Palazzo Pitti.

"Dall'ora sesta
si fece buio
su tutta la terra,
fino all’ora nona."

(Matteo 27,45)

Matteo ha evocato una coreografia di eventi clamorosi attorno alla morte di Gesù. Il loro scopo è di presentare la vicenda finale di Cristo nel suo significato profondo, “teofanico”, cioè rivelatore dell’azione divina di salvezza, approdo di una storia di annunci già offerti dall’Antico Testamento. È così che l’evangelista convoca una serie di immagini bibliche per illustrare il senso autentico e profondo della morte di Cristo, che si è compiuta in quel pomeriggio primaverile intorno all’anno 30. Tre sono i segni introdotti da Matteo.
Il primo è comune anche a Marco e Luca ed è lo squarcio nel “velo del tempio”, ossia di quella cortina di porpora, di scarlatto e lino che nascondeva il Santo dei Santi, la sede dell’arca dell’alleanza e della presenza di Dio in mezzo al suo popolo. Facile è intuire il valore di quel segno: Dio non è più misterioso e invisibile, ma è visibile in quell’uomo crocifisso, tant’è vero che il centurione e la sua scorta esclamano: «Davvero costui era Figlio di Dio!» (27,54).

Il secondo segno “teofanico” è classico nella Bibbia, il terremoto accompagnato da un’eclissi di sole, un evento che in questo caso non è documentabile storicamente e astronomicamente, ma il cui valore è simbolico perché, come accade al Sinai, «tuoni, lampi, nube oscura» e «il monte che trema molto» (Esodo 19,16.18) fanno parte della scenografia dell’ingresso di Dio nell’orizzonte della storia umana. In tal modo si vuole marcare la trascendenza e la potenza divina. Il profeta Amos, per descrivere «il giorno del Signore», cioè il suo giudizio sulla storia umana, usa un’immagine affine: «In quel giorno – oracolo del Signore Dio – farò tramontare il sole all’ora terza [mezzodì] e oscurerò la terra in pieno giorno» (8,9).

Infine, il terzo segno, il più importante per spiegare il valore ultimo della morte di Gesù: «I sepolcri si aprirono e molti corpi di santi morti risuscitarono. E uscendo dai sepolcri, dopo la sua risurrezione, entrarono nella città santa e apparvero a molti» (27,52-53). Significativo è l’inciso «dopo la sua risurrezione »: la morte e la risurrezione di Cristo segnano l’inizio del trionfo sulla morte per l’intera umanità. I membri del popolo di Dio («i santi morti») sono uniti alla vittoria di Gesù sulla morte: le loro tombe sono spalancate, i corpi risorti entrano nella «città santa», cioè Gerusalemme nuova e perfetta, mentre la loro “apparizione” è la testimonianza della realtà della vittoriosa risurrezione di Cristo che ha preceduto la loro.

In conclusione, la narrazione matteana della morte di Gesù non dev’essere letta in modo cronachistico, ma nella sua densità religiosa. Certo, l’evangelista offre molti dati storici e spaziali su quella morte, ma vuole che i suoi lettori ne colgano il significato profondo, l’unicità assoluta, la dimensione teologica. Ed egli lo fa ricorrendo a quei segni biblici del velo, della tenebra, dei sepolcri aperti e dei giusti risorti. Quella morte, infatti, non è solo un evento storico, ma è l’ingresso della divinità nella caducità dell’esistenza umana per trasformarla e introdurla all’abbraccio con Dio e l’eterno.

Pubblicato il 30 agosto 2012 - Commenti (4)
23
ago

«Il suo sangue ricada su di noi!»

Gesù davanti a Pilato, affresco di scuola cassinese. Sant’Angelo in Formis, Capua.
Gesù davanti a Pilato, affresco di scuola cassinese. Sant’Angelo in Formis, Capua.

"Tutto il popolo esclamò:
«Il suo sangue
ricada su di noi
e sui nostri figli».

