Giona e Pistrice, ambone, XIII secolo, di Niccolò di Bartolomeo da Foggia. Mosaico del Duomo di Ravello.
"Come Giona fu un segno
per quelli di Ninive,
così il Figlio
dell'uomo lo sarà
per questa generazione"
(Luca 11, 30)
A tutti è nota la vicenda di Giona,
profeta renitente alla chiamata divina
che anziché recarsi a Ninive,
la detestata capitale nemica degli Assiri,
per annunciare la parola di Dio, s’imbarca
per l’antipodo, Tarshish, forse
l’odierna Gibilterra. Famosa, anche per
la ripresa nella storia dell’arte, è divenuta
la sua drammatica esperienza nel
ventre di un cetaceo e la successiva liberazione.
Siamo in presenza evidentemente
di una parabola che ha lo scopo
di esaltare l’apertura universalistica
(anche i pagani assiri possono convertirsi)
non di rado presente nella predicazione
profetica.
Gesù assume, dunque, il simbolo di
Giona, ma l’applicazione è diversa in Luca
rispetto a quella che ci offre Matteo.
Cominciamo da quest’ultima, che sembra
più vicina alle parole originarie pronunziate
da Gesù.
Se leggiamo il testo
matteano, abbiamo: «Come infatti Giona
rimase tre giorni e tre notti nel ventre
del pesce, così il Figlio dell’uomo resterà
tre giorni e tre notti nel cuore della
terra» (12,40). Al di là della formula «tre
giorni e tre notti» che è assunta solo per
esaltare il parallelo col passo del libro di
Giona (2,1), è evidente l’applicazione
del “segno di Giona” alla sepoltura e alla
risurrezione di Cristo.
Luca, invece, compara la predicazione
di Gesù a quella di Giona ai Niniviti, i
quali si convertirono «grandi e piccoli»
(Giona 3,5), a differenza dei contemporanei
di Cristo, rimasti indifferenti oppure
ostili: «Nel giorno del giudizio gli abitanti
di Ninive si alzeranno contro questa
generazione e la condanneranno, perché
essi alla predicazione di Giona si convertirono.
Ed ecco, qui vi è uno più grande
di Giona» (Luca 11,32).
Anche Matteo
(12,41) introduce questa applicazione secondaria;
ma per lui primaria rimane
quella “pasquale” sopra evocata, rispetto
a quella “missionaria” esaltata da Luca
in modo esclusivo.
Ancora una volta entra in scena un fenomeno
a cui abbiamo spesso accennato.
Le parole di Gesù non sono state asetticamente
custodite dalle comunità cristiane
originarie quasi fossero pietre preziose
da proteggere in uno scrigno.
Sono
state considerate, invece, come semi da
far fiorire nei vari terreni della predicazione.
A Luca, che scriveva ai cristiani di
matrice pagana, premeva di mostrare
l’esempio dei Niniviti, pagani come loro,
aperti alla parola divina.
Matteo, che pur conosce e presenta
questa interpretazione della frase di Gesù,
ne conserva la base originale ove
era la Pasqua di Cristo il cuore dell’annunzio.
In questo, tra l’altro, si rifletteva
la tradizione giudaica, nota sia a Gesù
sia a Matteo e al suo pubblico di lettori
di matrice ebraica.
Essa, infatti,
non era molto aperta all’universalismo
e – rileggendo Giona – non ne celebrava
tanto la predicazione ai pagani (a loro
un po’ sgradita), quanto piuttosto la
liberazione prodigiosa dal rischio di
morte nel ventre del grosso pesce. Anche
per questo era, quindi, più facile
l’applicazione della vicenda alla risurrezione
sia da parte di Gesù sia da parte
dei cristiani.
Pubblicato il 26 febbraio 2013 - Commenti (2)