04
dic

Ave, Maria

Annunciazione alla fontana di Toros di Taron (secolo XIII-XIV), Ms 6289 f 143r, 1323, miniatura armena, scuola di Glajor (Sinuia). Matenadaran, Erevan, Armenia.
Annunciazione alla fontana di Toros di Taron (secolo XIII-XIV), Ms 6289 f 143r, 1323, miniatura armena, scuola di Glajor (Sinuia). Matenadaran, Erevan, Armenia.

"L'angelo le disse:
« Rallègrati, piena di grazia:
il Signore è con te
»".

(Luca 1,28)

Appena ascoltiamo queste righe di Luca, si affollano nella mente tante immagini che l’arte cristiana ha dispiegato su muri, tele, tavole, pietre durante i secoli per rappresentare l’annunciazione dell’angelo a Maria, mentre nelle nostre orecchie sembra echeggiare una delle tante Ave Maria che la musica ha intessuto di armonie. Può, però, stupire che proprio quella prima frase angelica non contenga nella versione proposta quell’“Ave” o almeno quel “Ti saluto” tradizionale a cui siamo abituati da sempre, soprattutto attraverso la recita del rosario.

Di per sé il greco originale, cháire, potrebbe ammettere anche una simile resa; ma l’evangelista, in filigrana, vuole far affiorare l’eco di un’altra voce, quella dei profeti e del loro invito alla gioia messianica rivolto alla “figlia di Sion”, cioè a Gerusalemme personificata e, quindi, a tutto il popolo dell’alleanza. Così, ad esempio, canta il profeta Sofonia: «Rallègrati, figlia di Sion, il re di Israele, il Signore è in mezzo a te...» (3,14). Nel grembo della figlia di Sion, sede del tempio e della casa di Davide, Dio entra in dialogo col suo popolo. Nel grembo di Maria, la nuova figlia di Sion, il Signore si rende presente in maniera piena e perfetta nel suo Figlio.

In questa linea si spiega anche l’appellativo successivo che, in greco, conserva lo stesso verbo del “rallègrati”, cháirein: infatti, si ha il participio passivo kecharitoméne, che ha per soggetto sottinteso Dio. Il significato genuino sarebbe, perciò, «tu che sei stata riempita della grazia» divina. Maria è la sede dell’effusione suprema della grazia (cháris) del Signore, perché in lei è presente Dio stesso nel Figlio che lei concepisce e genera. San Bernardo, in una sua pagina famosa, spingerà retoricamente Maria ad accettare questo dono: «L’angelo aspetta la tua risposta, Maria! Stiamo aspettando anche noi, o Signora, questo tuo dono che è dono di Dio. Sta nelle tue mani il prezzo del nostro riscatto...».

Il primato è, dunque, divino; Maria – come scriverà sant’Ambrogio – non è il Dio del tempio, ma il tempio di Dio. In lei brillano in pienezza la grazia divina, la volontà salvifica del Signore, il suo amore redentore. Maria è la nuova arca dell’alleanza, avvolta nella nube, segno del mistero di Dio (Esodo 40,35): «Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra », le dice l’angelo Gabriele (Luca 1,35). In lei si ha, dunque, la presenza definitiva di Dio nella storia umana. Il racconto dell’annunciazione è, quindi, squisitamente teologico e cristologico.

Una nota in appendice. La tradizionale preghiera mariana dell’Ave Maria ha, comunque, la sua radice proprio nel testo lucano e ha una sua prima, simbolica testimonianza nella stessa grotta di Nazaret detta dell’“Annunciazione”, sede di un culto giudeo- cristiano fin nei primi secoli. Su una delle pareti si è scoperto un graffito con questa invocazione in greco, XAIPE MAPIA, che è appunto il “Rallègrati Maria”, trasformatosi nel latino Ave Maria del rosario, la preghiera diffusa fin dal Medioevo e ancora viva nei nostri giorni come la più popolare orazione mariana.

Pubblicato il 04 dicembre 2012 - Commenti (2)
05
apr

Beelzebul

Discesa al Limbo di Andrea Bonaiuti (1346-1379), particolare con i demoni. Firenze, Santa Maria Novella, Cappellone degli Spagnoli.
Discesa al Limbo di Andrea Bonaiuti (1346-1379), particolare con i demoni. Firenze, Santa Maria Novella, Cappellone degli Spagnoli.

"I farisei dissero:
 costui scaccia i demoni
 per mezzo di Beeelzebul,
principe dei demoni!".
(Matteo 12,24)

Il nome esotico “Beelzebul” è entrato nel linguaggio generale per indicare qualcosa di orrido, che impaurisce i bambini. La sua origine è piuttosto remota. Dobbiamo, infatti, risalire ai Cananei, la popolazione indigena della terra d’Israele, ove questo nome significava letteralmente “Baal il principe”. Baal, che vuol dire “Signore”, era l’appellativo della divinità della fecondità e della vita.

Questo dio era il principe del pantheon cananeo e aveva come simbolo il toro, segno di fertilità (si ricordi la tentazione di Israele nel deserto: rappresentare Dio sotto l’immagine di un vitello- toro d’oro). Siamo, quindi, in presenza dell’idolo per eccellenza.

Successivamente, proprio per la sua capacità di tentare il popolo ebraico all’apostasia, fu considerato «il principe o il capo dei demoni», come si intuisce nell’accusa che i farisei scagliano contro Gesù e che abbiamo proposto per la nostra decifrazione dei passi più complessi dei Vangeli. Dobbiamo anche segnalare che nell’Antico Testamento si ha la forma “Beelzebub” (2Re 1,2-3): essa è una deformazione spregiativa che letteralmente significa “Signore delle mosche”, un titolo che è stato apposto a un famoso romanzo pubblicato nel 1954 dallo scrittore britannico William Golding (in inglese Lord of the Flies). Ma ritorniamo al testo e al contesto di Matteo (12,22-30).

Gesù è, dunque, accusato di essere in combutta con Satana perché riesce a controllare i demoni con i suoi esorcismi. La sua replica è semplice e si sviluppa in due direzioni. Da un lato, fa notare che è ben assurdo un Satana così autolesionista, pronto a combattere sé stesso. Sarebbe simile a un regno o a una città o a una famiglia in preda a lacerazioni interne e votata alla rovina. D’altra parte, Gesù osserva che anche tra i farisei c’erano alcuni – da lui chiamati loro “figli”, che nel linguaggio di allora significava “adepti, discepoli” – che compivano esorcismi. Anche questi sono asserviti a Beelzebul?

Conclude la sua argomentazione indicando il vero principio della sua opera di liberazione dal male diabolico: «Se io scaccio i demoni per mezzo dello Spirito di Dio, allora è giunto a voi il regno di Dio» (12,28). È la potenza divina che opera in Cristo a vincere Satana, inaugurando così il piano di salvezza del Padre celeste. Dobbiamo aggiungere alla scena che abbiamo ora descritto un’appendice che è presente nel cosiddetto “Discorso missionario” di Gesù. Là egli afferma: «Un discepolo non è più grande del suo maestro, né un servo è più grande del suo signore; è sufficiente per il discepolo diventare come il suo maestro e per il servo come il suo signore. Se hanno chiamato Beelzebul il padrone di casa, quanto più quelli della sua famiglia!» (Matteo 10,24-25).

