26 nov
Le tre Marie al sepolcro, particolare dalla Maestà di Duccio di Buoninsegna (1260 ca.-1318). Siena, Museo dell’Opera della Metropolitana.
"Le donne fuggirono via dal sepolcro,
piene di spavento e di stupore.
E non dissero niente a nessuno
perché erano impaurite".
(Marco 16,8)
Abbiamo intenzionalmente posto i
puntini di sospensione al termine
della nostra citazione, perché questa
volta vogliamo affrontare non tanto
un passo difficile del Vangelo di Marco,
quanto piuttosto un vuoto. Tutti gli studiosi,
su basi ben motivate che noi soltanto
evocheremo, ritengono, infatti, che qui
finisca lo scritto marciano. Se i lettori, però,
prenderanno in mano la loro Bibbia,
troveranno che il racconto procede ancora
dal v. 9 al 20 con una sintesi delle apparizioni
del Cristo risorto. Ebbene, quella
finale – che comunque fa parte delle
Scritture ispirate e riconosciute nel Canone
della Chiesa – in realtà è un’aggiunta
redazionale più tarda, come si
intuisce tenendo conto di due fattori.
Il primo è lo stile di questo brano finale,
profondamente mutato rispetto
all’asciuttezza e vivacità del dettato di
Marco: si ha l’impressione di essere di
fronte a un riassunto delle apparizioniincontri
del Risorto che l’evangelista
forse non aveva apposto nelle ultime
pagine del suo racconto. La seconda ragione
è da verificare nei più antichi e
importanti codici pergamenacei che ci
hanno trasmesso il testo dei Vangeli: ebbene,
in quei manoscritti l’attuale finale
manca, e così si attesta che allora essa
non era considerata come originaria.
Altri codici antichi dei Vangeli offrono
differenti conclusioni e anche i Padri
della Chiesa hanno al riguardo non poche
esitazioni e oscillazioni.
È indubbio che il Vangelo di Marco
non poteva finire col v. 8 sopra citato,
così incompiuto e sospeso (soprattutto
nel dettato greco originario). Ci è ignota
la causa per cui alla finale dell’evangelista
si sia sostituito l’attuale sommario
dei vv. 9-20, né si sa quando questo sia
avvenuto, anche se si deve riconoscere
che già nel II secolo alcuni autori cristiani,
come Taziano e sant’Ireneo, ne attestano
la conoscenza e molti codici posteriori
l’hanno accolto, seguiti dalle antiche
traduzioni dei Vangeli. È per questo
che esso si presenta anche nelle nostre
Bibbie e su questo testo la Chiesa ha posto
il sigillo della canonicità e, quindi,
dell’ispirazione divina, anche se la pagina
non è frutto dell’opera di Marco.
Sappiamo, infatti, che molti libri biblici
– pur avendo il patronato di un unico
autore – rivelano al loro interno diverse
mani di autori differenti. Il caso
più noto è quello di Isaia che vede, accanto
al celebre profeta dell’VIII secolo a.C.,
la presenza di altre voci distribuite nei secoli
successivi: le principali sono state
chiamate dagli esegeti il “Secondo” e il
“Terzo Isaia” (cc. 56-66), mentre anche altre
parti del libro isaiano sono da riferire
a questi stessi autori o a mani non identificabili.
Anche nel Vangelo di Giovanni,
la cui formazione fu molto complessa, si
notano due finali successive e distinte in
20,30-31 e 21,24-25, testimonianza di redazioni
diverse del testo giovanneo.
Il concetto di “ispirazione” divina
non è, infatti, rigido, quasi fosse un dettato
diretto tra Dio e un autore, ma è
una presenza molto ampia dello Spirito
divino che attraversa non solo guide,
profeti, sapienti, apostoli, ma anche autori
che hanno raccolto il loro messaggio
(è il caso di Marco, collegato probabilmente
a Pietro e un po’ anche a Paolo,
ma pure di Luca, discepolo di Paolo)
e redattori vari. Il suggello che la Chiesa,
illuminata dallo Spirito, impone al testo
finale della Bibbia, permette al fedele di
coordinare questa molteplicità nell’unità
di respiro della parola di Dio.
