13 giu
"Non da sangue né da volere di carne,
né da volere di uomo,
ma da Dio sono stati generati"
(Giovanni 1,13)
Madonna col bambino di Giovanni Bellini (1430-1516). Bergamo, Accademia Carrara.
Il soggetto di questa frase è presente nel versetto precedente
del grandioso inno che funge da prologo al Vangelo di Giovanni: «I figli di Dio, quelli che credono nel suo nome»
(v.12). Si avrebbe, quindi, la proclamazione di quella che
san Paolo definirà come l’adozione a figli da parte di Dio
mediante la fede (Galati 4,4-7; Romani 8,15-17).
È curioso,
nell’originale greco, l’uso del plurale “sangui”, che riflette
un’antica concezione fisiologica secondo la quale l’embrione
era generato dall’impasto del sangue materno e dal semesangue paterno. La formula “volere [o desiderio] di uomo” è
evidentemente anch’essa legata alla cultura del tempo di
stampo maschilista: era il maschio l’agente principale della
generazione (tra l’altro, si ricordi che l’ovulo femminile fu
identificato solo nel 1827!).
Fatte queste puntualizzazioni, è facile immaginare la domanda dei nostri lettori: dov’è mai la difficoltà di questo versetto? La risposta è più di indole teologica che esegetica. La
quasi totalità degli antichi manoscritti greci che ci hanno trasmesso il Nuovo Testamento sono concordi nell’avere il verbo al plurale: «da Dio sono stati generati (eghennéthesan)». Di
scena sono, quindi, i credenti in Cristo, Verbo divino.
Tuttavia, dobbiamo segnalare che un solo codice greco, alcuni manoscritti dell’antica versione latina e non pochi Padri
della Chiesa (come Giustino, Ireneo, Tertulliano) propongono un testo col verbo al singolare: «Non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio è stato generato (eghennéthe)».
È evidente che in questo caso di scena non saremmo più
noi con la nostra generazione spirituale a figli di Dio, ma sarebbe lo stesso Cristo, con la sua origine verginale reale,
«non da sangue né da volere di carne, né da volere di uomo».
È, però, altrettanto evidente che questo verbo al singolare potrebbe essere un successivo adattamento del testo giovanneo, per riproporre la dichiarazione che i Vangeli di Matteo
(1,18-25) e di Luca (1,26-38) hanno riguardo alla generazione
verginale di Gesù: egli non è frutto dei meccanismi biologici
genetici umani, ma è dono divino attraverso Maria.
Aggiungiamo un’ulteriore nota erudita. Alcuni studiosi
pensano che questa lettura al singolare sia originata da
una polemica contro un’ipotetica accusa da parte ebraica
secondo la quale si affermava che i cristiani – sulla base di
un passo oscuro del libro della Genesi (6,1-4) – consideravano Gesù come un gigante dell’antichità, concepito da
una donna e da un “figlio di Dio”, cioè un angelo. Tra l’altro, in uno scritto apocrifo giudaico molto popolare detto
Libro di Enoc si riprende proprio l’arcaica tradizione biblica dei giganti, considerati frutto dell’unione tra donne e
angeli, e la si condanna.
Pubblicato il 13 giugno 2013 - Commenti (2)
07 giu
"La luce splende fra
le tenebre, e le tenebre
non l'hanno vinta"
(Giovanni 1,5)
La separazione della luce dalle tenebre , cupola della Genesi, mosaici del secolo XII. Venezia, Basilica di San Marco.
Tra i famosi manoscritti giudaici venuti alla luce nel 1947 a Qumran,
sulla sponda occidentale del Mar
Morto, ce n’è uno intitolato dagli studiosi
Il Rotolo della Guerra: in esso si descrive la battaglia finale di una
guerra
quarantennale tra i Figli della Luce e i
Figli delle Tenebre, segnata dal trionfo della Luce.
Ebbene, nel celebre inno
che funge da prologo al Vangelo di Giovanni si ha qualcosa di analogo e il versetto che noi abbiamo proposto ne è
un’evidente attestazione. Lo è almeno
nella versione che è stata adottata e che
è anche quella scelta dall’ultima edizione della Bibbia della Conferenza episcopale italiana.
La precedente – che è quella forse ancora nelle orecchie dei nostri lettori –
suonava invece così: «La luce splende
nelle tenebre, ma le tenebre non l’hanno accolta». Alcuni, abituati al latino,
hanno ancora in mente la resa offerta
dalla
Vulgata
di san Girolamo:
Lux in tenebris lucet, et tenebrae eam non comprehenderunt
e, nel tardo latino, quel
comprehenderunt
poteva avere anche
valore di “non compresero”.
Allora, quale sarà mai la traduzione
giusta del verbo greco originale
katélaben? “Vincere”, “accogliere”, “comprendere” non sono la stessa cosa, eppure sono verbi diversamente usati da versioni
ufficiali o qualificate. Qual è, dunque,
quella preferibile? Diciamo subito che il
verbo greco presente nel testo originario
è di sua natura ambiguo perché può ospitare al suo interno tutta la gamma dei significati indicati, sia pure con accenti diversi. Partiamo dalla resa «le tenebre
non hanno
compreso» (la luce).
Di per sé è possibile, dato che le tenebre sono nel quarto Vangelo sinoni-
mo di “mondo” e nel versetto 11
dell’inno-prologo si dice che «il mondo non ha riconosciuto» il Verbo-Luce-
Cristo. Ma la formulazione risulta un
po’ estranea al modo con cui Giovanni
sviluppa
il tema della rivelazione e del
giudizio compiuti da Cristo nei confronti del mondo.
Passiamo, allora, all’altra traduzione:
«le tenebre non l’hanno
accolta». Certo,
se Giovanni avesse avuto in mente l’aramaico, la lingua allora dominante in Terrasanta, avrebbe potuto proporre un gioco di parole:
la’ qableh qablâ
, «le tenebre
non l’accolsero». Ma il verbo greco usato
dall’evangelista indica piuttosto un’opposizione, espressa dalla preposizione
katà; sarebbe stato più logico usare il verbo
parélaben
, come appunto si ha nel
versetto 11: «Venne tra i suoi, e i suoi
non l’hanno accolto (parélabon)».
Rimane, dunque, il terzo significato,
accettato dalla versione da noi proposta: «le tenebre non l’hanno vinta» (o
“sopraffatta”). Il senso ostile ben s’adatta allo
scontro che intercorre tra la luce e le tenebre, tra Cristo e il mondo.
