26 lug
Simone Pignoni (1611-1698), Rut e Booz. Firenze, Collezione Cisbani.
"Alla risurrezione, di
quale dei sette quella
donna sarà moglie?
Tutti infatti l’hanno
avuta in moglie!"
(Matteo 22,28)
Se si va a cercare su un dizionario
biblico la parola “levirato” (dal latino
levir, “cognato”) si trova più
o meno una definizione di questo tipo:
«Prassi giuridica dell’antichità ebraica e
di altri popoli, secondo la quale se un uomo
sposato decedeva senza figli, il fratello
più giovane ne doveva sposare la vedova
per assicurare una discendenza al
defunto: il nome del morto e la sua eredità
sarebbero stati assegnati al primogenito
di questa nuova unione». Nell’Antico
Testamento sono tre i testi che presentano
tale istituto. I primi due riguardano il
primogenito del patriarca Giuda di nome
Er, morto precocemente (Genesi
38,6-11), e Booz che prese in moglie Rut,
sposa del defunto Elimelek, essendo suo
unico parente (Rut 1,11; 4,5).
In pratica, da questi due testi emerge
che il cognato (o il parente prossimo,
in caso di assenza di cognati) doveva
sposare la vedova di suo fratello, così
da poter assicurare un erede. Il terzo
testo è, invece, squisitamente giuridico
e offre un’articolazione più complessa
dell’obbligo con una serie di specificazioni,
limitazioni ed eccezioni che non
è il caso di puntualizzare in questa nostra
trattazione (Deuteronomio 25,5-10).
Il nostro compito è, infatti, quello di
spiegare il caso limite addotto dai Sadducei,
una corrente conservatrice del
giudaismo del tempo di Cristo, proposto
a Gesù per metterlo in imbarazzo.
Essi prospettano una catena di levirati
nei confronti di una sola donna: sette
fratelli subentrano in matrimoni
successivi, morendo però tutti prima
di aver assicurato una discendenza alla
vedova e, quindi, al loro primo fratello
defunto.
Il paradosso fittizio è introdotto per
costringere Gesù a schierarsi con loro
contro i farisei – l’altra corrente giudaica
avversaria – negando la risurrezione
che questi ultimi sostenevano come dottrina
di fede. Infatti, sogghignando, alla
fine gli domandano: «Alla risurrezione,
di quale dei sette la donna sarà moglie?
». Cristo, nella sua risposta, non cade
nel tranello e replica volando alto:
«Alla risurrezione non si prende né marito
né moglie, ma si è come gli angeli
del cielo» (22,30). Egli nega, così, una
lettura “materialistica” della risurrezione.
E aggiunge una motivazione teologica
ulteriore, citando un passo
dell’incontro di Mosè con il Signore al
roveto ardente del Sinai: «Io sono il Dio
di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe.
Non è il Dio dei morti ma dei viventi!
» (22,32; cfr. Esodo 3,6).
Dio non si lega a cadaveri, ma a esseri
viventi ai quali apre un orizzonte di
vita oltre la morte secondo categorie
differenti rispetto a quelle meramente
“carnali”, basate sulla nostra storia che
si muove secondo le coordinate dello
spazio e del tempo. Si tratta di un nuovo
ordine di rapporti, di una nuova
creazione, di un orizzonte nel quale i
vincoli parentali e sociali sono trasfigurati.
Queste parole di Gesù avevano
conquistato quel grande filosofo e
scienziato credente che fu Blaise Pascal.
A partire dal 1654 fino alla morte
(1662) egli portò sempre con sé un foglio,
cucito nella fodera del farsetto, intitolato
“Fuoco”, e scoperto alla morte
del pensatore da un domestico.
Eccone il testo modulato sulle parole
di Gesù, commentate liberamente da
Pascal: «Dio d’Abramo, Dio d’Isacco,
Dio di Giacobbe, non dei filosofi e dei
dotti. Certezza, certezza. Sentimento.
Gioia. Pace. Dio di Gesù Cristo. Dio mio
e Dio vostro. Il tuo Dio sarà il mio Dio.
Oblio del mondo e di tutto fuorché di
Dio. Egli non si trova se non per le vie
indicate dal Vangelo».
