24
feb

Non desiderare!

Susanna e i vecchioni del Veronese (1528-1588). Madrid, Museo del Prado.
Susanna e i vecchioni del Veronese (1528-1588). Madrid, Museo del Prado.

"Io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore.".
(Matteo 5,28)

Si è spesso ironizzato su questa frase del Discorso della Montagna, mostrandone l’eccesso. D’altronde, non è forse vero che «il desiderio è la liana dell’esistenza», come dice un testo sacro indù, il Dhammapada? La risposta a questo interrogativo e ai relativi corollari sarcastici è duplice. Iniziamo puntando la nostra attenzione sul verbo “desiderare”, in greco epithyméin. Esso rimanda al sottofondo ebraico del nono e decimo comandamento del Decalogo che suonava così: «Non desidererai la casa del tuo prossimo. Non desidererai la moglie del tuo prossimo» (Esodo 20,17; nel Decalogo parallelo di Deuteronomio 5 si anticipa la donna rispetto alla casa). Là si usava il verbo ebraico hamad, che aveva un valore particolare, ricalcato da quello greco presente nel Vangelo di Matteo.

Di scena con quel termine non era la semplice emozione istantanea e spontanea di fronte a una persona o a una realtà attraente, bensì una decisione profonda della volontà che pianifica un progetto vero e proprio per conquistare l’oggetto del desiderio, anche attraverso una macchinazione o una tensione psicologica intima o una costante concupiscenza. Pensiamo al celebre racconto del c. 13 del libro di Daniele ove quei due anziani tentano di sedurre Susanna, con una passione frenetica e insensata, senza alla fine riuscirvi.

Ecco, Gesù ammonisce che si può compiere adulterio anche senza giungere, forse per motivi estrinseci, a commetterlo realmente, ma solo attuandolo con il cuore, con la scelta interiore, con una programmazione coerente e cosciente di tradimento.

A questo punto introduciamo la seconda osservazione di indole più generale. Essa rimanda al contesto che già in una precedente analisi di un altro versetto matteano del Discorso della Montagna – quello sull’insulto aggressivo al fratello (5,22) – abbiamo puntualizzato. Nell’architettura di quel Discorso ci si imbatte in quelle che sono state chiamate le “sei antitesi” (5,21-48). Gesù, a prima vista, sembra opporre a sei precetti della Legge biblica altrettanti comandamenti suoi, di taglio antitetico. In realtà, come già notava uno studioso, David Daube, nella sua opera del 1956 The New Testament and the Rabbinic Judaism, «la relazione tra le due parti dello schema (“Avete udito... ma io vi dico...”) non è di puro contrasto. Il secondo elemento dell’antitesi rivela il senso racchiuso nel primo, anziché sopprimerlo».

Gesù, quindi, assume l’antico comandamento biblico, ne rifiuta l’interpretazione riduttiva e letteralista che era propria di un certo atteggiamento del suo tempo (e, per certi versi, costante nei secoli) e ne mostra la vera anima, la forza sottesa, qualora quel comandamento sia compreso nel suo significato profondo al di là della lettera.

Anche nel nostro caso del “desiderio” si intuisce questa logica radicale, protesa a celebrare la verità genuina e l’autenticità del matrimonio: «Avete inteso che fu detto: Non commetterai adulterio! Ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla...» (5,27-28). Cristo propone una spiritualità matrimoniale e una morale sessuale di pienezza che egli vede già iscritta nel sesto comandamento del “non commettere adulterio” (Esodo 20,14), il cui vero valore va oltre il mero dettato letterale del tradimento, ovviamente condannato.

Pubblicato il 24 febbraio 2012 - Commenti (3)
17
feb

Raká e Môré

Il piccolo ebreo offeso di Ivan Kramskoj (1837-1887). San Pietroburgo Museo Statale Russo.
Il piccolo ebreo offeso di Ivan Kramskoj (1837-1887). San Pietroburgo Museo Statale Russo.