È
una sfida di cui il cristiano conosce l’esito. Tra l’altro, è da notare che questo
senso affiora anche nell’unico altro passo del quarto Vangelo in cui appare lo
stesso verbo greco: «Camminate mentre
avete la luce, perché le tenebre non vi
afferrino (katalábê)» (12,35). Il nostro
versetto proclama, dunque, la fiducia
nella vittoria finale di Cristo sulle tenebre, sul mondo, sul male.
Pubblicato il 07 giugno 2013 - Commenti (2)
30 mag
"Mentre li benediceva,
si staccò da loro e veniva
portato su in cielo"
(Luca 24, 51)
Ascensione (1250-1260), Salterio. Londra, British Museum.
Nella fantasia degli artisti, ma anche di molti fedeli, la scena
dell’Ascensione di Cristo ha i contorni che un poeta agnostico come il
francese Apollinaire così cantava nella
poesia Zona (1913), immaginando Gesù
come un moderno aviatore (diremmo
noi oggi “astronauta”): «I diavoli dagli
abissi levano il capo per guardarlo... Gli
angeli volteggiano attorno al grazioso
Volteggiatore». Anche sul monte degli
Ulivi, nell’antico tempietto bizantino e
crociato (ora musulmano) dedicato
all’Ascensione, si mostra una roccia sulla quale la tradizione popolare vede impresse le impronte dei piedi del Risorto
nello slancio dell’ascesa!
In realtà, questo evento – che san Luca
pone a suggello del suo Vangelo e in apertura alla sua seconda opera, gli Atti degli
apostoli (1,6-12) – dev’essere compreso
nel suo significato profondo, andando al
di là di concezioni troppo “materialistiche” e “astronautiche”. Sappiamo che
l’area celeste è per eccellenza il segno del
divino e del trascendente rispetto all’orizzonte in cui sono immerse le creature. In
realtà, però, Dio supera e ingloba anche
il cielo, essendo infinito. Ora, Gesù di Nazaret con la risurrezione passa
dall’orizzonte spaziale e storico terreno alla pienezza della sua divinità, con
tutto il suo essere anche corporeo che viene trasfigurato e glorificato.
La “verticalità” dell’ascensione rappresenta, perciò, il mistero che si celava in
Cristo quando era nell’“orizzontalità”
del nostro spazio e del nostro tempo. Si
ricorre, così, alla descrizione biblica della fine dei giusti, come l’arcaico patriarca
Enok e il profeta Elia che furono rapiti in
cielo (Genesi 5,22; 2Re 2): il Risorto ritorna nella città celeste da cui era venuto,
cioè dal mistero della divinità, e con sé
attira l’umanità redenta, strappandola
alla caducità del tempo e del limite, del
male e del peccato (questo è anche il senso dell’assunzione di Maria al cielo). Come diceva sant’Agostino nel suo Sermone per l’ascensione, «la risurrezione del Signore è la nostra speranza, l’ascensione
del Signore è la nostra glorificazione».
È interessante notare che l’evangelista Giovanni a più riprese raffigurerà
la crocifissione e la risurrezione di Cristo proprio come un “innalzamento”,
un’ascensione,una glorificazione: «Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo... Quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me» (3,14;
12,32). Venendo in mezzo a noi, Gesù
è diventato in tutto simile a noi; con
la morte egli conclude la sua parabola
storica.
Con la risurrezione egli è “innalzato” dal nostro orizzonte, “ascendendo” a quel mondo divino a cui appartiene come Figlio di Dio, portando
con sé quell’umanità che egli aveva assunto incarnandosi, così da condurla
alla gloria. Una nota a margine: il
grande Bach ha dedicato all’Himmelfahrt, cioè all’Ascensione di Cristo, un
grandioso oratorio musicale eseguito
nel 1735, concluso da uno stupendo
corale che intreccia il dolore della separazione da Cristo con la gioia della
sua glorificazione.
Pubblicato il 30 maggio 2013 - Commenti (2)
24 mag
"Guardate le mie mani
e i miei piedi: sono proprio io!
Toccatemi e guardate:
un fantasma non ha carne e ossa."
(Luca 24,39)
Caravaggio, Incredulità di Tommaso , 16oo-01. Potsdam-Sans-Souci, Bildergalerie.
Che sia poco felice il termine “apparizioni”, usato per indicare gli incontri del Cristo risorto coi suoi discepoli,
è dovuto alla comune accezione moderna che spesso lega questa parola alla magia o alla parapsicologia e non di rado a
emozioni personali indefinibili e discutibili. In realtà, il linguaggio neotestamentario ricorre al semplice verbo “vedere”:
Gesù “fu visto” dopo la sua morte in tre incontri con singole persone e in cinque
con la comunità dei discepoli.
Uno di questi ultimi incontri, ambientato a Gerusalemme, è descritto da Luca (24,36-42) subito dopo il celebre racconto di Emmaus.
La scena impressiona per la sua “carnalità”: essa contrasta con l’improvvisa
epifania di Cristo («stette in mezzo a loro») – che lo fa scambiare per un fantasma agli occhi dei discepoli – e con l’idea
di un corpo “trasfigurato” che noi colleghiamo al concetto di risurrezione.
Luca
va giù pesante non solo riferendo l’invito a toccare carne e ossa del Risorto, un
po’ come accadrà all’apostolo Tommaso
nel racconto di Giovanni (20,27), ma evocando anche una sorprendente proposta dello stesso Gesù a cui dà seguito in
modo deciso: «Avete qui qualcosa da
mangiare? Gli offrirono una porzione di
pesce arrostito. Egli lo prese e lo mangiò
davanti a loro».
La spiegazione di questo dato un po’
imbarazzante è da cercare nel particolare
stato del Risorto.
Egli è nella gloria della divinità e, quindi, è oltre la fragilità
carnale e la mortalità.
È per questo che
può apparire all’improvviso, persino «a
porte chiuse», come accade nel caso citato
di Tommaso (Giovanni
20,26). È ancora
per questo che può essere scambiato quasi per un fantasma o persino – come accadrà a Maria di Magdala – confuso con
un’altra persona, il custode dell’area cemeteriale (Giovanni
20,15). Questo avviene perché è necessario un ulteriore canale di conoscenza rispetto a quello razionale, una “visione” differente rispetto a
quella oculare fisica: è
il percorso di conoscenza della fede che permette di
intuire il volto di Cristo risorto.
Questo, però, non significa che egli
sia diverso dal Gesù storico. Ecco, allora,
la sottolineatura sulla corporeità.
Ora, è
noto che per il semita il corpo non è solo un agglomerato biologico e fisiologico; è soprattutto il segno della personalità, della presenza, dell’individualità. Il
Risorto è, dunque, la stessa persona, e
l’esperienza pasquale non è una mera
sensazione soggettiva, ma essa è indotta
da una realtà oggettiva, esterna, trascendente ma reale.