(Matteo 27,25)

Una vasta bibliografia è fiorita attorno al duplice processo subito da Gesù, quello presso il tribunale supremo giudaico, il Sinedrio, e la successiva istanza imperiale presso il governatore romano Ponzio Pilato. I Vangeli, nella loro relazione di quegli eventi, riflettono anche il contesto storico in cui la comunità cristiana allora viveva, con evidenti tensioni rispetto all’ebraismo da cui essa proveniva. Questo aspetto specifico è percepibile nella redazione matteana di quegli atti: essa è protesa a marcare le responsabilità del Sinedrio, attenuando quelle – decisive per la sentenza finale – del procuratore romano.

Significativi, al riguardo, sono due elementi evocati solo da questo evangelista: l’intervento della moglie di Pilato, «turbata in sogno a causa dell’uomo giusto» Gesù (27,19), e la lavanda delle mani, gesto in realtà biblico, scandito da una dichiarazione di Pilato: «Non sono responsabile di questo sangue». Si spiega, così, l’accento spostato sul Sinedrio e sul popolo ebraico, come appare nella frase veemente che abbiamo posto sotto la nostra attenzione. È evidente che con essa Matteo, il cui Vangelo era indirizzato a cristiani di origine giudaica, vuole ormai segnare fortemente il distacco dalla Sinagoga e mostrare l’apertura della Chiesa verso il mondo pagano.

Sappiamo, d’altronde, che i Vangeli non sono documenti storiografici in senso stretto: pur fondandosi su avvenimenti testimoniali e memorie storiche, essi offrono una molteplice rilettura teologica della figura, delle vicende e delle parole di Gesù di Nazaret. Non per nulla sono quattro e hanno alla base autori e situazioni originarie differenti. Dal punto di vista storiografico, è difficile essere drastici rispetto alle responsabilità della condanna a morte di Gesù. Certamente la pena di morte fu irrogata solo da chi aveva il potere giuridico di emetterne la sentenza, cioè il tribunale romano.

Non possiamo, però, ignorare che il Sinedrio aveva rubricato la colpa di Gesù da religiosa (la bestemmia) a politica (la ribellione a Cesare) per eliminare una figura imbarazzante per la classe dirigente religiosa e politica giudaica di allora. Si spiega così la frase della folla evocata da Matteo, secondo un’espressione biblica tradizionale per condannare un delitto o una persona pericolosa, assumendone la responsabilità (si veda 2Samuele 1,16 e 3,29). Questo, tuttavia, non può assolutamente autorizzare – come purtroppo è avvenuto con l’antisemitismo di matrice cristiana – a usare la frase matteana per sostenere l’assurda accusa di “deicidio” per il popolo ebraico (e neppure per i Romani).

Chiaro ed esplicito è stato il concilio Vaticano II quando ha affermato: «Sebbene le autorità ebraiche con i propri seguaci si siano adoperate per la morte di Cristo, tuttavia quanto è stato commesso durante la sua Passione non può essere imputato né indistintamente a tutti gli Ebrei allora viventi né agli Ebrei del nostro tempo» (Nostra aetate, n. 4). A questo, poi, si aggiunge il legame radicale del cristianesimo con Israele, affermato dallo stesso san Paolo nelle pagine appassionate dei capp. 9-11 della Lettera ai Romani o dalla frase suggestiva del Gesù di Giovanni: «La salvezza viene dai Giudei» (4,22).

Pubblicato il 23 agosto 2012 - Commenti (2)
16
ago

Il bacio di Giuda

Bacio di Giuda, copia del mosaico della basilica di San Marco, Venezia.
Bacio di Giuda, copia del mosaico della basilica di San Marco, Venezia.

"Giuda si avvicinò
a Gesù e disse:  «Salve, Rabbì».
E lo baciò.
 Gesù gli disse: «Amico, per
questo sei qui!».