"Chi dice al fratello: “Raká!” dovrà essere sottoposto al Sinedrio. Chi gli dice : “Môré!” sarà destinato al fuoco della Geenna".
(Matteo 5,22)

Ecco davanti a noi una frase molto forte, incastonata in quel testo fondamentale della predicazione di Gesù che è il Discorso della Montagna. Quest’ultimo, in verità, è una raccolta di diversi interventi che Cristo pronunziò in ambiti e tempi differenti e che l’evangelista ha collocato sul fondale di un “monte” evocatore del Sinai, così da creare un parallelo positivo tra Mosè e Cristo stesso, il Mosissimus Moses, come lo definiva Lutero, cioè la guida suprema, il Mosè all’ennesima potenza. Gesù, infatti, non era «venuto ad abolire la Legge o i Profeti ma a portarli a pienezza» nel loro messaggio (Matteo 5,17).

Due sono le questioni che stanno davanti al lettore. Innanzitutto puntiamo su quelle parole che abbiamo intenzionalmente lasciato nel tenore originale dei Vangeli. La prima è la trascrizione greca della parola aramaica raqa’ che denota lo stupido, una persona “senza cervello”, “dalla testa vuota”, con un aspetto di aggressività offensiva pari al nostro “cretino” o “imbecille”. Il secondo è, invece, un vocabolo greco e indica “l’insensato”, lo stolto attivo, in ultima analisi “il pazzo”. Tuttavia, nel parallelo ebraico sotteso si aveva una connotazione ben più grave: con quel termine si bollava l’empietà religiosa, l’apostasia idolatrica ed è per questo che alcune versioni traducono con “rinnegato”.

Siamo, quindi, di fronte ad attacchi verbali feroci che sbocciano dal terreno dell’odio e del disprezzo. Ma proprio qui scatta la seconda questione a cui sopra si accennava. Per un tale atto è adeguata una condanna così grave e fin assoluta, ossia la denuncia al supremo tribunale giudaico del Sinedrio di Gerusalemme? O, peggio, la consegna al «fuoco della Geenna», nota immagine biblica per designare il giudizio infernale, nella totale rimozione dalla comunione con Dio? La risposta è in tutta l’atmosfera e nello stesso filo rosso che regge il Discorso della Montagna.

Gesù ricorre spesso al paradosso e alla radicalità perché la sua non è la proposta di una pura e semplice regola morale fatta di tanti precetti e articoli di diversa gravità, un po’ come accadeva nel giudaismo che aveva elencato 613 comandamenti ricavandoli dalla Torah, cioè dalla Legge biblica presente nei primi cinque libri della Sacra Scrittura. Cristo, invece, vuole spingere il suo discepolo a un’attitudine totale e assoluta di fedeltà che nasce dal cuore e dall’amore e non da una sequenza di atti religiosi che, una volta compiuti, chiudono il capitolo dell’impegno di fede. È un po’ ciò che accade, per esempio, all’amore materno o paterno che non si riduce solo ad alcune ore o atti del giorno, ma abbraccia la totalità del tempo e dell’esistenza.

In questa luce il cristiano deve dedicarsi a combattere ogni offesa e colpa nei confronti del prossimo, puntando alla perfezione; non deve evitare soltanto i peccati gravi come l’omicidio o la violenza fisica. È un po’ quello che emerge se si leggono le sei “antitesi” che sono intessute nel Discorso della Montagna (Matteo 5,20-48) e che iniziano proprio con quella che noi abbiamo citato. Essa suona appunto così: «Avete inteso che fu detto agli antichi: Non ucciderai!; chi avrà ucciso dovrà essere sottoposto al giudizio. Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello dovrà essere sottoposto al giudizio…» e qui segue il nostro versetto (5,21-22).

Pubblicato il 17 febbraio 2012 - Commenti (3)
09
feb

Poveri in spirito

Beato Jacopone daTodi, Maestro di Prato, secolo XV. Prato, Museo dell’Opera del Duomo.
Beato Jacopone daTodi, Maestro di Prato, secolo XV. Prato, Museo dell’Opera del Duomo.