Talmente reale ed efficace da mutare
radicalmente la vita di quegli uomini esitanti, timorosi e dubbiosi e persino l’esistenza di un avversario deciso come Paolo di Tarso.
Questa marcata sottolineatura della corporeità del Risorto è tipica sia di Luca sia di Giovanni che devono confrontarsi con lo scetticismo del
mondo greco
riguardo alla risurrezione,
mondo a cui appartenevano i destinatari dei loro Vangeli. Emblematica sarà
l’esperienza dell’apostolo Paolo nel suo
intervento all’Areopago di Atene, ove
egli si scontrerà con una forte reazione
negativa all’annunzio della risurrezione
di Cristo (Atti 17,30-33).
Pubblicato il 24 maggio 2013 - Commenti (2)
17 mag
"Essi narrarono
ciò che era accaduto lunga la via
e come l'avevano riconosciuto
nello spezzare il pane."
(Luca 24,35)
La cena di Emmaus di Diego Velázquez, 1622-23. New York, Metropolitan Museum of Art.
Caravaggio ripropone questa scena in modo emozionante ben
due volte, in tele che sono custodite rispettivamente alla National Gallery di Londra e alla Pinacoteca milanese
di Brera. Certo è che la cosiddetta “Cena
di Emmaus” narrata dall’evangelista Luca (24,13-35) è rimasta non solo nella fede dei credenti, ma anche nell’immaginario di tutti, specialmente attraverso
quell’invocazione finale dei due discepoli: «Rimani con noi perché si fa sera e
il giorno sta ormai declinando!». Come
è noto, questo incontro del Cristo risorto con Cleopa (diminutivo di Cleopatro)
e con un altro seguace anonimo di Gesù è “dipinto” narrativamente
dall’evangelista in due quadri consequenziali.
All’inizio c’è la strada e il cammino di
sessanta stadi (all’incirca undici chilometri) per raggiungere Emmaus, un villaggio la cui identificazione non è certa. È,
questo,
il momento della parola: considerazioni sconsolate dei due, spiegazioni intense e appassionate dell’ignoto viandante.
Ecco, poi, la seconda scena, in un interno, attorno a una mensa
ove basta solo un gesto per far riconoscere in quel compagno di viaggio il Cristo:
«Prese il pane, recitò la benedizione, lo
spezzò e lo diede loro». Perché lo “spezzare il pane” fa aprire gli occhi a quei due?
La risposta è di indole teologica e liturgica. La frase appena citata
echeggia, in-
fatti, i gesti compiuti da Gesù nella
sua ultima cena,
quando appunto egli
«prese il pane, rese grazie, lo spezzò e lo
diede loro» (
Luca
22,19). È, quindi, l’eucaristia l’atto dello svelamento del Cristo risorto agli occhi del credente. Non
basta, per poterlo riconoscere nella sua
realtà più intima, l’esperienza fisica
dell’ascolto. Quest’ultima è importante
perché – come i due discepoli confesseranno – fa “ardere il cuore nel petto”; ma è
necessaria una via superiore di conoscenza, quella della fede, che permette l’incontro pieno sotto il segno del pane spezzato.
È per questo che
la formula “spezzare il pane” (in greco
klásis tou ártou)
diverrà quasi “tecnica” per indicare
l’eucaristia.
Lo stesso evangelista Luca,
quando delinea negli Atti degli apostoli
le quattro colonne ideali che reggono la
comunità cristiana di Gerusalemme, non
esita a collocarvi anche questo rito fondamentale della Chiesa: «Erano perseveranti nell’insegnamento degli apostoli, nella
comunione fraterna, nello spezzare il pane (klásis tou ártou) e nelle preghiere»
(2,42).
Poche righe dopo (2,46), si ricorda
che questa celebrazione avveniva all’interno delle abitazioni ove si radunavano
i primi cristiani: «Erano perseveranti insieme nel tempio e spezzavano il pane
nelle case», e ciò aveva luogo all’interno
di un banchetto comunitario («prendevano cibo con letizia e semplicità di cuore»).
Questo atto è rievocato altrove nel secondo scritto di Luca. Ad esempio, a
Troade, alla presenza di san Paolo e dello stesso Luca, si nota: «Il primo giorno
della settimana ci eravamo riuniti a
spezzare il pane» (20,7). Similmente, dopo una terribile tempesta nel Mediterraneo e prima di approdare a Malta, Paolo sulla nave «prese un pane, rese grazie a Dio davanti a tutti e lo spezzò cominciando a mangiarlo» (27,35). Era stato lo stesso Apostolo, scrivendo ai fedeli di Corinto, a dare
indicazioni severe
per una retta celebrazione della cena
del Signore
nel contesto del banchetto
comunitario (1
Corinzi
11,17-34).
Pubblicato il 17 maggio 2013 - Commenti (2)
10 mag
"Se si tratta così
il legno verde, che avverrà
del legno secco?
(Luca 22,31)
Le Marie al calvario di Domenico Morelli (1826-1901). Napoli, Museo di San Martino.
Gesù avanza, già sfinito, lungo la
via che lo conduce al Calvario.
Nella folla incuriosita, come sempre,
delle sventure altrui (si pensi ai turisti dell’orrore che accorrono nei luoghi
ove si sono consumati delitti o tragedie),
solo l’evangelista Luca segnala la presenza di
una sorta di confraternita femminile votata all’assistenza dei condannati a morte
ai quali – stando al
Talmud, la grande raccolta antica di tradizioni giudaiche – offrivano bevande anestetiche. A loro Gesù indirizza un messaggio forte, per certi versi minaccioso.
In altri termini dichiara loro: più che
compatire me, dovreste preoccuparvi di
voi stesse e del vostro popolo.
Inizia, infatti, con questo monito: «Figlie di Gerusalemme, non piangete su
di me, ma piangete su voi stesse e sui
vostri figli!» (23,28). E subito dopo calca
la sua affermazione con una serie di frasi cariche di simboli e di colori apocalittici.
La prima contiene una sorta di profezia: «Ecco, verranno giorni nei quali si
dirà: beate le sterili, i grembi che non
hanno generato e i seni che non hanno
allattato!» (23,29).
Lo sguardo di Gesù
sembra allungarsi fino alla tragedia
che colpirà Gerusalemme nel 70,
quando sarà demolita dai Romani. In realtà,
egli risale nella memoria di un altro
evento drammatico, quello del 586 a.C.
quando furono i Babilonesi a distruggere la Città santa.
In quel giorno – cantavano le Lamentazioni bibliche – «la lingua del lattante
si era attaccata al palato per la sete; i
bambini chiedevano il pane e non c’era
chi lo spezzasse loro» (4,4).