Pubblicato il 26 novembre 2012 - Commenti (2)
19 nov
Il bacio di Giuda, particolare del ragazzo che fugge lasciando il mantello in mano agli inseguitori, dal Codice Aureus Escurialensis Fol. 81r (facsimile). Madrid, monastero dell’Escorial.
"Seguiva Gesù
un ragazzo
che aveva
addosso
solo una sindone.
Lo afferrarono,
ma egli
lasciò cadere
la sindone
e fuggì via".
(Marco 14,51-52)
È la notte dell’arresto di Gesù. Giuda è
avanzato nell’orto del Getsemani, tra gli
ulivi, accompagnato da «una folla con
spade e bastoni».
L’atmosfera si fa concitata:
dopo il bacio del tradimento e il colpo di scena
dell’orecchio mozzato da «uno dei presenti
a un servo del sommo sacerdote», Gesù viene
arrestato e ha appena il tempo di fare una dichiarazione
amara: «Come se fossi un ladro
siete venuti a prendermi con spade e bastoni...
».
A essa aggiunge una nota teologica che
è anche un segno di accettazione: «Si compiano
dunque le Scritture!». Alla fine i discepoli
si danno a una fuga piuttosto codarda.
Un ragazzo che, forse per il caldo o per pura
e semplice praticità, si trova in quel campo
rivestito di un lenzuolo, viene coinvolto
nel tumulto di quell’arresto che egli aveva
seguito forse solo per curiosità.
Si tenta di
bloccarlo per un controllo, ma egli riesce a
sgusciar via da quel panneggio e ad allontanarsi.
Ci si è chiesti da sempre perché mai,
in una scena così drammatica, Marco abbia
voluto introdurre un particolare così marginale
e fin stravagante.
La risposta comune è
semplice: si tratterebbe di una pennellata
autobiografica, simile a ciò che accadeva in
passato quando i pittori in una scena evangelica
amavano raffigurare sé stessi, sullo
sfondo o tra la folla.
Protagonista dell’episodio sarebbe, allora,
il giovane evangelista Marco che avrebbe assistito
alla cattura di Gesù.
Molti, però, hanno
puntato l’attenzione sul termine con cui è
definito il lenzuolo indossato dal ragazzo e
che noi abbiamo lasciato com’è nell’originale
greco sindón, “sindone”.
Ora è noto che
anche il nudo corpo di Cristo deposto dalla
croce era stato avvolto in una “sindone”:
«Giuseppe d’Arimatea, comprata una sindone,
depose [il corpo di Gesù] in un sepolcro
scavato nella roccia» (Marco 15,46).
Sappiamo
anche che da questa sindone egli uscirà,
abbandonandola nella tomba, stando almeno
alla testimonianza di Giovanni che, però,
non usa il vocabolo “sindone”, bensì quello
più generico di “teli” posati là nel sepolcro
col sudario che aveva coperto il volto del Cristo
morto (20,5-7).
Molti studiosi sono convinti che questa
scenetta, pur essendo reale, acquisti un valore
secondario e simbolico proprio attraverso
l’evocazione della “sindone”. Essa si trasforma
in una sorta di compendio cifrato e
anticipato della risurrezione.
Cristo, infatti,
ha lasciato sulla terra il segno della sua morte,
il lenzuolo funebre, per ricordarci che
quella fine fu reale e non fittizia, attestazione
della sua umanità autentica.
Ma il fatto
che essa sia ormai soltanto un telo vuoto,
rende la sindone un simbolo vivo della risurrezione
e, quindi, della gloria e della divinità
di Cristo, Figlio di Dio.
Pubblicato il 19 novembre 2012 - Commenti (1)
12 nov
Angeli con calice, Crocifissione (particolare). Roma, San Carlo alle Quattro Fontane.
"Potete bere il calice
che io bevo, o essere
battezzati nel battesimo
in cui io sono battezzato?".