La spiegazione, alla luce della scena prima descritta, è facile. Anche i discepoli, infatti, avevano ricevuto questo incarico dal loro Signore: «Guarite gli infermi, risuscitate i morti, purificate i lebbrosi, scacciate i demoni!» (10,8). Ebbene, come è stato trattato il loro Maestro e Signore, così anche loro verranno accusati, forse con più veemenza, di essere al servizio di Satana-Beelzebul, mentre anche la loro è una missione sostenuta dallo Spirito divino liberatore per l’estensione del regno di Dio.

Pubblicato il 05 aprile 2012 - Commenti (2)
27
ott

Il gioco di Dio

Due fanciulli, Pablo Picasso (1952), Musée National Picasso, Parigi
Due fanciulli, Pablo Picasso (1952), Musée National Picasso, Parigi

" Ero con lui come
una giovane,
ero la sua delizia
ogni giorno,
giocavo davanti a
lui in ogni istante,
giocavo sul globo
terrestre..."
                                                                            (Proverbi 8,30-31)

«Mentre la beata Umiliana giaceva nel suo letto, ecco un bambino di quattro anni, dal volto bellissimo. Giocava con impegno proprio nella sua cella davanti a lei che gli disse: “Carissimo bambino, non sai fare altro che giocare?”. E il bambino: “Che altro vuoi che faccia?”. E la beata: “Voglio che tu mi dica qualcosa di bello su Dio”. E il bimbo: “Credi che sia bene che uno parli di sé stesso?”. E con queste parole disparve». Questo episodio della vita della beata Umiliana de’ Cerchi (1219-1246), narrato dal suo biografo, fra Vito da Cortona, ha certamente alla base un’allusione alla frase evangelica sul diventare piccoli come bambini per essere grandi nel Regno dei cieli (Matteo 18,4).

Tuttavia, l’originalità sta nell’applicazione a Dio stesso dell’immagine del bambino che gioca. Ora, nel passo biblico che noi abbiamo estratto da un inno grandioso in cui la Sapienza divina si autopresenta, si ha una sorprendente metafora per definirla: è quella da noi tradotta con «giovane». In realtà, in ebraico abbiamo un termine che non ricorre altrove nella Bibbia, ’amôn (si trova, però, due volte nella variante hamôn) e che potrebbe designare anche un “architetto, artefice”, ma è possibile pure la resa “ragazzo, giovane”.

Sia nell’uno sia nell’altro caso la Sapienza del Creatore – che in questo inno è personificata sotto i tratti di una figura femminile – sarebbe raffigurata con simboli che evocano arte, festa, bellezza. A spingerci verso l’immagine della ragazza è proprio il verbo successivo che per due volte parla di “gioco”. Nelle distese immense dei cieli, negli spazi mirabili della natura Dio sembra del tutto immerso in un atto creativo libero e appassionato, un po’ come accade al bambino quando sta giocando. Tutte le sue energie intellettuali e fisiche sono assorbite in quel piacere intimo e totale. È ciò che si ripete per l’artista quando è coinvolto nella sua attività creatrice: nulla lo distrae e il suo spirito e il suo corpo sono totalmente consacrati all’opera che sta uscendo dalle sue mani.

Ebbene, non di rado in teologia si è ricorsi proprio al simbolo del gioco e della creazione artistica per parlare “analogicamente” di Dio. Chi conosce qualcosa di questa scienza sacra avrà sentito parlare, ad esempio, dell’“analogia estetica” sviluppata dal teologo svizzero Hans Urs von Balthasar, oppure di quella “ludica” (cioè legata all’immagine del gioco) suggerita dall’americano Harvey Cox. Il gioco puro, senza l’inquinamento dell’interesse o della violenza come avviene oggi in certi sport, il gioco innocente e libero del bambino può essere un’analogia, cioè un modo umano adatto a descrivere la divinità, la felicità di Dio e in Dio.

L’abbandono di tutto l’essere che l’artista, come si diceva, sperimenta nell’istante creativo si trasforma in un segno visibile dell’infinita perfezione della mente e dell’azione del Creatore. C’è, a questo proposito, un testo molto suggestivo di Lutero che, ammiccando idealmente al passo del libro dei Proverbi da noi proposto, così dipinge la meta ultima della storia e dell’essere: «Allora l’uomo giocherà con il cielo e con la terra, giocherà con il sole e con tutte le creature. Tutte le creature proveranno anche un piacere immenso, un amore immenso, una gioia lirica, e rideranno con te, o Signore, e tu a tua volta riderai con loro».

Pubblicato il 27 ottobre 2011 - Commenti (1)
20
ott

Il tempo del fidanzamento

Innamorati sotto un albero in fiore (1859) di John Callcott Horsley, Philadelphia Museum of Art, Filadelfia
Innamorati sotto un albero in fiore (1859) di John Callcott Horsley, Philadelphia Museum of Art, Filadelfia

" Mi ricordo di te,
dell'affetto della
tua giovinezza,
dell'amore
al tempo del tuo
fidanzamento,
quando mi seguivi
nel deserto,
in una terra
non seminata."
(Geremia 2,2)

«Enlil, le tue molte perfezioni fanno restare attoniti, la loro natura segreta è come una matassa arruffata che nessuno sa dipanare, è un arruffio di fili di cui non si trova il bandolo». È, questa, una strofa di un antichissimo inno sumerico dedicato al dio Enlil, il capo del pantheon di quella civiltà. Essa ben esprime una concezione della divinità per certi versi affine alla visione greca del Fato, un gorgo oscuro e misterioso che impera sugli stessi dèi, piegandoli a una logica indecifrabile. Anche uno dei “bellissimi nomi” di Allah è “l’inaccessibile” e – sia pure con una prospettiva teologica ben più alta – l’islam considera la divinità come invalicabile a ogni conoscenza intima, che non sia quella negativa («Dio non è come...»).

Su tutt’altra traiettoria si muove, invece, la Bibbia che non solo presenta il Signore come una persona che può dire: «Io sono», ma anche ne descrive i sentimenti, le passioni, l’amore. È il caso di questo stupendo soliloquio di Dio che ci ha lasciato Geremia: in esso brillano sia la tenerezza di una relazione tra due fidanzati, sia l’«affetto» profondo che li unisce. Il termine ebraico usato, hesed, rimanda infatti alla fedeltà amorosa che intercorre tra due innamorati, vincolati tra loro non da un obbligo legale, bensì da un patto d’amore. Nello stesso libro profetico si legge questa appassionata professione d’amore di Dio: «Ti ho amato di amore eterno, per questo ti conservo il mio affetto» (31,3).