Perciò, fortunate le donne sterili che, non avendo figli, non vedevano morire tra le braccia i
loro bambini. È ciò che Gesù aveva già
detto nel suo discorso “escatologico”, ossia sulla meta ultima di Gerusalemme e
della storia umana, una fine destinata a
essere accompagnata da
un tempo di
grande sventura prima di aprirsi alla
luce della redenzione e della salvezza:
«In quei giorni guai alle donne incinte e
a quelle che allattano perché vi sarà
grande calamità nel paese e ira contro
questo popolo» (Luca
21,23).
La seconda frase, sempre cupa, che
Gesù indirizza a quelle donne è, invece,
una citazione del profeta Osea (10,8):
«Allora cominceranno a dire ai monti:
cadete su di noi! E alle colline: copriteci!» (23,30). È l’esclamazione potente di
chi, trovandosi in una sventura insopportabile, implora la morte attraverso
una catastrofe cosmica. Siamo sempre
nella linea della cosiddetta “apocalittica”, che vuole scuotere Israele perché tema il giudizio finale di Dio.
Giungiamo, così, all’ultima dichiarazione di Cristo che mette in relazione il
legno verde e quello stagionato e arido
(23,31). L’immagine, variamente precisata dagli studiosi, è comunque abbastanza nitida e netta: se ora si brucia il
legno verde, cioè intatto e vivo, simbolo di Gesù il giusto, cosa accadrà quando saranno sottoposti al giudizio i veri
colpevoli, ossia il legno secco?
Anche
nel libro del profeta Ezechiele giusto e
peccatore sono rappresentati sotto questo stesso duplice segno: «Io accenderò
in te – dice il Signore – un fuoco che divorerà ogni albero verde e secco»
(21,3). Gesù, perciò, invita a considerare
la vera tragedia che è quella del giudizio divino su chi lo sta ora uccidendo,
e quindi la condanna di Dio nei
confronti del male, della violenza e
dell’ingiustizia (il legno secco, facilmente combustibile).
Pubblicato il 10 maggio 2013 - Commenti (1)
03 mag
"Chi non ha una spada
venda il mantello
e ne compri una!"
(Luca 22,36)
Il bacio di Giuda del Beato Angelico. Firenze, Museo di San Marco.
È
sorprendente questa frase che Cristo rivolge nel cenacolo agli apostoli. Essa,
nella sua forma completa, evoca un mo-
mento del passato quando Gesù aveva invitato i discepoli ad andare in missione senza sacca da viaggio, denaro, abiti di ricambio, sandali di scorta (
Matteo
10,9-10). Infatti, dichiara:
«Ora, chi ha una borsa da viaggio la prenda e
così chi ha una sacca, e chi non ha una spada,
venda il mantello e ne compri una!».
E gli apostoli, senza imbarazzo, tirano fuori subito due
spade che erano in loro possesso.
Stupisce il fatto che essi girassero armati.
In realtà, lo storico ebreo Giuseppe Flavio,
di non molto posteriore a Gesù, ricorda
la
consuetudine di portare armi persino di sabato e a Pasqua per legittima difesa personale,
anche perché spesso le strade erano infestate da briganti (si pensi alla parabola
del Buon Samaritano). Ugualmente il
Talmud
– che raccoglie le antiche tradizioni giudaiche – ammette il possesso di una spada
come tutela nei territori a rischio, soprattutto di confine.
Gesù, però, parla in senso metaforico, come aveva già fatto in un’altra occasione
quando aveva dichiarato: «Non sono venuto
a portare la pace, ma una spada» (Matteo
10,34). Con queste parole egli intendeva affermare che era ormai giunto il tempo della
lotta contro il potere delle tenebre. Si era ormai compiuta la divisione, netta come il taglio di una spada, tra bene e male, tra Cristo
e il passato, tra il Salvatore e Satana.
La spada, quindi, era un’arma spirituale e non militare,
più o meno come dirà san Paolo quando raffigurerà «l’armatura di Dio perché pos-
siate resistere nel giorno malvagio e restare
in piedi dopo aver superato tutte le prove» (si
legga il passo di
Efesini
6,13-17).
Di fronte al fraintendimento delle sue parole, Gesù replica con uno sconsolato e rasse-
gnato «Basta!», che non riguarda il numero
delle spade ma l’ottusità dei suoi amici. Secondo il Vangelo di Luca, la scena si ripeterà
nello stesso Getsemani al momento dell’arresto. «I discepoli, vedendo ciò che stava per accadere, dissero: Signore, dobbiamo colpire
con la spada?». E senza attendere la risposta
da Cristo, ecco il fendente che essi menano
su un servo del sommo sacerdote. Gesù ancora una volta, con tristezza, ripete la stessa frase: «Lasciate, basta così!» (
Luca
22,49-51).
È un fraintendimento che non di rado ha
colpito il messaggio di Gesù
allora e nei secoli e che nasce da una lettura letteralista – se
si
vuole, fondamentalista – delle sue parole,
assunte così come suonano superficialmente senza lo sforzo di comprenderne il senso
autentico intimo. Anche se la frase paolina
ha una portata più ampia, può essere appli-
cata a queste degenerazioni nella compren-
sione del genuino messaggio cristiano: «La
lettera uccide, lo Spirito invece dà vita»
(2
Corinzi
3,6).
Pubblicato il 03 maggio 2013 - Commenti (0)
26 apr
"Gersusalemme sarà calpestata dai pagani
finché i tempi dei pagani non siano compiuti."
(Luca 21,24)
La conquista di Gerusalemme e la distruzione del Tempio da parte dell’imperatore Tito nell’anno 70 nel dipinto di Nicolas Poussin, 1638. Vienna, Kunsthistorisches Museum (Scala).
Abbiamo già avuto occasione di ricordare che nel Vangelo di Luca ci si imbatte in due brani analoghi che gli esegeti biblici hanno chiamato «la piccola» e «la grande apocalisse» (17,20-37 e 21,5-36). Si tratta di un duplice sguardo rivolto alla “realtà ultima” (in greco éschaton) della storia e del mondo, donde il termine tecnico di “escatologia”. Per abbozzare questa sorta di estuario estremo delle vicende umane e delle realtà create, già nell’Antico Testamento si ricorreva a un genere letterario detto “apocalittico”, vocabolo di origine greca che designa la “rivelazione” (apokálypsis) di un mistero.