"Beati i poveri in spirito
perchè di essi è il regno dei cieli".
(Matteo 5,3)

Una domanda preliminare spontanea: perché mettere tra le parole “difficili” dei Vangeli questa che è una delle frasi più celebri del cristianesimo? Non appartiene forse a quelle beatitudini che sono il gioiello letterario e spirituale posto in apertura al Discorso della Montagna, da alcuni definito come la Magna Charta della fede cristiana? Il tema della povertà non è forse emblematico della vita e della testimonianza in atti e in parole di Cristo e dei suoi seguaci, anche se spesso la cristianità s’è dimostrata al riguardo poco fedele, come ammoniva nelle sue Laudi Jacopone da Todi («povertate poco amata, pochi t’hanno desponsata»)? In verità, ci sono alcuni problemi sia letterari, sia storici, sia teologici che s’incrociano attorno alle beatitudini e che esigono una serie di precisazioni.

Innanzitutto c’è il fatto della loro collocazione in un contesto topografico diverso. Matteo scrive: «Vedendo le folle, Gesù salì sul monte... e si mise a parlare» (5,1-2). Luca: «Disceso con loro, si fermò in un luogo pianeggiante... e alzati gli occhi verso i suoi discepoli, diceva...» (6,17.20). La soluzione del contrasto è semplice: Luca evoca il contesto storico reale in cui si svolse quel discorso, una pianura di Galilea. Matteo, invece, che nel suo discorso raccoglie altri interventi pronunziati da Cristo in sedi diverse, introduce una cornice simbolica, quella del monte, alludendo così al Sinai e a Mosè: non per nulla si parlerà nel discorso del nesso intimo tra la Legge antica e l’annunzio di Gesù. Rilevante è, poi, la differenza tra le due redazioni delle beatitudini: in Matteo (5,3-12) sono nove (l’ultima è un’espansione dell’ottava, forse un suo commento), mentre in Luca (6,20-23) sono solo quattro, a cui però si aggiungono altre quattro “maledizioni” (“Guai!”) parallele e antitetiche. Questo dato, frequente anche in altri confronti tra i testi evangelici, dimostra che i loro autori, tenuta ferma la sostanza, si comportano non come storici in senso stretto creando dei freddi manuali o dei verbali documentari, bensì come “evangelisti” la cui fedeltà è viva e duttile, si apre alle istanze delle comunità alle quali le parole e le memorie di Cristo devono essere trasmesse inmodo concreto e incarnato.

Giungiamo, così, alla prima beatitudine, quella sulla povertà. Luca la presenta in maniera diretta e profetica: «Beati voi, poveri!», riflettendo i destinatari del suo Vangelo che erano in difficoltà sociale ed economica. Così aveva fatto anche Gesù interpellando la folla dei miseri con il “voi” e con la promessa essenziale della felicità del regno di Dio a loro riservata. Matteo adotta, al contrario, un linguaggio più sapienziale alla terza persona: «Beati i poveri...», anche perché il Gesù da lui tratteggiato è il nuovo Mosè che parla rivolto anche ai secoli futuri. Inoltre, apporta una precisazione: «Beati i poveri in spirito».

Questa aggiunta è stata spesso oggetto di equivoco perché, letta alla maniera occidentale, sembrerebbe riferirsi soltanto a un distacco spirituale dalle ricchezze e dagli agi e non a un comportamento reale di donazione agli altri e di sobrietà. In realtà, la puntualizzazione “in spirito” perfeziona la celebrazione della povertà comune a Matteo e Luca: la formula, che è nota anche nei documenti giudaici scoperti a Qumran sul Mar Morto, significa non una scelta astratta e ideale bensì radicale, che parta appunto dallo “spirito” per diventare norma dell’atteggiamento concreto. Siamo proprio nell’atmosfera delle beatitudini che non impongono un codice di leggi o regole, ma un’opzione totale, fondamentale e assoluta nei confronti dei valori evangelici.