C’è, però, una nota stonata da registrare. Il frammento geremiano da noi proposto è incastonato in un brano che in ebraico è detto rîb, ossia un “dibattimento processuale”, una “lite giudiziaria”. Sì, perché in realtà questa sposa, Israele, così amata, si è rivelata una donna infedele. Anzi, il profeta usa un’immagine durissima, “bestiale”: «Come una giovane cammella leggera e vagabonda, come asina selvatica, abituata al deserto, ansima nell’ardore della sua voglia: chi può frenare la sua brama?» (2,23-24). La metafora è esplicitata nella sua dimensione religiosa, quando questa sposa dichiara la sua scelta: «Io amo gli stranieri, voglio andare con loro!» (2,25). Gli amanti «stranieri» sono gli idoli. Come è evidente, la simbologia d’amore viene usata in tutte le sue iridescenze per descrivere l’esaltante e travagliato rapporto nuziale tra il Signore e il suo popolo.

Israele è «una donna infedele a chi la ama» (3,20), «è sfrontata come una prostituta che non arrossisce» (3,3), sta in attesa dei suoi clienti ai crocicchi delle strade «come fa l’arabo nel deserto» (3,2). Eppure, come dice il nostro frammento, Dio è pieno di nostalgia per il passato d’amore vissuto insieme nel deserto del Sinai. In verità, anche là Israele aveva tradito, ma il Signore sembra quasi scordare ogni infedeltà e alonare di luce quella fase antica, nella speranza di un futuro diverso, anche perché «egli non mantiene rancore per sempre né conserva in eterno la sua ira» (3,5). Ecco, allora, il ripetersi nel capitolo 3 – che fa parte sempre dello rîb o contesa tra Dio e Israele – per sette volte del verbo shûb, il “ritornare- convertirsi” (3,1.7.10.12.14.19.22). È il desiderio segreto anche del popolo peccatore, ma è soprattutto l’attesa insonne di Dio: «Ritorna, Israele ribelle, non ti mostrerò la faccia sdegnata perché io sono affettuoso e non conserverò per sempre l’ira» (3,12).

Pubblicato il 20 ottobre 2011 - Commenti (1)
08
set

Gli insegnavo a camminare e a mangiare

Vincent van Gogh, Primi passi, da Millet, 1890, New York, Metropolitan Museum of Art.
Vincent van Gogh, Primi passi, da Millet, 1890, New York, Metropolitan Museum of Art.

“ A Efraim io insegnavo a camminare,
 tenendolo per mano...

 Li attiravo a me con legami di bontà e vincoli d'amore. Ero come chi solleva un bimbo alla sua guancia, chinandomi su di lui per farlo mangiare."
(Osea 11,3-4)

Chi è genitore conosce bene la fatica e tutti gli stratagemmi che bisogna escogitare per convincere un bambino riottoso a mangiare un cibo necessario ma a lui sgradito, così come non ha certo dimenticato la pazienza che si deve esercitare quando s’insegna al proprio figlio a camminare. A ogni caduta bisogna subito ricorrere a un bacio o a una stretta per placare il piccolo che si abbandona a un pianto omerico e inconsolabile. È curiosamente questa la duplice scenetta che il profeta Osea (VIII secolo a.C.) desume dalla sua esperienza di padre e la applica al Signore che è alle prese con un figlio così capriccioso come Efraim, cioè Israele.

Non bisogna dimenticare che lo stesso profeta, nelle prime pagine del suo libro, era partito da un’altra sua esperienza familiare tutt’altro che rara ai nostri giorni – quella di un matrimonio in crisi – per rappresentare il rapporto tra Dio e il suo popolo, in questo caso incarnato dalla moglie infedele di Osea che lo aveva abbandonato lasciandogli da accudire tre figli. Suggeriamo, perciò, ai nostri lettori di seguire anche il racconto autobiografico che il profeta ci ha lasciato nei primi tre capitoli della sua opera. Là ci si imbatterà nel nome simbolico dei suoi tre figli, due maschi e una femmina.

A essi, infatti, Osea, consapevole di essere lui stesso nella sua vita un emblema per Israele, aveva assegnato tre nomi impossibili: Izreel, che era il toponimo di una città ove si erano consumati delitti pubblici e privati narrati dalla Bibbia (1Re 21; 2Re 20); Lo’-ruhamah, “Nonamata”, per la bambina; Lo-’ammî, “Non-miopopolo”, per il terzo maschietto. Nomi che incarnavano sia il peccato del popolo, sia il rigetto che il Signore aveva compiuto nei suoi riguardi. Naturalmente, una volta che Dio e Israele si fossero riconciliati, come il profeta sognava nei confronti di sua moglie Gomer, i tre nomi sarebbero stati trasformati: Izreel avrebbe riacquistato il suo significato etimologico positivo di “seme di Dio”, cioè fecondo, e gli altri due figli sarebbero diventati Ruhamah, “Amata”, e ’Ammî, “Popolo mio”.

Ciò che ci preme sottolineare è questa suggestiva raffigurazione del Signore con sentimenti, passioni e affetti umani. È quello che si definisce col termine “antropomorfismo”: un Dio così strettamente vicino alla sua creatura da condividerne l’esperienza personale e intima. È, questo, un primo passo che prepara l’Incarnazione cristiana quando il Verbo divino si fa “carne” umana, come insegna san Giovanni (1,14).

C’è un altro aspetto che vorremmo rimarcare. Esso riguarda una delle idee fondamentali che la Bibbia rivela per indicare la relazione tra il Signore e Israele e che è espressa col termine “alleanza, patto” (in ebraico berît).

Ebbene, al Sinai questa alleanza era stata definita ricorrendo al simbolo dei trattati tra un sovrano e i principi vassalli. Era, quindi, un vincolo di stampo giuridico-politico, piuttosto estrinseco. Con Osea, invece, si passa dal patto diplomatico all’alleanza nuziale, ove sono ancora in gioco le violazioni (i tradimenti), ma ben diverse sono sia la tonalità sia la qualità di questo rapporto: per usare le parole di Osea, sono «legami di bontà e vincoli d’amore».

Pubblicato il 08 settembre 2011 - Commenti (2)
25
ago

Il passero e la rondine

Beato Angelico (1387-1455), Annunciazione, particolare capitello con rondine. Madrid, Prado.
Beato Angelico (1387-1455), Annunciazione, particolare capitello con rondine. Madrid, Prado.

"Anche il passero trova una casa e la rondine il suo nido dove porre i suoi piccoli, presso i tuoi altari, Signore degli eserciti, mio re e mio Dio!
(Salmo 84,4)."

Un po’ tutti qualche volta siamo stati catturati dagli arabeschi che i voli degli uccelli disegnano nel cielo, soprattutto quando si tratta di rondini e passeri che fanno parte del nostro paesaggio quotidiano. Secoli fa anche un poeta ebreo era là, col volto fisso in alto, nel cielo limpido di Gerusalemme, a contemplare lo svolazzare di questi uccelli che avevano ricavato spazi per i loro nidi nei cornicioni del tempio di Sion. La dolce e delicata immagine di questi uccelli si era, così, trasformata in poesia, anzi, in preghiera.