Pubblicato il 26 luglio 2012 - Commenti (2)
19 lug
Francesco Traini (secolo XIV), Giudizio finale, particolare con angelo e beato. Pisa, Camposanto.
"Amico, come mai
sei entrato qui senza
l’abito nuziale?...
Legatelo mani e piedi
e gettatelo fuori
nelle tenebre!"
(Matteo 16,23)
Le varie parabole di Gesù attingono
sempre alla vita sociale di un popolo.
Nel caso del banchetto nuziale
regale (Matteo 22,1-14) si fa riferimento
a un evento che, anche ai nostri giorni,
stimola l’interesse della comunicazione
e la curiosità della gente. Gesù, elaborando
un simile avvenimento, lo colora
di allusioni allegoriche modulate anche
sulla tradizione biblica: il re evoca
Dio, mentre suo figlio si trasfigura nel
Messia e il banchetto nuziale diventa
la grande celebrazione della festosa
era messianica (si legga Isaia 25,6-10);
nei servi inviati a convocare gli invitati
sono riconoscibili i profeti e gli apostoli;
gli invitati della prima cernita che si
comportano in modo così altezzoso e
fin aggressivo incarnano l’Israele peccatore
e i Giudei che rigettano Cristo; i
chiamati raccolti per le strade rimandano
ai pagani lieti di essere ammessi in
quel banchetto privilegiato, mentre la
città dei ribelli data alle fiamme è l’anticipazione
della rovina di Gerusalemme
del 70 dopo Cristo.
Rimane, però, un’altra scena piuttosto
sconcertante, introdotta solo da Matteo.
Alcuni studiosi pensano persino
che si tratti di un’altra parabola “incollata”
a quella del banchetto nuziale che è
nota anche a Luca (14,16-24). La prospettiva
sembra diversa e più universale:
siamo di fronte al giudizio finale ove
si consumerà una divisione netta, simile
a quella tra grano e zizzania di un’altra
nota parabola matteana (13,24-30).
È da questa seconda parte del racconto
che noi abbiamo desunto l’elemento
centrale piuttosto sconcertante, che vede
come protagonista un uomo senza
l’abito da cerimonia.
La perplessità che proviamo è spontanea:
una condanna così aspra è giustificata
da una semplice mancanza di etichetta?
Evidentemente no. Bisogna risalire
al simbolismo, diffuso in tutte le
culture, della veste. Essa non ha solo
funzioni concrete nei confronti del clima
o di decenza riguardo al pubblico,
ma rivela anche un aspetto emblematico,
estetico e sociale (si pensi solo alla
funzione fin esasperata della moda ai
nostri giorni). Anzi, l’abito da cerimonia
è spesso indizio di una dignità civile
o religiosa: è ciò che accade per i paramenti
sacerdotali, la corona e lo scettro
reale, la fascia del sindaco e così
via, tant’è vero che per indicare l’accesso
a una carica pubblica parliamo di
“investitura”.
È chiaro, allora, che l’assenza di abito
nuziale nel protagonista di questo secondo
racconto è indizio ben più grave di
una semplice carenza di educazione. È la
privazione di quelle opere e qualità
morali che possono ammettere al Regno
di Dio e al suo banchetto. Non è
sufficiente la vocazione a un compito (“i
chiamati”), bisogna anche adempierlo
con fedeltà e impegno così da diventare
“eletti”, cioè ammessi alla festa finale.
Fede e opere di giustizia devono unirsi
nell’esistenza, perché «non chiunque
dice: “Signore, Signore!” entrerà nel regno
dei cieli, ma colui che fa la volontà
del Padre che è nei cieli» (Matteo 7,21).
Altrimenti si è votati alle tenebre della
condanna infernale, lontani dal banchetto
del Regno di Dio. Là si avrà «pianto e
stridore di denti», un’immagine quest’ultima
non solo di freddo, come si ha nel
mondo classico e come suppone l’oscurità
con l’assenza del sole, ma anche di terrore
e di disperazione.