(Matteo 26,49-50)

In quella notte fosca, nell’orto degli Ulivi, detto in aramaico Getsemani (“frantoio per olive”), s’avanza Giuda, il discepolo soprannominato “Iscariota”, forse “uomo di Kariot”, un villaggio meridionale della Terra Santa, oppure – secondo le varie ipotesi interpretative formulate dagli studiosi – deformazione del termine latino sicarius, con cui i Romani bollavano i ribelli al loro potere, o ancora ’ish-karja’, “uomo della falsità”, forse un soprannome negativo assegnatogli successivamente.

Il celebre gesto del bacio che egli compie è divenuto un emblema del tradimento, e Gesù, secondo il Vangelo di Luca, reagisce tristemente: «Giuda, con un bacio tradisci il Figlio dell’uomo?» (22,48).
Matteo, invece, registra solo una reazione secca da parte di Cristo. In greco si ha soltanto ef’ ho párei, che significa: «Per questo sei qui!», in pratica, «fa’ quello che hai deciso di fare». Ma questa frase, simile a un soffio, è introdotta da un amaro hetáire, “amico”. L’evangelista, però, riferirà uno sbocco inatteso di quel gesto, a distanza di poche ore da questo scarno dialogo tra l’ex discepolo e il suo Maestro: Giuda, infatti, restituito ai mandanti il prezzo del tradimento, travolto dal rimorso, s’impiccherà (27,5).

Forse egli aveva vissuto una delusione interiore rispetto al sogno di diventare il seguace del Messia politico liberatore dal potere oppressivo imperiale e per questo aveva tradito, ritrovandosi però alla fine interiormente sconvolto.
Noi ora ci poniamo una domanda più teologica. Se il tradimento era iscritto nel disegno di Dio che comprendeva la morte salvifica del Figlio, quale responsabilità poteva ricadere su chi ne doveva essere lo strumento di attuazione?
Non è forse vero che Gesù aveva dichiarato che «nessuno [dei discepoli] sarebbe andato perduto tranne il figlio della perdizione, perché si adempisse la Scrittura» (Giovanni 17,12)?
La questione è delicata: da un lato, c’è la libertà efficace di Dio che opera nella storia e nel mondo; d’altro lato, c’è la libertà della persona umana di Giuda. Questa seconda libertà è stata sollecitata in Giuda da Satana, come aveva ribadito lo stesso Gesù: «Non ho forse scelto io voi, i Dodici? Eppure uno di voi è un diavolo!», si legge nel Vangelo di Giovanni (6,70), e lo stesso evangelista nota che, dopo l’ultima cena con Gesù nel Cenacolo, «Satana entrò in Giuda...; il diavolo gli aveva messo in cuore di tradire» (13,2.27). E aggiungerà che alla base del tradimento c’era la cupidigia del denaro (12,4-6). La volontà di Giuda si era, quindi, esercitata liberamente, cedendo alla tentazione diabolica.

Come, invece, si è manifestata la libertà di Dio, espressa nella frase «perché si adempisse la Scrittura» usata da Gesù per collocare l’evento del tradimento in un altro disegno superiore? Questa formula vuole semplicemente indicare che anche la libertà umana con le sue follie e vergogne può essere inserita in un disegno divino superiore. Giuda opta coscientemente e responsabilmente per il tradimento aderendo a Satana, e Dio inserisce questo atto umano infame nel suo progetto libero ed efficace di redenzione. Dio non è, quindi, preso in contropiede dalla scelta del traditore; egli la rispetta e non la blocca, ma la riconduce all’interno del disegno salvifico che si attuerà proprio con la morte di Cristo.

Pubblicato il 16 agosto 2012 - Commenti (2)
09
ago

Il giorno e l'ora

Giudizio Finale (1289-93), particolare dei serafini, affresco di Pietro Cavallini (1240 ca.-1320 ca.). Roma, Santa Cecilia in Trastevere.
Giudizio Finale (1289-93), particolare dei serafini, affresco di Pietro Cavallini (1240 ca.-1320 ca.). Roma, Santa Cecilia in Trastevere.

"Quanto a quel
giorno e a
quell'ora
nessuno lo sa, né
gli angeli
del cielo, né il
Figlio ma solo
il Padre".