Questo genere era ricco di simboli piuttosto forti e molto “colorati”, di visioni, di segni che evidentemente non devono essere presi alla lettera – come si è fatto in passato e come accade talvolta ancor oggi – cioè in modo fondamentalistico. Anche Gesù adotta quelle immagini: lo si può vedere leggendo l’intero brano della “grande apocalisse” lucana. Gli evangelisti, poi, nel redigere per scritto queste parole di Cristo hanno anche fatto balenare in filigrana un evento drammatico come quello della distruzione di Gerusalemme nel 70 a opera dei Romani.
La frase che noi abbiamo ritagliato da quel discorso “escatologico” parla di un sovvolgimento che colpisce appunto Gerusalemme, la quale vede ripetersi ciò che era accaduto nel 586 a.C., quando le armate babilonesi di Nabucodonosor avevano invaso e demolito il tempio e la città santa. Anche nel futuro, quindi, afferma Gesù, Sion sarà calpestata, molti «cadranno a fil di spada oppure saranno condotti prigionieri in tutte le nazioni» e questo avverrà durante una fasestorica simbolicamente denominata come “tempi dei pagani” (in greco kairoì ethnôn, ossia i tempi propri delle nazioni, dei popoli stranieri, delle genti).
Ora, già nell’Antico Testamento si face- va spesso riferimento a un arco di tempo – variamente computato in modo simbo- lico in settant’anni (Geremia 25,11; 29,10; Daniele 9,1-2), oppure in settanta settimane di anni (Daniele 9,24-27) – durante il quale i popoli dominatori avrebbero pu- nito Israele peccatore, divenendo così strumento del giudizio divino. Al termine di questi “tempi dei pagani”, simili a una sorta di crogiuolo purificatore, Israele avrebbe visto la liberazione e la salvezza, inaugurando in tal modo i “tempi ultimi”, l’escatologia appunto, l’èra della salvezza piena.
Benedetto XVI nel suo secondo volume su Gesù di Nazaret (“Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione”, 2011) dedica al “tempo dei pagani” un ca- pitoletto molto interessante e lo vede come «il tempo della Chiesa» che precede la fine della storia, nel quale dev’es- sere annunziato il Vangelo a tutti i popoli. E conclude: «L’urgenza dell’evangelizzazione è motivata... da questa grande concezione della storia: affinché il mondo raggiunga la sua meta, il Vangelo deve arrivare a tutti i popoli».
Pubblicato il 26 aprile 2013 - Commenti (1)
18 apr
Gesù vede Zaccheo su un sicomoro e si fa invitare a casa sua. William Hole, Vita di Gesù , 1890 circa.
"Zaccheo cercava di vedere
Gesù, ma non riusciva a causa
della folla, perchè era piccolo
di statura."
(Luca 19,3)
La vicenda vissuta da Zaccheo, in ebraico
Zakkai
, cioè “puro, innocente” – un nome un po’ paradossale per un personaggio molto discusso come poteva essere un capoesattore (architelónes
) per conto dello Stato straniero romano e dei suoi prìncipi ebrei
satelliti –
è narrata solo dall’evangelista Luca
che la ambienta nella città di Gerico, l’antichissimo e prospero centro situato in un’oasi
della valle del Giordano. Noi vogliamo evocare questo episodio per due ragioni. La prima
è nella citazione che abbiamo proposto e si
tratta solo di una curiosità.
Zaccheo sale su un albero di sicomoro,
una pianta tipica del clima subtropicale, perché – essendo basso di statura – non riusciva a vedere Gesù che attraversava la città circondato dalla folla. La curiosità è nell’ipotesi fantasiosa (e improbabile nel testo) che
quella “piccolezza” fosse propria della statura di Gesù.
Questa interpretazione stravagante riflette il desiderio frustrato di sapere
qualcosa di più, attraverso i Vangeli, sulla figura concreta di Cristo. Nei primi secoli si è
cercato di colmare il silenzio evangelico ricorrendo ad applicazioni libere di immagini
bibliche messianiche.
Così, si è creato un Gesù dal viso sgraziato
per adattargli quel passo del quarto canto del
Servo sofferente del Signore che suona così:
«Non ha apparenza né bellezza per attrarre il
nostro sguardo, non splendore per poterne
godere» (Isaia
53,2). E Origene, nel III secolo,
aveva concluso, sulla scia anche della nostra
citazione lucana: «Gesù era piccolo, sgraziato,
simile a un uomo da nulla». All’antipodo si
colloca, a partire dal IV secolo, su influsso anche degli ideali classici greco-romani, il profilo di un Cristo avvenente, incarnazione di un
altro passo messianico anticotestamentario,
il carme nuziale regale del Salmo 45: «Tu sei il
più bello tra i figli dell’uomo».
Il poeta Eugenio Montale ha, invece, riletto
la scena un po’ umoristica di questo alto funzionario, ma basso di statura, che si inerpica
su un albero, come un emblema amaro della
personale incredulità del poeta: «Si tratta di
arrampicarsi sul sicomoro / per vedere
il Signore / se mai passi. / Ahimè, io non sono un
rampicante, / ed anche stando in punta di piedi, / io non l’ho visto».
Ben diverso, invece, è
stato l’esito di quell’ascesa per Zaccheo.
Gesù lo vede e si fa invitare a casa di questo personaggio piuttosto chiacchierato, nonostante
le critiche dei benpensanti.
E qui introduciamo la nostra seconda nota
che riguarda il segno di conversione di quel
“capoesattore”: «Io do la metà di ciò che possiedo ai poveri e, se ho rubato a qualcuno, restituisco quattro volte tanto» (19,8). La legge
ebraica imponeva questa sanzione solo per il
furto di un montone (
Esodo
21,37); negli altri
casi si esigeva solo la restituzione per intero
della cosa rubata «aggiungendovi un quinto»
(
Levitico
5,16;
Numeri
5,6-7). La legge romana
richiedeva il rimborso al quadruplo soltanto
per i
furta manifesta
, cioè per la flagranza di
reato.
Zaccheo, invece, testimonia con questa sua scelta così radicale la trasformazione totale
e piena che si è in lui compiuta.
Pubblicato il 18 aprile 2013 - Commenti (2)
11 apr
l seminatore di Noyes Lewis. Da An outline of christianity, the story of our civilisation, Londra, 1926.
"I farisei gli domandarono:
«Quando verrà il regno di Dio?». Gesù rispose
loro: «il regno di Dio è in mezzo a voi!»."
(Luca 17,20-21)
Nel
Vangelo di Luca gli studiosi hanno ritagliato due brani che sembrano affacciarsi su quell’orizzonte
estremo che sta alla fine della storia: è
quella che tecnicamente viene chiamata
“escatologia”, cioè “discorso sulle realtà
ultime”, e che è espresso in un linguaggio denominato come “apocalittico”, cioè
“da rivelazione” di qualcosa di misterioso. Si parla, così, di “piccola apocalisse” di
Luca, presente in 17,20-37, e di “grande
apocalisse” di Luca, che si legge in
21,5-36. Ebbene, noi proponiamo ora
proprio l’inizio della prima, “piccola” rivelazione che Gesù fa sul “regno di Dio”.