Pubblicato il 19 luglio 2012 - Commenti (2)
16 lug
"Parabola dei vignaioli", dal Vangelo dello zar Ivan Alexander (1355-1356). Londra, British Library.
«Questi ultimi hanno
lavorato una sola ora,
eppure li hai trattati
come noi, che abbiamo
sopportato il peso della
giornata e il caldo!».
(Matteo 20,12)
La parabola evoca, come accade
spesso alla predicazione di Gesù,
la concretezza di una situazione sociale
amaramente costante nella storia
dell’umanità. La parola di Cristo non è
né eterea né aerea, bensì è piantata
saldamente nel terreno delle vicende
umane. Di scena è ora la disoccupazione
e il precariato. Come è noto, nella
piazza del mercato, quella principale
della città, stazionavano i braccianti, in
attesa che un proprietario terriero o un
mediatore (l’infame prassi del “caporalato”
dei nostri tempi ne è la continuazione)
li prendesse a giornata.
Sappiamo lo sviluppo della parabola,
narrata dal solo Matteo (20,1-16) e scandita
sulla suddivisione della giornata secondo
l’“orologio” di allora. Si parte
con l’alba che è l’ultima parte della notte
e la prima del giorno, si procede con
la “terza ora”, cioè le nove, si passa alla
“sesta” (mezzogiorno) e alla “nona” (le
tre pomeridiane) e si giunge all’“undicesima
ora”, in pratica le cinque del pomeriggio,
alle soglie della sera e della notte.
Il compenso pattuito è di un denaro
d’argento, l’unità monetaria romana
che rappresentava il salario giornaliero
di un operaio e la spesa media di una
giornata, come si dice nella parabola
del buon Samaritano (Luca 10,35). Il denarius
recava l’effigie dell’imperatore:
si spiega così la scena del tributo a Cesare
narrata nei Vangeli (Matteo 22,19).
Strettamente parlando, quel padrone
che pattuisce con tutti un denaro di
paga, riservandolo anche a chi ha lavorato
una sola ora pomeridiana, agisce,
da un lato, correttamente sulla base del
contratto “separato” stipulato con ciascuno,
ma d’altro lato non è certo un
modello di giustizia nelle relazioni industriali.
Qual è, allora, il senso della
parabola, fermo restando che il suo
messaggio non può essere orientato
all’ingiustizia sociale? La lezione è di indole
religiosa ed esistenziale. Il padrone
della vigna lascia il passo a Dio, il
quale non lede di per sé la giustizia (il
contratto era in sé giusto), ma nei suoi
rapporti con l’umanità introduce la superiorità
dell’amore la cui generosità
va oltre la rigida norma del dovuto.
L’umanità è, infatti, costituita da persone
tutte diverse per qualità e doni ricevuti:
si va da chi ha cinque talenti a colui
che ne ha uno solo, per usare ancora
un’immagine monetaria di un’altra nota
parabola di Gesù. C’è la persona semplice
che ha poche capacità e chi, invece,
eccelle per doti straordinarie; c’è chi
è malato e fragile e chi è una quercia di
salute e di forza; c’è chi ha una modesta
dotazione intellettuale e chi è un genio;
c’è la persona debole, destinata a cadere
in errori e peccati, e c’è il giusto capace
di resistere con fermezza alle tentazioni;
c’è chi appartiene a una nazione
evoluta e privilegiata (Gesù poteva pensare
agli Ebrei, “i primi”) e c’è chi è nato
in un’area depressa e in un popolo misero
e di scarse disponibilità culturali e
sociali (i “pagani”, gli “ultimi”).
L’importante, dice Gesù, è che si entri
nel campo della vita col pieno impegno
personale. Dio, nella sua ricompensa finale,
non adotta il rigido criterio che si
fonda sui risultati, ma sceglie la via
dell’amore che premia anche chi avanza
reggendo tra le mani un piccolo frutto
del suo modesto ma reale lavoro. La vera
imparzialità è quella dell’amore che
mette sullo stesso livello chi ha ricevuto
molto e chi ha avuto poco dalla vita,
ma si è autenticamente consacrato alla
sua vocazione, anche se semplice.