(Marco 10,38)
Giovanni e Giacomo sono ancora avvolti
nel fumo delle illusioni politiche
che avevano accompagnato
l’entrata in campo di Gesù, acclamato come
Messia: non riescono, infatti, a concepire
il regno di Dio se non in termini di
potere. Ecco, allora, la richiesta anticipata
di due posizioni di prestigio nel futuro organigramma:
uno alla destra di Gesù e
l’altro alla sua sinistra in quell’ideale consiglio
dei ministri del regno dei cieli.
La
replica di Cristo è severa: «Voi non sapete
quello che chiedete». E subito dopo, attraverso
due immagini, mostra quanto diversa
sia la logica del progetto che egli sta
realizzando, stracciando così ogni concezione
messianica nazionalistica.
Per essere ammessi al regno che Gesù
sta instaurando, c’è innanzitutto un “calice”
da bere. Di per sé l’immagine nella
Bibbia e nel giudaismo è ambivalente.
Da una parte, c’è il calice della gioia, della
consolazione offerta alle persone in lutto
dopo i funerali; c’è il calice dell’ospitalità
(Salmo 23,5) o quello del rito pasquale.
D’altra parte, però, c’è anche il calice
dell’ira di Dio, espressione di una prova
lacerante, della sofferenza e del giudizio
sul male: «Nella mano del Signore è un calice
ricolmo di vino drogato. Egli ne versa:
fino alla feccia ne berranno tutti gli
empi della terra» (Salmo 75,9).
Ora Cristo nella sua passione e morte,
assumendo su di sé il peccato
dell’umanità, berrà questo calice terribile.
Ne proverà disgusto, tant’è vero
che implorerà Dio così: «Abba’, Padre,
tutto a te è possibile, allontana da me
questo calice!» (Marco 14,36). Ma alla fine
non esiterà nella scelta.
A Pietro, che
con la spada tenta di impedire la sua cattura
nel Getsemani, replicherà: «Non devo
forse bere il calice che il Padre mi ha
dato?» (Giovanni 18,11). È, dunque, questa
la via, tutt’altro che trionfale, che conduce
alla gloria e quel calice verrà presentato
anche ai discepoli se lo vorranno
seguire sulla via della croce.
L’altra immagine è quella del “battesimo”
che è assunta da Gesù nel suo significato
etimologico di base: il termine deriva
dal verbo greco bápto o baptízein,
“immergere”.
Siamo, perciò, in presenza
di un’immersione non tanto nell’acqua
rigeneratrice e vitale del Battesimo
cristiano, quanto piuttosto nelle onde
tumultuose e tenebrose di un abisso di
sofferenze, del mare tempestoso delle
prove. Si ritorna, così, al simbolo del calice
a cui sono chiamati anche i seguaci
di Cristo, se vogliono essere ammessi alla
gloria del regno di Dio.
Gesù, a questo punto, convocati anche
gli altri dieci apostoli, impartisce loro
una lezione sulla vera “carriera” cristiana
(Matteo 10,41-45).
Essa è paradossalmente
modellata sul suo esempio di
“servo”, che «è venuto non per farsi servire,
ma per servire e dare la propria vita»,
ed è sintetizzata in questo “codice” ideale
ben diverso da quello che si assegnano
i politici e i potenti della terra:
«Chi vuole diventare grande tra voi sarà
vostro servitore e chi vuol essere il primo
tra voi sarà schiavo di tutti».
Pubblicato il 12 novembre 2012 - Commenti (2)
05 nov
Creature infernali divorano i dannati, miniatura di scuola francese tratta dall’Apocalisse di Cambrai, secolo XIII, Ms. 422. Cambrai, Francia, Biblioteca Municipale.
"Essere gettati nella Geenna
dove il loro
verme non muore
e il fuoco non si
estingue.
Ognuno sarà salato col fuoco".
(Marco 9,47-49)
Questa frase di Gesù è, per il lettore
moderno, un condensato di oscurità
che cercheremo di dissolvere
assumendone le singole componenti. Partiamo
dalla più facile, la Geenna.