È appunto il frammento del Salmo 84 da noi proposto, un piccolo ritaglio contenente quella scena e appartenente a un inno in onore di Sion, il colle gerosolimitano che ospitava il tempio, la sede della presenza del Signore, cittadino tra i suoi concittadini umani. Non ci deve stupire che in un quadretto così intenso, amabile e spirituale entri un’invocazione apparentemente tanto forte e fin dura, «Signore degli eserciti», in ebraico Jhwh seba’ôt.
Questo, infatti, era il titolo divino tipico del santuario di Gerusalemme e la prima idea sottesa non era tanto quella delle armate ebraiche guidate dal generale supremo, quanto piuttosto quella cosmica dell’“esercito” delle stelle e degli elementi naturali che obbediscono al loro Creatore. Nel libro del profeta Baruc si legge: «Le stelle brillano nelle loro postazioni di guardia e gioiscono. Il Signore le chiama ed esse rispondono: Eccoci!, sfavillanti di gioia in onore del loro Creatore» (3,34-35).

Ma ritorniamo all’immagine del nostro versetto. Essa è preparata da un’appassionata invocazione- esclamazione: «Quanto sono amabili le tue dimore, Signore degli eserciti! L’anima mia languisce e si strugge per gli atri del Signore. Il mio cuore e la mia carne esultano nel Dio vivente!» (84,2-3). Il Salmista, a questo punto, invidia passeri e rondini che non si staccano dal tempio, come deve fare lui, pellegrino che ormai sta per lasciare il tempio di Sion, probabilmente dopo una delle tre cosiddette “feste di pellegrinaggio” (in questo caso pare non siano né Pasqua, né Pentecoste, bensì la solennità delle Capanne, legata alla vendemmia: si parla, infatti, nel versetto 7 delle «prime piogge» che sono appunto quelle autunnali). Fortunati, dunque, questi uccelli che hanno qui la loro dimora e non si devono distaccare per ritornare a valle, nella quotidianità.

Dietro di essi l’orante intravede i ministri del tempio che hanno una residenza perpetua e non solo temporanea (come il pellegrino) a Sion, in una costante intimità con Dio. Tuttavia, egli non rimpiange questa manciata di ore che ha trascorso lassù e che adesso è finita, perché «anche un sol giorno nei tuoi atri vale più di mille» altrove. E continua: «Ho scelto di stare sulla soglia del mio Dio piuttosto che dimorare nelle tende degli empi» (84,11). È evidente il contrasto tra due «tende», quella dell’arca dell’alleanza del Signore in Gerusalemme, e i padiglioni dei templi idolatrici o dei palazzi dei potenti.

Solo nella casa del vero Dio c’è la vita, il sole, la protezione contro gli incubi del male: «Sole e scudo è il Signore Dio che concede grazia e gloria e non rifiuta il bene a chi cammina con rettitudine» (84,12). Il clima spirituale è quello che esprime anche un poeta mistico indiano, nella sincerità della sua fede. È Kabir, vissuto nel XV secolo, che cantava: «O cuore mio, non staccarti dal sorriso del tuo Dio, non errare lontano da lui. Colui che veglia sugli uccelli, sulle bestie e gli insetti, colui che ti cura da quand’eri ancora nel grembo di tua madre, non ti proteggerà ora che ne sei uscito?».

Pubblicato il 25 agosto 2011 - Commenti (2)
11
ago

Tutti salvi!

El Greco (1541-1614): Il Salvatore, Toledo, Cattedrale.
El Greco (1541-1614): Il Salvatore, Toledo, Cattedrale.

"Dio nostro salvatore vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità.
(1 Timoteo 2,3-4)."

L’epistolario paolino si chiude con un fascicolo di tre scritti omogenei che dal Settecento si usa chiamare “Lettere pastorali”, a causa del loro tema dominante e dei loro destinatari, Timoteo e Tito collaboratori dell’Apostolo. La loro originalità ha fatto ipotizzare a molti esegeti biblici una mano diversa rispetto a quella di Paolo, forse quella di un discepolo: ad esempio, su un vocabolario di 848 parole greche diverse che qui vengono usate, ben 305 non si ritrovano mai nelle lettere paoline classiche. Tuttavia, è anche possibile che queste pagine testimonino un’evoluzione nel pensiero e nello stile dell’Apostolo, ormai giunto nell’ultima fase della sua esistenza (si legga il suo bellissimo “testamento” in 2Timoteo 4,6-8, che a suo tempo abbiamo proposto in questa nostra rubrica).

Ora, dalla Prima Lettera indirizzata al discepolo Timoteo – di sangue misto (padre greco e madre ebrea) e fatto circoncidere da Paolo per quieto vivere nei confronti della comunità giudeo-cristiana – abbiamo estratto un passo molto citato ed effettivamente di grande forza tematica. A prima vista sembra essere la proclamazione di una sorta di salvezza universale, a prescindere dalle religioni, dalle scelte personali, dalle situazioni contingenti, così da riportare in vigore l’idea di un inferno vuoto.
In realtà, come è esplicitato nel testo e nel contesto, l’Apostolo introduce due nodi capitali. Innanzitutto egli sta parlando della “volontà” di Dio, cioè del suo progetto che ha rivelato a profeti e apostoli attraverso Cristo, un piano che vorrebbe la salvezza di tutte le creature. Come si legge nel libro del profeta Ezechiele: «Forse che io ho piacere della morte del malvagio – oracolo del Signore – o non piuttosto che desista dalla sua condotta e viva? » (18,23). Per questo egli offre con insistenza la sua grazia, che è come una mano sicura che strappa dalla palude del peccato l’uomo, suo capolavoro (Geremia nel capitolo 18 della sua profezia e Paolo in Romani 9,21 usano l’immagine del vasaio).
C’è, quindi, un’azione divina che interviene efficacemente sulla sua creatura e sulla sua storia.

Tuttavia, il Creatore non smentisce sé stesso, cancellando con la sua potenza la libertà che egli ha concesso all’umanità. Ecco perché il progetto divino sa già che l’uomo può ribellarsi e scegliere di procedere su un’altra via rispetto a quella tracciata dal disegno di Dio. È un po’ questa l’amarezza o, se si vuole, la delusione di Dio che potremmo rappresentare con le parole addolorate che Gesù rivolge a Gerusalemme: «Quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come una chioccia i suoi pulcini sotto le ali, ma voi non avete voluto!» (Luca 13,34). Affermava Benedetto XVI nell’enciclica Spe salvi: «Possono esserci persone che hanno distrutto totalmente in sé stesse il desiderio della verità e la disponibilità dell’amore... È questo che si indica con la parola inferno ». Grazia divina e libertà umana devono, quindi, incrociarsi per la salvezza.

Una seconda nota è da cercare nel contesto ove si delinea la via sulla quale si compie la salvezza. È quella «verità» che Dio vorrebbe fosse conosciuta: «Uno solo è Dio e uno solo è il mediatore tra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù, che ha dato sé stesso in riscatto per tutti» (2,5-6). La via della salvezza è stata, dunque, aperta da Cristo col suo sacrificio liberatore e tutti – esplicitamente o su percorsi del loro spirito e della loro vita che solo Dio conosce – devono incamminarsi su questo itinerario di salvezza e redenzione che ha la meta luminosa della gloria, allorché «Dio sarà tutto in tutti» (1Corinzi 15,28).