Questo simbolo, centrale nella predicazione di Cristo, designa
il progetto
che Dio vuole attuare, con la collaborazione libera dell’umanità, nei confronti del creato e della storia. La pienezza
di questo disegno di salvezza si avrà alla fine della vicenda di tutto l’essere
creato quando, come si legge nell’Apocalisse, si avranno «un cielo nuovo e una
terra nuova e il cielo e la terra di prima
scompariranno» (21,1). Sorgerà, allora,
un mondo di giustizia, bellezza, amore
e verità, e questa sarà "l'escatologia" in
senso stretto.
Ma, contro la tentazione di relegare il
regno di Dio solo su quello sfondo remoto, Gesù a più riprese ribadisce che
questo progetto divino è già in azione nella storia umana attuale,
anche se la sua
opera è nascosta e simile quasi a un fiu-
me carsico che corre sotto la superficie
accidentata delle vicende umane. Infat-
ti, la risposta completa che Gesù rivolge
ai farisei che lo interrogano suona così:
«Il regno di Dio non viene in modo da attirare l’attenzione e nessuno dirà: “Eccolo qui!”, oppure: “Eccolo là!”». Non si
tratta, quindi, di un’“apocalisse” nel senso popolare del termine, cioè di una rivelazione clamorosa e terrificante, bensì
di una realtà discreta, anzi piccola come
il granello di senape, oppure il pizzico di
lievito deposto nella farina, o come un
tesoro sepolto nelle profondità del terreno o una perla confusa tra tante cianfrusaglie (cfr.
Matteo
13,31-33.44-46).
Gesù invita, allora, i suoi interlocutori a non perdere tempo in pronostici,
oroscopi o previsioni sulla meta terminale del regno di Dio, ma ad
accoglierne la presenza attuale ancora modesta ma già in azione.
Non per nulla la
sua prima “predica” era stata limpida e
netta: «Il tempo è compiuto, il regno di
Dio è vicino; convertitevi e credete nel
Vangelo» (Marco
1,15). Cristo ribadisce,
nel Vangelo di Luca, che «il regno di Dio
è in mezzo a voi», è già presente ora, e
così egli allude anche
alla sua opera di
annunciatore, di testimone e di protagonista nell’instaurazione di questo
regno
di giustizia, amore e verità.
L’espressione greca
entòs hymôn, “in
mezzo a voi”, può anche significare
“dentro di voi”, cioè nell’interiorità
delle persone e nell’intimità dei cuori.
Questa idea, che pure ha un suo valore, non è però direttamente intesa da
Gesù, che getta lo sguardo piuttosto su
tutta la storia e la creazione, come appare nell’insieme del suo discorso detto appunto “la piccola apocalisse”, la
“rivelazione” sul senso globale e profondo della realtà
Pubblicato il 11 aprile 2013 - Commenti (2)
05 apr
Il gelso di Raffaello Sorbi (1885-1890), olio su tavola. Collezione privata.
"Se aveste fede quanto un granello di senape,
potreste dire a questo gelso:
Sdràdicati e va' a piantarti nel mare!
Ed esso vi obbedirebbe"
(Luca 17,6)
Gli apostoli si accostano a Gesù e gli rivolgono
un appello profondamente
spirituale (non sempre accadeva così):
«Accresci in noi la fede!». E Cristo risponde
con questa frase provocatoria nella sua paradossalità.
Egli non vuole certamente proporre
un modello di fede magica o legata a facoltà
prodigiose o a gesti clamorosi e spettacolari.
I suoi stessi miracoli erano considerati
piuttosto come “segni” oppure “opere” di
una salvezza ulteriore offerta, tant’è vero che
Gesù si premurava di compierli spesso ai margini
della folla e con l’imposizione del silenzio,
evitando quindi ogni apparato pubblicitario,
come farebbero i maghi.
La frase citata è, in verità, una tipica
espressione del linguaggio orientale che
ama i colori accesi, i simboli forti, le espressioni
radicali per imprimere meglio nell’uditorio
un messaggio o una lezione. Anzi, il parallelo
presente negli altri evangelisti è ancor
più “esagerato” rispetto alla formulazione
di Luca. Matteo, ad esempio, sulla scia di
Marco (11,23) ha quest’altra immagine ben
più imponente: «Se avrete fede pari a un granello
di senape, direte a questo monte: Spòstati
da qui a là! Ed esso si sposterà, e nulla
vi sarà impossibile» (17,20).
E la frase è ripetuta
altrove (Matteo 21,21).
Luca, invece, opta per una realtà più modesta,
l’albero di sykáminos, come si dice in greco,
cioè il “gelso”, ed è l’unica volta che questa
pianta entra in scena in tutto il Nuovo Testamento.
L’applicazione è semplice e acquista
una forza ulteriore nel contrasto tra il microscopico
granello di senape – che Gesù aveva
già usato come simbolo della piccolezza,
ma anche della potenza intima del regno di
Dio (Matteo 13,31-32) – e l’albero frondoso e
maestoso del gelso.
La fede ha in sé un’energia segreta la cui efficacia è tale da rendere il fedele capace di superare anche prove apparentemente invalicabili. Il detto di Gesù nella redazione di Luca è passibile di un’altra lettura con una sfumatura differente che è messa in luce da alcune traduzioni così concepite: «Con la fede che voi avete, pur piccola come un granello di senape, se diceste a un gelso: Sràdicati e va’ a piantarti nel mare, esso vi obbedirebbe». In altri termini, Gesù si riferirebbe alla fede concreta degli apostoli in quel momento, una fede, sì, piccola e simile a un granellino, ma sempre efficace per la sua forza intima. Sta di fatto che – sia come riferimento alla situazione presente dei discepoli, sia come appello generale ideale – la frase è una celebrazione della grandezza e della potenza della fede.
Pubblicato il 05 aprile 2013 - Commenti (2)
20 mar
Parabola dell’amministratore disonesto di Marinus van Reymerswaele (ca. 1493-1567). Vienna, Kunsthistorisches Museum.
"Il padrone lodò
quell'amministratore disonesto
perchè aveva agito
con scaltrezza"
(Luca 16,8)
Parabola un po’ ardua e sconcertante
quella che Luca propone nel capitolo
16 del suo Vangelo. Di scena è uno dei
tanti personaggi corrotti e furbi che popolano anche le cronache dei nostri giorni. Si tratta di un amministratore che aveva mal gestito il patrimonio di un’azienda e che viene alla fine scoperto, rischiando il licenziamento.