(Matteo 24,36)

Partiamo da una domanda iniziale che i discepoli rivolgono a Gesù. Egli, sostando davanti al monumentale tempio gerosolimitano eretto da Erode, aveva annunziato la futura rovina di quell’edificio.
I discepoli, allora, gli avevano chiesto: «Di’ a noi quando accadranno queste cose e quale sarà il segno della tua venuta e della fine del mondo » (Matteo 24,3). È evidente che, nel loro quesito, essi intrecciano eventi diversi tra loro: la distruzione del tempio da parte dei Romani nel 70, la nuova venuta di Cristo giudice della storia e la fine del mondo. Si concentrano qui alcuni interrogativi che hanno tormentato la Chiesa delle origini e che hanno vari riflessi nel Nuovo Testamento (si leggano, ad esempio, le Lettere di Paolo ai Tessalonicesi o il libro dell’Apocalisse o la Seconda Lettera di Pietro nella finale del cap. 3 e così via).

Queste domande sono usate da Matteo come cornice per il cosiddetto “discorso escatologico”, il quinto e ultimo intervento ampio di Gesù, presente nei capp. 24-25 di quel Vangelo. Il termine “escatologico” è di matrice greca e indica le “realtà ultime”, cioè la fine della storia, ma anche il fine di tutto l’essere. Non si tratta, infatti, di una dissoluzione nel nulla ma di una redenzione, di una salvezza, di una nuova creazione («cielo nuovo e terra nuova», Apocalisse 21,1), comprendente il giudizio divino discriminante tra bene e male (si legga Matteo 25,31-46, una pagina memorabile che vede Cristo protagonista di questo atto ultimo della storia umana).

Il discorso escatologico di Cristo non vuole descrivere i fenomeni fisici o gli eventi terminali che sigleranno la fine del mondo, anche se in apparenza le immagini usate sembrano inclinare in questa linea.
In realtà, si tratta di simboli desunti da una letteratura popolare nel giudaismo di quei secoli, presente anche nella Bibbia col libro di Daniele, e denominata “apocalittica”. Il termine di genesi greca designa una “rivelazione” (si pensi all’Apocalisse di Giovanni): essa ha come meta l’apertura simbolica del sipario sul destino ultimo dell’essere e dell’esistere. Proprio perché essa si affaccia su un ignoto tenebroso, questa letteratura ama segni, visioni, scene che recano impresse sensazioni di terrore o di indecifrabilità.

Cristo ricorre a questo apparato non per elaborare previsioni su quell’evento estremo, bensì per creare tensione e impegno nei confronti del regno di Dio, già inaugurato con la sua venuta ma destinato a raggiungere una meta di pienezza futura, un po’ come aveva fatto balenare nella parabola del granello di senape che cresce fino a diventare un albero (Matteo 13,31-32).
In questa luce si comprende la frase sorprendente che abbiamo ritagliato da quel discorso. A Gesù poco interessa fare oroscopi sulla fine del mondo oppure sugli antefatti storici: essi sono certamente inseriti nel piano salvifico divino.

Egli, invece, nella sua esistenza storica e umana si interessa solo di ciò che riguarda la sua missione, ossia instaurare le basi del regno di Dio, un progetto di salvezza, di liberazione, di amore che fiorirà pienamente in quell’eternità, destinata a subentrare «a quel giorno e a quell’ora» della fine che il Padre celeste ha disegnato nel suo piano generale di creazione e di redenzione. In questa frase di Gesù brilla, quindi, la sua umanità reale e non fittizia.
La divinità, alla quale egli partecipa come Figlio di Dio, sarà invece svelata nella sua risurrezione e nel suo ritorno al Padre.

Pubblicato il 09 agosto 2012 - Commenti (0)
02
ago

Il Messia di chi è figlio?

Sacra parentela, dipinto originario della Germania, circa 1500. Philadelphia, Museum of Art.
Sacra parentela, dipinto originario della Germania, circa 1500. Philadelphia, Museum of Art.