Pubblicato il 11 agosto 2011 - Commenti (2)
21
lug

Il sole eroe, sposo, atleta

Scuola di Raffaello. Storie della Genesi: creazione del sole e della luna. Vaticano, Logge
Scuola di Raffaello. Storie della Genesi: creazione del sole e della luna. Vaticano, Logge

"Sorge il sole da un'estremità del cielo, la sua orbita raggiunge l'altro estremo: nulla si sottrae al suo calore
(Salmo 19, 7)"

Tutto è immobile sotto un sole estivo incandescente; nelle distese desertiche non c’è riparo dal suo ardore, ma anche le case delle città sono avvolte dalla calura. Eppure il sole, sorgente di luce, è nello stesso tempo fonte di vita. Come si legge in un testo ebraico, un bambino chiede al maestro che cosa deve fare la persona giusta. La risposta è: «Il sole ha forse bisogno di fare qualcosa? Si leva, tramonta, riscalda l’anima facendola esultare. Il giusto deve solo imitarlo». Per tale via questo astro è divenuto nel Vicino Oriente non solo un segno divino, ma è stato identificato anche con la stessa divinità. Celebre è la riforma “monoteistica” del faraone Akhnaton (XIV secolo a.C.), incentrata sul dio solare Aton.

Noi ora contempliamo l’irraggiare della luce solare con gli occhi di un antico poeta biblico, l’autore del Salmo 19, dal quale abbiamo estratto un frammento che dipinge – secondo la concezione geocentrica di allora – l’orbita solare che percorre tutto l’arco del cielo, considerato in quei tempi come una calotta metallica, una cupola immensa (il “firmamento”). L’invito che rivolgiamo ai nostri lettori è, però, quello di seguire sulla loro Bibbia l’intera trama di questo inno, luminoso sia astronomicamente sia teologicamente. Infatti, in esso risplendono come due soli, l’uno fisico e l’altro spirituale.

Si comincia appunto con la raffigurazione del “luminare maggiore” (Genesi 1,16), il sole che risplende in cielo, che il Salmista dipinge come un eroe che, dopo essere uscito dal talamo nuziale ove ha trascorso la notte (le tenebre), inizia la sua trionfale corsa sull’orizzonte, rivelandosi simile a un atleta che non conosce soste e stanchezza. Tutto il nostro pianeta è avvolto dalla morsa della sua presenza ardente. Questa simbologia era nota anche in alcuni testi mesopotamici che invocavano così il dio Sole: «O Sole, guerriero e atleta, e tu, Notte, sua sposa, lanciate uno sguardo favorevole alle mie pie azioni».

Ma nell’inno biblico c’è qualcosa di più: il sole, che regola il ritmo del dì e della notte, non è contemplato solo con animo lirico. In esso, ma anche nel cielo, nel giorno e nella notte, si cela un messaggio segreto del loro Creatore. Un grande commentatore del Salterio, il tedesco Hermann Gunkel, scopriva nei primi versetti del Salmo «una musica silenziosa» che solo l’orecchio della fede riesce a cogliere: «I cieli narrano la gloria di Dio, il firmamento annunzia l’opera delle sue mani. Il giorno al giorno ne affida il messaggio e la notte alla notte ne trasmette notizia, senza discorsi, senza parole, senza che si oda alcun suono. Eppure la loro voce si espande per tutta la terra…».

Così si procede fino al versetto 7, il passo da noi citato. Da lì in avanti, invece, appare un altro sole, quello spirituale della Legge divina, della parola sacra che è nella Bibbia, la Torah, descritta appunto con attributi solari: «I Comandamenti del Signore sono radiosi, illuminano gli occhi. La parola del Signore è chiara... Anche il tuo servo ne è illuminato». Come il sole fisico illumina col suo fulgore l’universo, così Dio illumina l’umanità con lo sfolgorare della sua parola. L’orizzonte naturale ha come fonte di luce l’astro solare; la Legge divina è la grande lampada che dà luce all’orizzonte morale. La voce della natura, come si è visto, era silenziosa; quella della parola di Dio è invece squillante, rallegra il cuore e illumina gli occhi dello spirito.

Pubblicato il 21 luglio 2011 - Commenti (1)
07
lug

Come la piogga e la neve

Vincent van Gogh, Pioggia (1889). Filadelfia, Philadelphia Museum of Art.
Vincent van Gogh, Pioggia (1889). Filadelfia, Philadelphia Museum of Art.

Come la pioggia e la neve scendono giù dal cielo, e non vi ritornano senza averla irrigata, fecondata e fatta germogliare, per dare seme al seminatore e pane a chi mangia, così sarà della parola uscita dalla mia bocca.
(Isaia 55, 10-11)"
 

La parola ebraica majîm, “acqua”, risuona 580 volte nell’Antico Testamento, come l’equivalente greco hydôr ritorna 76 volte nel Nuovo Testamento (metà di esse nel solo Vangelo di Giovanni). Circa 1.500 versetti dell’Antico e oltre 430 del Nuovo Testamento sono “intrisi” d’acqua perché – oltre ai vocaboli citati – c’è una vera e propria costellazione di realtà che ruotano attorno a questo elemento vitale, a partire dal mare che spesso ha connotati negativi, quasi fosse simbolo del caos che attenta al creato, passando attraverso le piogge (che in ebraico hanno nomi diversi secondo le stagioni), le sorgenti, i fiumi, i torrenti, i canali, i pozzi, le cisterne, la neve e così via.

Si comprende, allora, perché l’acqua si trasformi in un emblema di Dio che in un Salmo “primaverile”, il 65, è celebrato come il supremo agricoltore che irriga le campagne con il carro delle acque. Anche nella letteratura dei Cananei, gli indigeni della Terra Santa, si cantava «la pioggia effusa dal Cavaliere divino delle nubi versate dalle stelle», mentre il bacio fecondo del dio Baal faceva germogliare la vegetazione e il temporale era concepito come il suo orgasmo che donava alla terra arida e assetata il seme vitale della pioggia. A questa visione “panteistica” e materialista la Bibbia si oppone e vede nella «sorgente di acqua viva» (Geremia 2,13) solo un simbolo del Signore.

Nel frammento che ora proponiamo – e che costituisce in pratica l’ultima pagina del cosiddetto Secondo Isaia (capp. 40-55), profeta anonimo del VI sec. a.C. la cui opera è entrata nel libro del grande Isaia (VIII sec. a.C.) – l’acqua, unita alla neve, diventa invece un segno della parola di Dio senza la quale l’esistenza umana si tramuta in un deserto sterile. Ciò che il profeta vuole marcare è soprattutto la fecondità e l’efficacia di questa parola, comparata al tipico processo naturale della pioggia, dell’evaporazione, delle nubi e della nuova pioggia. È un ciclo vitale che trasforma la nostra vicenda umana quasi in una parola divina capace, a sua volta, di rendere fertili altri ambiti della storia.