Pubblicato il 16 luglio 2012 - Commenti (1)
09 lug
Dromedario utilizzato come mezzo di trasporto. Incisione tratta da "La Terre Illustree" n. 73, 24 marzo 1892. Tunisia.
"È più facile che un cammello
passi per la cruna di un ago che
un ricco entri nel regno di Dio".
(Matteo 19,24)
Il detto di Gesù, strettamente parlando, non risulta né strano né di ardua interpretazione a chi conosce il linguaggio dell'antico Vicino Oriente che ama il paradosso, i colori accesi, le tonalità forti. È stata solo la sensibilità occidentale a tentarne un ridimensionamento secondo una logica più "normale". Così c'è chi ha voluto ricondurre il greco kámêlon, "cammello" a un kámilon (la ê e la i avevano in passato e hanno oggi nel greco moderno lo stesso suono – i – nella pronuncia), che era invece una sorta di gomena o nodo marinaio: in questo modo si renderebbe meno eccessiva e più coerente l'immagine. C'è chi è ricorso fantasiosamente a una non documentata e, quindi, ipotetica porta di Gerusalemme denominata "cruna dell'ago" a causa della sua piccolezza e ristrettezza, sulla scia della "porta stretta" – evidentemente metaforica – evocata da Gesù nel Discorso della Montagna (Matteo 7,13).
In realtà, si deve lasciare il paragone in tutta la sua forza paradossale: la ricchezza è un ostacolo invalicabile per entrare nel regno di Dio che è destinato ai «poveri in spirito» e – come abbiamo visto in una precedente nostra analisi – costoro non sono tali per un vago distacco "spirituale" dai loro beni, ma perché essi sono radicalmente e totalmente liberi dall'idolatria delle cose e del loro possesso. Tra l'altro, che questo senso forte sia inteso da Gesù emerge dalla successiva reazione dei discepoli sconcertati (in greco si ha exepléssonto sfódra, cioè "furono grandemente stupiti, costernati"). E Cristo lo conferma dichiarando che la salvezza del ricco è sostanzialmente possibile solo attraverso un miracolo: «Questo è impossibile agli uomini, ma a Dio tutto è possibile!» (19,26).
Che il significato dell'immagine sia quello del contrasto estremo tra la microscopica cruna dell'ago e il mastodontico cammello è confermato anche da altri due paralleli esterni. Il primo è nello stesso Vangelo di Matteo, all'interno della veemente sequenza di sette "Guai!" che Gesù scaglia contro gli scribi e i farisei, rivelando che – se l'ira è un vizio capitale – lo sdegno in difesa della virtù e del bene è una virtù. Là si legge: «Guide cieche che filtrate il moscerino e ingoiate il cammello!» (23,24). È evidente l'implicito nesso tra questo poderoso animale e i piccoli fori del colino.
La seconda conferma viene da un testo rabbinico posteriore a Gesù, nel quale si delinea l'impossibilità e l'assurdità del far passare anche un elefante per la cruna di un ago! Cristo rivela, così, non solo la ferma condanna della ricchezza egoista che impedisce la sua sequela, come era accaduto al giovane ricco nel cui contesto è collocato il nostro detto (19,16-22), ma mostra anche la sua aderenza al linguaggio colorito della cultura in cui egli era incarnato.
In appendice ricordiamo che il cammello – in ebraico gamal, termine che vale anche per il dromedario a una sola gobba – è menzionato nella Bibbia a partire già dai patriarchi (ad esempio, Genesi 24,10-67 e 31,17.34). Curiosamente notiamo che, secoli dopo, secondo un registro riferito dal libro biblico di Esdra (2,66-67), gli Ebrei rimpatriati dall'esilio a Babilonia avevano una dotazione di ben 435 cammelli, molto più dei 245 muli, ma ovviamente meno dei più semplici asini che erano 6.720 e dei 736 cavalli. Nel Nuovo Testamento Giovanni Battista indossava abiti tessuti con peli di cammello (Matteo 3,4), mentre nella tradizione popolare beduina l'urina di cammella è considerata, a livello di cosmesi femminile, una sorta di "acqua di colonia"...!
Pubblicato il 09 luglio 2012 - Commenti (2)
|
|