Di fronte all’incubo di perdere lo
status
sociale acquisito, egli ricorre a un meccanismo finanziario che lo penalizza temporaneamente, ma che gli permette di sanare i bilanci e
di mantenere l’incarico.
ll dispositivo adottato è un po’ complesso
da spiegare perché è legato all’economia e alla società di allora.
Gli amministratori non
erano direttamente retribuiti, ma si ritagliavano un compenso sulle transazioni che
compivano.
Così, se ad esempio dovevano
vendere cinquanta barili d’olio (18 ettolitri),
per compensare anche sé stessi ne facevano
figurare persino il doppio (36 ettolitri, pro-
dotti da circa 140 ulivi); su ottanta “misure”
di grano ne fatturavano cento (550 quintali
circa, derivanti da 42 ettari di terreno), così
da assicurarsi una lauta retribuzione.
Ebbene, per mettere i conti in ordine ed evitare
contestazioni da parte del padrone insoddisfatto dell’operato del suo dipendente, a causa del carico fin usurario che egli aveva imposto ai clienti, l’amministratore ritorna alla vera quantità elargita e, quindi, sulle ricevute
segna solo cinquanta barili e ottanta misure.
Rinuncia, così, al proprio guadagno pur di
salvare il posto e non retrocedere a mero
bracciante o, peggio, ridursi sul lastrico.
Vedendo la mossa del suo intendente,
il padrone resta ammirato della prontezza con
cui ha sanato la situazione.
Ed è proprio qui
che scatta l’applicazione fatta da Gesù. È indubbio che quell’amministratore è un mascalzone – e questo non può certo essere oggetto di imitazione –, ma egli rivela che, quando si è in una situazione estrema e grave, si
deve afferrare l’unica tavola di salvezza, anche a costo di una penalizzazione dei propri
interessi. Ecco, allora, l’amara conclusione di
Cristo: «I figli di questo mondo verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce» (16,8).
Purtroppo – fa capire Gesù – “i figli della luce”, cioè
le persone normali e oneste, sono
spesso più lenti e meno pronti a compiere il
bene
e soprattutto a cogliere le occasioni che
Dio presenta sulla loro strada. Cristo in particolare pensa al fatto di tanti suoi uditori che non
capiscono l’urgenza di una decisione netta e
forte nel seguire la sua parola. Anche l’omissione e l’inerzia sono un peccato: «Peccare», scriveva Pier Paolo Pasolini, «non è solo non fare il
male, ma anche non fare il bene».
Pubblicato il 20 marzo 2013 - Commenti (3)
12 mar
Gesù appare ai discepoli , vetrata, St. Mildred, Tenterden (Kent).
"Se uno viene a me
e non odia suo padre, sua
madre...e persino
la propria vita,
non può essere
mio discepolo"
(Luca 14,26)
Ma è mai possibile che quel Gesù, «mi-
te e umile di cuore» che invitava a
porgere l’altra guancia, al perdono
senza riserve, all’amore come legge fonda-
mentale e primo Comandamento, ci esorti
– per essere suoi discepoli – a “odiare” pa-
dre, madre, moglie, figli, fratelli, sorelle e
persino sé stessi? È significativo che l’evan-
gelista Matteo abbia riferito questa frase di
Cristo secondo una modalità ben differente:
«Chi ama padre o madre più di me, non è de-
gno di me; chi ama figlio e figlia più di me,
non è degno di me» (10,37).
La spiegazione di quella affermazione così
sconcertante di Gesù è da cercare nel
sotto-
fondo linguistico che talvolta affiora nel
dettato greco dei Vangeli.
Come è noto, al
di là di qualche ipotesi avanzata riguardo
all’opera di Matteo, è indubbio che la stesura
dei Vangeli – specialmente quello di Luca
che rivela un greco abbastanza raffinato – è
avvenuta in quella lingua che allora domina-
va nell’impero romano, quasi un po’ come
accade ai nostri giorni per l’inglese. Tuttavia,
quegli scritti rivelano spesso in filigrana la
matrice della lingua originaria dei loro autori o almeno riflettono la loro formazione e,
in particolare per le frasi di Gesù, l’originale
aramaico con cui egli si esprimeva.
Ora, in ebraico e aramaico non si ha il comparativo, ma si usano solo le forme assolute. Così,
per dire “amare meno” si adotta
l’estremo opposto all’“amare”, cioè l’“odia-
re”.
Il senso della frase, tanto forte ai nostri
orecchi, in realtà vuole più pacatamente affermare quanto propongono alcune versioni
moderne, come quella della Conferenza episcopale italiana che traduce il nostro versetto in questo modo, sulla scia del parallelo di
Matteo:
«Se uno viene a me e non mi ama
più di quanto ami suo padre..., non può essere mio discepolo». Oppure si potrebbe anche
tradurre: «Se uno viene a me e mi ama meno
di quanto ami suo padre...».
In questa dichiarazione ritroviamo una
componente caratteristica della predicazione
e delle scelte di Gesù: la sua è una chiamata
che esige un impegno forte, un distacco da
tante abitudini, un orientamento radicale ver-
so di lui e il regno di Dio. Per esprimere questa esigenza egli non esita a ricorrere al paradosso: «Chi ama la propria vita, la perde e chi
odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna» (
Giovanni
12,25).
E i
discepoli impareranno che talora questa non
è solo un’espressione intensa di stile orienta-
le, ma è anche
una verità che si attua con la
testimonianza del martirio.
Sempre nella linea del paradosso sarà, invece, quest’altro episodio ricordato da Luca: «A uno Gesù disse: Seguimi! E costui rispose: Signore, permettimi
di andare prima a seppellire mio padre. Gesù
gli replicò: “Lascia che i morti seppelliscano i
loro morti; tu, invece, va’ e annuncia il regno
di Dio”» (9,59-60).
Pubblicato il 12 marzo 2013 - Commenti (3)
05 mar
La Pentecoste, Luis de Morales (1509-1586). Chiesa dell’Assunzione, Caceres, Spagna.
"Sono venuto a
gettare fuoco sulla
terra, e quanto
vorrei che fosse
già acceso"
(Luca 19,49)
Giovanni Battista aveva dichiarato: «Io
vi battezzo con acqua; ma viene colui
che è più forte di me, a cui non sono
degno di slegare i lacci dei sandali. Egli vi battezzerà
in Spirito Santo e fuoco» (Luca 3,16).