Soprattutto si insiste sul vigore che ha in sé la parola di Dio: essa «non ritorna a me», dice il Signore, «senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata». Come è evidente, l’immagine idrica trascolora e trapassa in quella di un messaggero celeste che ritorna dal suo re dopo aver compiuto la sua missione. Lasciamo, però, questa suggestiva raffigurazione della rivelazione divina, fonte di vitalità spirituale, e ritorniamo alla più realistica pioggia da cui siamo partiti, che è anch’essa principio di vitalità ma fisica.

Concluderemo, dunque, con un’invocazione delle Diciotto Benedizioni, testo capitale del culto giudaico: «Siano rugiada e pioggia come una benedizione su tutta la superficie della terra. Benedici i prodotti della terra perché ne goda il mondo intero e concedi benedizione, abbondanza e successo all’opera delle nostre mani!».

Pubblicato il 07 luglio 2011 - Commenti (1)
09
giu

Dove c'è lo Spirito c'è libertà

Correggio (Allegri Antonio, 1489-1534), l'Incoronata, Parma, Galleria Nazionale.
Correggio (Allegri Antonio, 1489-1534), l'Incoronata, Parma, Galleria Nazionale.

"Il Signore è lo Spirito e dove c'è lo Spirito del Signore, c'è libertà. ” 
(2Corinzi 3,17)

Questa volta scegliamo una frase incisiva, quasi lapidaria, che san Paolo incastona in una Lettera tormentata com’è la Seconda ai Corinzi, destinata a una comunità travagliata e un po’ ribelle che ha fatto molto soffrire l’Apostolo. Una frase che non è così semplice come appare a prima vista, tant’è vero che non sono mancati discussioni e approfondimenti da parte degli esegeti biblici.
Infatti, a prima vista sembrerebbe che si identifichino Cristo – che nell’epistolario paolino è chiamato Kyrios, “Signore” – e lo Spirito Santo, oppure lo stesso Dio Padre con lo Spirito, se si accoglie l’uso delle Sacre Scritture secondo l’antica versione greca che rendeva il nome divino ebraico Jhwh con Kyrios, “Signore”.

In realtà, se noi sfogliamo la Lettera, ci accorgiamo che san Paolo conosce e distingue la Trinità: «Dio stesso ci conferma in Cristo… e ci ha dato la caparra dello Spirito nei nostri cuori» (2Corinzi 1,21-22). E l’ultima riga della Lettera reca questo saluto, che ancor oggi noi usiamo nella liturgia: «La grazia del Signore nostro Gesù Cristo, l’amore di Dio e la comunione dello Spirito Santo siano con tutti voi» (13,13).
Qual è, allora, il senso della dichiarazione di san Paolo presente nel nostro frammento? Egli forse vuole solo esaltare il nesso profondo che intercorre tra Cristo e lo Spirito Santo: Cristo lo invia col Padre nella storia dell’umanità per svelare in pienezza la sua parola di salvezza. Oppure l’Apostolo assume il termine “Spirito” in senso più lato, indicando che in Cristo c’è l’epifania dello Spirito divino, cioè della presenza salvatrice di Dio.

Ed è per tale motivo che, dove irrompe questo Spirito del Signore, fiorisce la libertà. Questa parola è ormai sulle labbra di tutti ed è inflazionata e abusata. Come diceva il filosofo mistico indiano Sri Aurobindo (1872-1950), «tutto il mondo aspira alla libertà, e tuttavia ciascuna creatura è innamorata delle proprie catene».
Un altro autore, il poeta francese “rivoluzionario” Paul Eluard (1895-1952), confessava: «Sui miei quaderni di scolaro, / sul banco e sugli alberi, / sulla sabbia e sulla neve / scrivo il tuo nome, libertà; / su tutte le pagine lette, / su tutte le pagine bianche, / pietra sangue o cenere / scrivo il tuo nome». Certo, la libertà sociale e culturale è un cardine del vivere civile e i condizionamenti e le gabbie che la società ci impone sono un male che vìola l’opera del Creatore che ha voluto libera la creatura umana.

Ma il senso che la parola “libertà” in san Paolo o in san Giovanni («la verità vi farà liberi », ad esempio) è di impronta diversa, cioè religiosa e spirituale. Da un lato, è la liberazione dal peccato, dalle catene della colpa, dagli stessi legami della Legge che ci impone una cappa di piombo di precetti senza darci la forza di osservarli e, quindi, facendoci cadere nella trasgressione.
D’altro lato, in positivo, la libertà è invece l’adesione gioiosa alla parola di Dio che dà luce e gioia, è l’accoglienza della grazia divina la quale è come un abbraccio che ci solleva dal fango del peccato.

Il respiro dello Spirito del Signore ci apre, allora, orizzonti luminosi di libertà interiore. «Mandi il tuo Spirito, Signore, sono creati e rinnovi la faccia della terra», canta il Salmista (104,30). Ecco perché dobbiamo invocare lo Spirito Santo, principio di liberazione piena e di amore. Lasciamo ora la parola a una poetessa contemporanea, Elena Bono, e a pochi suoi versi: «Lo Spirito di Dio è una colomba bianca…/ Vieni su di noi, / prima che il vento disperda le polveri stanche / e i corvi ci abbiano divorati…».

Pubblicato il 09 giugno 2011 - Commenti (0)
16
mar

Come in uno specchio

L'Eterno appare a Mosè di Jacopo Robusti, detto il Tintoretto (1518 - 1594). Venezia, Scuola Grande San Rocco.
L'Eterno appare a Mosè di Jacopo Robusti, detto il Tintoretto (1518 - 1594). Venezia, Scuola Grande San Rocco.

"Noi tutti, a viso scoperto, riflettiamo come in uno specchio la gloria del Signore e così siamo trasformati in quella stessa immagine, di gloria in gloria."
(2Corinzi 3,18)

«Quando Mosè scese dal monte Sinai non sapeva che la pelle del suo viso era diventata raggiante, poiché aveva conversato con Dio. Aronne e tutti gli Israeliti, vedendo raggiante la pelle del suo viso, ebbero paura di accostarsi a lui... Mosè, allora, si pose un velo sul volto» (Esodo 34,29-30.33). L’uomo non esce indenne dall’incontro con Dio, viene quasi trasfigurato, tanto da irradiare luce attorno a sé. San Paolo sta meditando appunto su questo passo biblico e lo applica al cristiano con una variante radicale. Prima, però, diamo uno sguardo generale all’intero testo che l’Apostolo sta dettando.

La Seconda Lettera ai Corinzi – ha scritto un suo commentatore, il tedesco Otto Kuss – «riflette il temperamento, la ricchezza caratteriale, l’eccitabilità persino, la ruvidezza di Paolo e anche la confusione della situazione» che si era creata nella tormentata comunità greca di Corinto.