Cristo
sta denunciando il peccato dello scandalo
che fa inciampare «questi piccoli che
credono in me» (Marco 9,42), cioè chi è
fragile nella fede e può essere facilmente
messo in crisi.
Ebbene, lo scandalizzatore
corre il rischio di essere gettato nella
Geenna che era popolarmente divenuta
un sinonimo di inferno. Ma che
cos’era in sé, prima di diventare un simbolo
della pena dei malvagi? Era una valle
il cui nome topografico completo in
ebraico era Ghe’-ben-Hinnon, ossia “valle
del figlio di Hinnon”, deformato nel greco
Gheenna, donde il nostro Geenna.
Ma come s’era acquistata questa triste
fama? Secondo quanto riferiscono alcuni
testi biblici (Geremia 19; 2Re 23,10), la valle
era stata trasformata nella discarica di
Gerusalemme, dato che si distendeva nella
periferia ovest e sud dell’antica città.
Là i rifiuti venivano inceneriti e là si compivano
anche riti infami come i sacrifici
di bambini, passati attraverso il fuoco, in
onore del dio fenicio Molok, sacrifici proibiti
dalla legge biblica (Levitico 18,21), eppure
praticati anche da due re di Giuda,
Acaz e Manasse. Facile era, quindi, considerare
quel luogo impuro (sia materialmente
sia religiosamente) come la sede
della condanna degli empi, l’inferno dalle
fiamme inestinguibili.
Si spiega, così, il fuoco che viene evocato
nel prosieguo della frase attraverso
una citazione del profeta Isaia, che
nell’ultimo versetto del suo libro (66,24)
descrive il giudizio divino su «coloro che
si sono ribellati a me: il loro verme non
morirà e il loro fuoco non si estinguerà
». Se l’immagine ignea è chiara per il
nesso con la Geenna, che cos’è invece il
“verme”? Il riferimento è a quelle larve
che si sviluppano negli alimenti o nei vegetali,
ma anche nei corpi malati creando
infezioni, come confessa Giobbe: «Purulenta
di vermi e di croste squamose è
la mia carne» (7,5). Oppure come accadde
al re Erode Agrippa, persecutore dei
primi cristiani, che similmente al nonno
Erode il Grande, morì «divorato dai
vermi» (Atti 12,23).
Il simbolo è, dunque, evidente: la punizione
del malvagio è incessante, analoga
a un fuoco inestinguibile e a un verme
che non lascia scampo alla carne.
Infine c’è il sale che viene anch’esso collegato
al fuoco. Di per sé questa realtà, tipica
in cucina, ha due aspetti.
È segno di solidarietà,
forse anche per la sua funzione
concreta di dar sapore ai cibi («Voi siete il
sale della terra», dirà Gesù in Matteo 5,13)
e vigore al corpo (il neonato veniva frizionato
con sale, secondo Ezechiele 16,4):
non per nulla nella Bibbia si parla di
«un’alleanza di sale, perenne, davanti al
Signore» (Numeri 18,19).
Nella nostra lingua
lo strumento economico della sopravvivenza,
lo stipendio, viene chiamato “salario”
e il libro di Esdra definisce i funzionari
persiani come «coloro che mangiano
il sale della reggia» (4,14).
C’era, però, un altro aspetto, questa
volta negativo. Evocando la fine di Sodoma
e Gomorra sotto una pioggia di sale,
zolfo e fuoco (Genesi 19), si rappresentava
il giudizio divino come una sorta di
crogiuolo nel quale si castigavano
atrocemente i peccatori salandoli e
bruciandoli. Il sale che conserva i cibi
presenterebbe l’aspetto permanente di
quella punizione. Qualche codice che ci
ha trasmesso i Vangeli e la Vulgata, cioè
la versione latina della Bibbia di san Girolamo,
ha applicato invece l’immagine alle
prove dei giusti trasformando la frase
con questa aggiunta, che rimanda al rito
di salatura delle vittime sacrificali (Levitico
2,13): «Ognuno sarà salato col fuoco e
ogni vittima sarà salata con sale».
Pubblicato il 05 novembre 2012 - Commenti (2)
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