Gesù sembra raccogliere quell’annunzio con
la frase che ora proponiamo al nostro approfondimento,
anche perché essa continua così:
«Ho un battesimo nel quale sarò battezzato, e
come sono angosciato finché non sia compiuto!» (12,50). A questo punto vorremmo domandarci:
qual è mai questo «fuoco» che Cristo
vuole spandere sulla terra?
Una prima interpretazione è da cercare proprio
nell’immagine successiva del battesimo,
anticipata in qualche modo anche dal Battista.
Di per sé il termine “battesimo” deriva da
un verbo greco (bápto/baptízein) che letteralmente
significa una “immersione”, solitamente
nell’acqua, come avviene appunto nel rito
battesimale cristiano. Si può, tuttavia, pensare
a un’altra “immersione”, come quella che Gesù
sperimenterà con la sua sepoltura nella terra.
Si ha, così, un rimando alla morte e risurrezione
di Cristo: essa è simile a un’esplosione
di luce e di fuoco che trasforma l’umanità,
liberandola dalle scorie del male e rendendola
pura come in un crogiuolo.
Un’altra lettura di questo detto di Gesù
può essere collegata alle frasi ulteriori che
egli pronuncia, quando dichiara di essere «venuto
non a portare pace sulla terra ma divisione
» (12,51) e, subito dopo, descrive le tensioni
che l’adesione a lui crea nelle famiglie
ove «si divideranno padre contro figlio e figlio
contro padre, madre contro figlia e figlia
contro madre, suocera contro nuora e nuora
contro suocera» (12,53). Il fuoco è, dunque,
quello della sua parola che è simile a una spada
(Matteo 10,34) che lacera la superficie e
produce ferite, scopre segreti, devasta abitudini
consolidate. Sarebbe, quindi, una metafora
della vocazione cristiana che impone
una scelta ardente e radicale.
L’ingresso di Gesù nella storia causa, dunque,
uno stravolgimento perché egli è «un segno
di contraddizione», come aveva annunziato
il vecchio Simeone quando lo stringeva ancor
neonato tra le braccia (Luca 2,34). È come
se egli appiccasse un incendio che si espande
intaccando il «legno secco» (Luca 23,31) del
peccato, del vizio e del male. Ma, a conclusione,
potremmo anche allegare un’ultima interpretazione
che basiamo sulla seconda opera
di Luca, gli Atti degli apostoli.
Là, infatti, si descriveva la Pentecoste con
l’irruzione dello Spirito Santo la cui venuta
era stata a più riprese promessa da Cristo. Ebbene,
l’evangelista così tratteggiava
quell’evento: «Apparvero come lingue di fuoco
che si dividevano e si posarono su ciascuno
di loro [gli apostoli] e tutti furono colmati
di Spirito Santo» (Atti 2,3-4).
Lo Spirito Paraclito
è, dunque, simile a un fuoco, perché
arde nei cuori dei discepoli e li rende testimoni
coraggiosi e impavidi della fede. Sarebbe
questo il fuoco che Cristo starebbe per diffondere
sulla terra.
Pubblicato il 05 marzo 2013 - Commenti (2)
26 feb
Giona e Pistrice, ambone, XIII secolo, di Niccolò di Bartolomeo da Foggia. Mosaico del Duomo di Ravello.
"Come Giona fu un segno
per quelli di Ninive,
così il Figlio
dell'uomo lo sarà
per questa generazione"
(Luca 11, 30)
A tutti è nota la vicenda di Giona,
profeta renitente alla chiamata divina
che anziché recarsi a Ninive,
la detestata capitale nemica degli Assiri,
per annunciare la parola di Dio, s’imbarca
per l’antipodo, Tarshish, forse
l’odierna Gibilterra. Famosa, anche per
la ripresa nella storia dell’arte, è divenuta
la sua drammatica esperienza nel
ventre di un cetaceo e la successiva liberazione.
Siamo in presenza evidentemente
di una parabola che ha lo scopo
di esaltare l’apertura universalistica
(anche i pagani assiri possono convertirsi)
non di rado presente nella predicazione
profetica.
Gesù assume, dunque, il simbolo di
Giona, ma l’applicazione è diversa in Luca
rispetto a quella che ci offre Matteo.
Cominciamo da quest’ultima, che sembra
più vicina alle parole originarie pronunziate
da Gesù.
Se leggiamo il testo
matteano, abbiamo: «Come infatti Giona
rimase tre giorni e tre notti nel ventre
del pesce, così il Figlio dell’uomo resterà
tre giorni e tre notti nel cuore della
terra» (12,40). Al di là della formula «tre
giorni e tre notti» che è assunta solo per
esaltare il parallelo col passo del libro di
Giona (2,1), è evidente l’applicazione
del “segno di Giona” alla sepoltura e alla
risurrezione di Cristo.
Luca, invece, compara la predicazione
di Gesù a quella di Giona ai Niniviti, i
quali si convertirono «grandi e piccoli»
(Giona 3,5), a differenza dei contemporanei
di Cristo, rimasti indifferenti oppure
ostili: «Nel giorno del giudizio gli abitanti
di Ninive si alzeranno contro questa
generazione e la condanneranno, perché
essi alla predicazione di Giona si convertirono.
Ed ecco, qui vi è uno più grande
di Giona» (Luca 11,32).
Anche Matteo
(12,41) introduce questa applicazione secondaria;
ma per lui primaria rimane
quella “pasquale” sopra evocata, rispetto
a quella “missionaria” esaltata da Luca
in modo esclusivo.
Ancora una volta entra in scena un fenomeno
a cui abbiamo spesso accennato.
Le parole di Gesù non sono state asetticamente
custodite dalle comunità cristiane
originarie quasi fossero pietre preziose
da proteggere in uno scrigno.
Sono
state considerate, invece, come semi da
far fiorire nei vari terreni della predicazione.
A Luca, che scriveva ai cristiani di
matrice pagana, premeva di mostrare
l’esempio dei Niniviti, pagani come loro,
aperti alla parola divina.
Matteo, che pur conosce e presenta
questa interpretazione della frase di Gesù,
ne conserva la base originale ove
era la Pasqua di Cristo il cuore dell’annunzio.
In questo, tra l’altro, si rifletteva
la tradizione giudaica, nota sia a Gesù
sia a Matteo e al suo pubblico di lettori
di matrice ebraica.
Essa, infatti,
non era molto aperta all’universalismo
e – rileggendo Giona – non ne celebrava
tanto la predicazione ai pagani (a loro
un po’ sgradita), quanto piuttosto la
liberazione prodigiosa dal rischio di
morte nel ventre del grosso pesce. Anche
per questo era, quindi, più facile
l’applicazione della vicenda alla risurrezione
sia da parte di Gesù sia da parte
dei cristiani.
Pubblicato il 26 febbraio 2013 - Commenti (2)
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