Lo scritto è anch’esso molto travagliato, con salti tematici, a tal punto che non pochi esegeti hanno ipotizzato che esso sia una specie di collage di diverse lettere dell’Apostolo qui unificate. A questo proposito c’è un’immagine di grande intensità che vorremmo riproporre: «La nostra lettera siete voi, lettera scritta nei nostri cuori... Siete come una lettera di Cristo, composta da noi, scritta non con l’inchiostro, ma con lo Spirito del Dio vivente, non su tavole di pietra, ma sulle tavole di carne dei cuori» (3,2-3).

A questa immagine si accosta quella del volto radioso del cristiano. Chi vive a contatto con Dio si trasforma e non deve nascondere questa luminosità, perché essa può rischiararei fratelli. Ecco, allora, la variante che l’Apostolo introduce rispetto al passo biblico da cui è partito. A Mosè era stato suggerito di celare una luce troppo forte; Paolo, invece, ricalca le parole che Cristo aveva rivolto ai suoi discepoli: «Voi siete la luce del mondo... non si accende una lucerna per nasconderla sotto un moggio, ma sopra il lucerniere perché faccia luce a tutti quelli che sono in casa. Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al vostro Padre che è nei cieli» (Matteo 5,14-16).

Non possiamo, però, ignorare un aspetto nella comparazione che Paolo instaura tra Mosè e il cristiano e, quindi, tra l’antica e la nuova alleanza. Egli vuole, infatti, sottolineare una discontinuità, una differenza che non deve però condurre a negare il legame pur profondo che ci unisce alla prima alleanza. Sappiamo quanto l’Apostolo sia orgoglioso di definirsi «circonciso l’ottavo giorno, della stirpe di Israele, della tribù di Beniamino, ebreo da ebrei, fariseo secondo la Legge» (Filippesi 3,8). Qual è, allora, la diversità che viene ora marcata?

La risposta è semplice. Per l’Antico Testamento il volto divino, cioè l’intima essenza personale del Signore, è invisibile a occhio umano perché è come un oceano di luce che acceca, e già il riflesso di essa stampato sul viso di Mosè si rivela insopportabile allo sguardo degli Israeliti. Lo stesso Mosè aveva implorato di contemplare pienamente quel volto, ma la risposta era stata negativa: a lui era apparso solo il dorso del Signore che si allontanava (Esodo 33,18-23). Con l’Incarnazione, invece, nel volto di Cristo c’è la possibilità di vedere il Padre, cioè Dio («Chi ha visto me ha visto il Padre», Giovanni 14,9). Per questo san Giovanni, in apertura alla sua Prima Lettera, dichiarerà di aver potuto «vedere con gli occhi, contemplare e toccare con le mani il Verbo della vita, perché la vita [divina] si è fatta visibile» in Gesù Cristo (1,1-2).

Pubblicato il 16 marzo 2011 - Commenti (1)
10
mar

Diventare come Dio!

James Jacques Tissot: La maledizione (particolare), c. 1896-1902. New York, The Jewish Museum.
James Jacques Tissot: La maledizione (particolare), c. 1896-1902. New York, The Jewish Museum.

"Si apriranno i vostri occhi e diventerete come Dio, conoscitori del bene e del male."
(Genesi 3,5)

Nel giardino dell’Eden c’era un albero che non è registrato nei manuali di botanica. In ebraico si chiama ’es da’at tob wara’, «l’albero della conoscenza del bene e del male», e non è una pianta fisica ma metafisica, simbolica. Forse anche qualche nostro lettore è convinto che si tratti di un melo, ma è vittima di un abbaglio. L’equivoco nasce da una sorta di gioco di parole, possibile però soltanto in latino. In quella lingua, infatti, hanno un suono molto affine questi tre vocaboli: malus (melo), malum (male) e malus (cattivo). Ecco spiegato l’inganno che ha generato la celebre “mela di Eva”, legata appunto al “male” che ne è seguito.

Il discorso, in verità, è serio e tocca il cuore della morale. Cerchiamo, quindi, di illustrare il significato di quell’albero misterioso e comprenderemo appieno anche il passo biblico che abbiamo proposto alla nostra riflessione. Innanzitutto l’immagine vegetale è per la Bibbia segno di sapienza, indica un sistema di vita: il Salmo 1, ad esempio, presenta il giusto come un albero radicato nei pressi di un ruscello, le cui foglie non avvizziscono e i cui frutti sono gustosi e costanti. C’è, poi, la “conoscenza”, la da’at che, nella cultura biblica, non è solo intellettuale, ma è anche un atto globale della coscienza che coinvolge volontà, sentimento e azione. È, pertanto, una scelta radicale di vita. Infine, ecco «il bene e il male» che, com’è ovvio, sono i due perni della morale.

A questo punto siamo tutti in grado di identificare quest’albero simbolico: è l’incarnazione della morale nella sua pienezza, che proviene da Dio, colui che pianta nel cuore di ogni creatura umana questa realtà viva e decisiva. I frutti, quindi, sono solo donati, non possono essere sottratti. L’uomo e la donna sono là, con la loro libertà, sotto l’ombra di quell’albero e compiono una scelta drammatica. Sollecitati dal serpente, emblema del tentatore che scuote la nostra libertà, essi strappano il frutto, ossia – fuor di metafora – vogliono decidere in proprio quale sia il bene o il male, rifiutando di riceverli come codificati da Dio.

Si comprende, allora, il significato profondo dell’invito del tentatore: strappare quel frutto vuol dire diventare arbitri («conoscitori ») del bene e del male, artefici autonomi della morale, creatori di ciò che è giusto e di ciò che è perverso a proprio piacimento. È appunto «diventare come Dio». È, questa, la radice del “peccato originale”, anzi, è l’essenza ultima di ogni peccato. È un po’ quello che i Greci definivano come hybris, ossia la sfida che il ribelle lancia contro la divinità. Con questa scelta si giunge non nel cielo sognato da Adamo ed Eva e fatto balenare loro dal serpente come la grande illusione; si precipita, invece, nel cuore della tenebra, nell’abisso del peccato e della colpa.

Detto in altri termini, l’anima oscura del peccato è la superbia, non per nulla considerata come il primo dei vizi capitali: è la folle aspirazione a sostituirsi a Dio definendo autonomamente il bene e il male. La storia umana è l’amara documentazione dei risultati ottenuti, una volta imboccata questa via. Risuona, allora, il monito di un sapiente biblico del II secolo a.C., il Siracide: «Dio in principio creò l’uomo e lo lasciò in mano al suo proprio volere. Se vuoi, osserverai i comandamenti: l’essere fedele dipende dalla tua buona volontà… Davanti agli uomini stanno la vita e la morte: a ognuno sarà dato ciò che egli sceglierà» (Siracide 15,14-15.17).

Pubblicato il 10 marzo 2011 - Commenti (0)
09
gen

Non griderà nè urlerà

Ecce Homo, Antonello da Messina (1430 ca.-1479), Novara, Broletto.
Ecce Homo, Antonello da Messina (1430 ca.-1479), Novara, Broletto.