Pubblicato il 09 febbraio 2012 - Commenti (2)
02
feb

La prima tentazione di Gesù

Gesù precipita Satana di Mattia Preti (1613-1699). Napoli, Museo di Capodimonte.
Gesù precipita Satana di Mattia Preti (1613-1699). Napoli, Museo di Capodimonte.

"Gesù fu condotto nel deserto dallo
Spirito per essere tentato dal diavolo".
(Matteo 4,1)

L’ultima tentazione di Cristo è il titolo di un romanzo che lo scrittore greco Nikos Kazantzakis pubblicò nel 1955 e che è divenuto famoso per la libera e provocatoria resa cinematografica eseguita nel 1988 dal regista americano Martin Scorsese. In realtà, la vera prima tentazione di Cristo è narrata dai Vangeli Sinottici agli esordi della sua missione pubblica: Marco (1,12-13) si affida a sole quattro frasi essenziali, mentre Matteo (4,1-11) e Luca (4,1-13) “sceneggiano” l’evento in un trittico di quadri che hanno come fondali il deserto, il punto più alto del tempio di Gerusalemme e un monte molto elevato. Ciò che imbarazza il lettore è proprio l’avvenimento in sé con questa strana sorta di trasferimento “aereo” che vede Gesù in balìa di Satana.

È indubbio che la tentazione sia stata un’esperienza storica reale narrata da Cristo stesso, perché difficilmente la comunità cristiana delle origini avrebbe inventato un simile episodio che vedeva il suo Signore alla mercé del diavolo che lo provocava. Gesù stesso probabilmente ha raccontato questa vicenda traumatica forse evocando tre luoghi diversi in cui egli la visse. In essa la tentazione si configurava come la proposta di imboccare vie alternative per la sua missione messianica rispetto a quella che il Padre gli aveva assegnato: la strada di un messianismo puramente sociale (i pani) o taumaturgico (il prodigio della caduta dal pinnacolo del tempio rimanendo illeso) o politico (i regni della terra).

Certo è che la narrazione crea sorpresa, perché Satana sembra esercitare un certo potere su Gesù, ma questo elemento sorprende di meno, se si riconduce la tentazione al suo significato primario. Essa è come una messa in opera della libertà umana, della sua capacità di decisione, di scelta, di volontà. Ora, si deve ribadire con forza che l’umanità di Gesù non è una vaga somiglianza a noi ma è una realtà genuina, e quindi deve comprendere il rischio della libertà che è specifico della creatura umana. Come Adamo è sotto l’albero della conoscenza del bene e del male, cioè sotto l’albero della scelta morale libera, sottoposto allo stimolo tentatore del serpente diabolico, così anche Gesù, vero uomo, è davanti a una libera opzione che riguarda la sua missione.

Egli, però, a differenza di Adamo, fondandosi sulla parola di Dio – che cita nelle sue risposte al demonio in una specie di dibattito teologico (anche il diavolo usa riferimenti a testi biblici) – sceglie di aderire al progetto divino in maniera totale, rigettando le alternative sataniche. Emerge, in tal modo, la figura non solo del nuovo e perfetto uomo-Adamo, ma anche quella del nuovo Israele che, diversamente dal popolo ebraico in marcia nel deserto, non cade nella rete diabolica della tentazione e diviene, così, un esempio per noi, uomini e donne, spesso coinvolti e travolti dalle prove morali. La persona di Cristo, infatti, si erge alla fine come colui che ha resistito al demonio con vigore e serenità, rimanendo fedele alla volontà del Padre celeste, «ed ecco, degli angeli gli si avvicinarono e lo servivano» (Matteo 4,11).

Pubblicato il 02 febbraio 2012 - Commenti (2)

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Autore del blog

Gianfranco Ravasi

Gianfranco Ravasi

Gianfranco Ravasi è un cardinale, arcivescovo cattolico e biblista italiano, teologo, ebraista ed archeologo.
Dal 2007 è presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, della Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa e presidente della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra.

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