"Gesù chiese
ai farisei: «Che
cosa pensate
del Cristo?
Di chi è figlio?».
Gli risposero:
«Di Davide»".


(Matteo 22,41-42)

Questa volta non sono i suoi avversari a punzecchiare Gesù, come accade ripetutamente nella pagina del capitolo 22 di Matteo, una pagina costellata di “controversie”, ossia di polemiche con farisei e sadducei. Ora è lui stesso che provoca i farisei riuniti in un’assemblea, rivolgendo loro il quesito che abbiamo citato, apparentemente banale. Non era, infatti, noto a tutti i lettori della Bibbia che il Messia sarebbe disceso dal filo genealogico davidico? Ricordiamo che la parola “Cristo” è la versione greca dell’ebraico “Messia” (Mashiah) che significa “consacrato”, e che “figlio” è usato spesso in senso lato per indicare un discendente. Dov’è, dunque, la difficoltà?


Essa è da cercare nel prosieguo della discussione. Gesù, infatti, mette sul tappeto del dibattito un celebre Salmo messianico, il 110, ritenuto opera di Davide come si evince dal titolo che gli era stato apposto: «Di Davide. Salmo». L’inno, composto dal famoso sovrano considerato appunto dalla tradizione come l’antenato del Messia, «mosso dallo Spirito » (22,43), inizia con un oracolo divino che è così introdotto: «Disse il Signore [Yhwh Dio] al mio Signore [il re Messia] ». Segue l’oracolo: «Siedi alla mia destra, finché io ponga i tuoi nemici sotto i tuoi piedi». Davide, quindi, chiama il Messia «mio signore». Facile è l’obiezione di Cristo: «Se dunque lo chiama “Signore” come può essere suo figlio?» (22,44-45). Se il Messia-Cristo è “figlio di Davide”, come può Davide definirlo suo “Signore” e quindi a lui superiore?


I farisei si trovano impastoiati in una disputa di taglio rabbinico, un genere nel quale peraltro eccellevano. Gesù li avviluppa nella stessa rete che essi più di una volta avevano teso contro di lui con i loro quesiti. A questo punto, però, ci si attenderebbe di vedere come Gesù – qui raffigurato nella veste di un rabbí giudaico – riesca a risolvere la contraddizione tra un Messia contemporaneamente figlio e Signore di Davide, secondo l’analisi appena fatta del Salmo 110. La conclusione di Matteo è spiazzante: «Nessuno era in grado di rispondergli e, da quel giorno, nessuno osò più interrogarlo» (22,46). Marco, che ambienta questa scena nell’area del tempio di Gerusalemme, senza introdurre i farisei come interlocutori, conclude semplicemente: «la folla numerosa lo ascoltava volentieri» (12,37).


La risposta a quell’apparente contraddizione è ovviamente possibile solo in sede cristiana. Per il giudaismo, infatti, il Messia rimane creatura umana e come tale non potrà essere definito “Signore”. Nel cristianesimo il Cristo ha certamente una reale dimensione storica e, quindi, è ancorato nella sua umanità a una discendenza, quella davidica, attestata dalla genealogia che lo stesso Matteo pone in apertura al suo Vangelo: «Genealogia di Gesù Cristo figlio di Davide, figlio di Abramo » (1,1). Egli è, dunque, realmente «figlio [discendente] di Davide», legato alla linea della promessa messianica (2Samuele 7; Salmo 89). Ma contemporaneamente è figlio di Dio e, in questa luce, è “Signore” di Davide. Il mistero centrale del cristiano, l’Incarnazione, risolve dunque anche l’enigma del Salmo 110, posto da Gesù all’attenzione dei farisei.

Pubblicato il 02 agosto 2012 - Commenti (2)

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Autore del blog

Gianfranco Ravasi

Gianfranco Ravasi

Gianfranco Ravasi è un cardinale, arcivescovo cattolico e biblista italiano, teologo, ebraista ed archeologo.
Dal 2007 è presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, della Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa e presidente della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra.

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