"Il mio Servo non griderà né urlerà, non farà udire in piazza la sua voce, non spezzerà la canna incrinata, né spegnerà uno stoppino dalla fiamma smorta. "
(Isaia 42,2-3)

Entra in scena presentato da Dio stesso. Non ha un nome, né una genealogia,ma soltanto un titolo, Servo, in ebraico’ebed, che non è indizio di inferiorità, ma espressione di una dignità, diremmo noi, quasi di ministro. Egli appare all’improvviso in un capitolo, il 42, del libro di Isaia: siamo in quelle pagine – che vanno dal capitolo 40 al 55 – assegnate dagli studiosi a un autore diverso rispetto al grande profeta dell’VIII secolo a.C. e che è stato denominato convenzionalmente “il Secondo Isaia”.
Costui era vissuto nel momento arduo ed esaltante del VI secolo a.C., quando il re di Persia, Ciro, spazzato via l’impero babilonese, aveva concesso a Israele di ritornare dall’esilio alla terra dei padri.
La domanda è ora spontanea: chi è questo personaggio che sale alla ribalta in quattro
canti incastonati nei capitoli 42; 49; 50 e 53 del rotolo profetico di Isaia? Tante sono le
identificazioni tentate, sia individuali (un profeta? Geremia? Mosè? Un maestro di sapienza?), sia collettive (Israele stesso, oppure gli Ebrei fedeli che ora stanno per rimpatriare?). Proprio perché soprattutto nell’ultimo dei quattro canti il volto del Servo è segnato dai tratti della sofferenza e la sua è una missione sacrificale, la tradizione cristiana non ha avuto esitazione nell’intravedere in quella figura i tratti del Messia, naturalmente applicati al Cristo della passione, morte e risurrezione.
Noi ora fissiamo lo sguardo su uno dei primi lineamenti di quel Servo che potremmo
riassumere in una parola: la mitezza. Sembra, infatti, di sentire già echeggiare l’appello
di Gesù: «Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. Prendete
il mio giogo sopra di voi e imparate da me che sono mite e umile di cuore. Il mio giogo
è, infatti, dolce e il mio carico leggero» (Matteo 11,28-30). Tre sono le immagini che descrivono la mitezza del Servo.
Innanzitutto la sua non è la voce potente e inquietante degli antichi profeti: il suo è, in
verità, un annunzio di liberazione e di salvezza, non di giudizio e di condanna. Egli non
punta l’indice nella piazza contro le ingiustizie, ma con pazienza passa quasi di casa in casa per convincere e convertire.
Ecco, allora, gli altri due simboli suggestivi e trasparenti: la canna incrinata non è da lui
gettata via, ma riaggiustata e riutilizzata; lo stoppino che sta sfrigolando e crepitando
perché senza olio non viene brutalmente spento, ma di nuovo alimentato perché ritorni
a sfavillare. È un atto d’amore nei confronti di ciò che sembra destinato alla rovina. È
quell’andare in cerca della pecora perduta
, è quell’abbracciare il figlio smarrito e ritornato a casa, è quell’atteggiamento che Gesù costantemente testimonierà con le sue parole e le sue azioni.

Pubblicato il 09 gennaio 2011 - Commenti (0)
19
dic

Spade e aratri, lance e falci

"Spezzerannole loro spade per farne aratri, trasformeranno le loro lance in falci. Una nazione non alzerà più la spada contro un’altra nazione, non impareranno più l’arte della guerra. "
(Isaia 2,4)

L’orizzonte planetario è attraversato da un movimento: da ogni angolo della terra si mettono in moto processioni di popoli che convergono verso un monte. Non è il più alto né il più famoso, eppure esso è come un faro di luce che irradia i suoi bagliori sulla distesa delle regioni e dei continenti. Quei flussi umani giungono ai piedi della montagna, ed ecco che dalla sua vetta, ove si leva un tempio, esce personificata la parola di Dio che va incontro all’umanità in ricerca.
Di fronte a questa presenza le genti che sono accorse lasciano cadere a terra spade e lance che hanno recato con sé per difendersi dagli altri popoli a loro estranei. Gli artigiani prendono quelle armi e le forgiano in aratri e falci, ossia in strumenti di sviluppo pacifico. Ormai si chiudono le scuole di guerra e si aprono centri di studio e di ricerca per il bene dell’umanità; le pianure non sono più campi di battaglia, ma terreni coltivati, agli armamenti sono subentrati gli armenti.
Abbiamo voluto “sceneggiare” una delle grandi pagine di quel Dante della poesia ebraica e vertice dei profeti d’Israele che è Isaia. È facile sciogliere il significato della parabola. Il suo è, infatti, un inno dedicato a Sion, la sede del tempio di Gerusalemme e della casa di Davide, quindi della presenza divina nello spazio, nella storia e nella Parola (la Tôrah, la Legge e la rivelazione del Signore).
La speranza di questa convergenza planetaria verso il vero Dio per l’edificazione di un
mondo di pace è collocata dal profeta «alla fine dei giorni» (2,2).
È, perciò, una meta sperata come fine ultimo della vicenda umana, ma già ora si deve cominciare a costruire questo ordine di serenità, di collaborazione, di sviluppo. E in prima fila dovrebbero essere proprio i fedeli. Esclama, infatti, Isaia nella conclusione del suo cantico-visione (1,1): «Casa di Giacobbe, venite, camminiamo nella luce del Signore» (2,5). Naturalmente questo affresco grandioso ha due connotati che meritano una sottolineatura particolare.
Da un lato, la pace-shalôm, che non è solo cessazione delle ostilità tra i popoli, ma anche
inaugurazione di una nuova era di armonia e di benessere, apre il sipario sul regno del Messia, un regno di giustizia e di pace, di difesa dei poveri e di fraternità. È ciò che Isaia dipingerà nelle due pagine stupende di 9,1-6 e 11,1-9, due testi da meditare, cari alla tradizione natalizia cristiana che li applica a Cristo e alla sua opera. Un forte messaggio di speranza nel futuro e di attesa fiduciosa.
D’altro lato, affiora qui quella linea universalista che serpeggerà in vari passi della letteratura profetica e sapienziale d’Israele e che avrà una sua celebrazione ultima nella visione neotestamentaria. A questo proposito vorremmo evocare solo un annuncio presente proprio nel libro di Isaia, ma appartenente a un autore posteriore che si è voluto mettere sotto il patronato del grande profeta di Giuda. Anche questo oracolo è collocato «in quel giorno», equivalente, in pratica, alla formula isaiana «alla fine dei giorni»: «In quel giorno Israele sarà il terzo con l’Egitto e l’Assiria [le due superpotenze d’allora], una benedizione in mezzo alla terra. Li benedirà il Signore degli eserciti così: Benedetto sia l’Egiziano mio popolo, l’Assiro opera delle mie mani e Israele mia eredità» (19,24-25).

Pubblicato il 19 dicembre 2010 - Commenti (0)

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Gianfranco Ravasi

Gianfranco Ravasi

Gianfranco Ravasi è un cardinale, arcivescovo cattolico e biblista italiano, teologo, ebraista ed archeologo.
Dal 2007 è presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, della Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa e presidente della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra.

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