24
nov

Non addormentatevi!

Riposo dei cavatori di Baccio Maria Bacci (1888-1974). Firenze, Galleria d'arte moderna.
Riposo dei cavatori di Baccio Maria Bacci (1888-1974). Firenze, Galleria d'arte moderna.

" Vegliate!
Non sapete
quando il padrone
di casa ritornerà:
se a sera
o a mezzanotte.
Giungendo
all'improvviso,
non vi trovi
addormentati! 
"
(Marco 13,35-36)

Lunga più del giorno sembra la notte, con le sue tenebre. Lo sa bene il sofferente insonne, come confessa Giobbe: «Notti di ansia mi sono ormai riservate. Se mi corico, dico: Quando è ora di alzarsi? La notte è sempre più lunga e io sono stanco di rigirarmi fino all’alba» (7,3-4). Isaia, come è noto, ha “sceneggiato” dal vivo questa estensione soffocante attraverso il dialogo di due sentinelle: «Sentinella, quanto resta della notte? Sentinella, quanto resta della notte? L’altra sentinella risponde: Viene il mattino, ma poi ancora la notte... » (21,11-12). Per questo era invalso l’uso di dividere l’arco della notte in “veglie”, in pratica in turni di guardia.

Gli Ebrei ne contavano tre di quattro ore ciascuna. Marco, invece, nel frammento dall’atmosfera molto tesa che abbiamo proposto, adotta il sistema di computo in vigore presso i Romani. Essi suddividevano la notte in quattro “veglie” di tre ore: si iniziava con la «sera», in greco opsé, a cui subentrava la «mezzanotte» (mesonýktion); si sentiva poi il «canto del gallo» (alektorofonía) ed ecco, infine, l’alba, il proí. Gesù, però, introduce su questa sequenza temporale un bozzetto narrativo. Siamo in un palazzo, il padrone è andato lontano, ma ormai è sulla via del ritorno. Ignota e imprevedibile è la durata della “veglia” notturna al termine della quale il signore si presenterà al portone. I servi devono, quindi, “vegliare”.

Questo verbo ricorre in apertura alla scenetta: «Vegliate», in greco gregoréite! E ritorna anche nell’appello-applicazione finale che Gesù fa al quadretto delineato: «Quello che dico a voi, lo dico a tutti: gregoréite, vegliate! » (13,37). Appare, così, una dimensione significativa della predicazione di Gesù, quella dell’urgenza per una scelta da compiere: «Tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo» (Matteo 24,44). Spesso nella predicazione attorno a questo passo evangelico si fa riferimento alla morte, che è un ospite che non s’annuncia. In realtà, Gesù rimanda al suo passaggio che avviene nella storia e nel presente e che esige una decisione netta. Potremmo evocare un’altra mirabile scenetta, quella dipinta dall’Apocalisse: «Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me» (3,20).

In questa luce si intuisce come il sonno sia il segno dell’indifferenza, anzi, del rifiuto di un impegno serio e operoso. Se è vero che la tenebra è simbolo del male e del peccato, è evidente che chi si adagia nel suo grembo facendosi accogliere e cullare diventa «figlio delle tenebre», cioè succube dell’empietà e dell’immoralità. Continuerà san Paolo, commentando idealmente le parole di Cristo: «Voi, però, non siete nelle tenebre... perché siete figli della luce e del giorno. Noi non apparteniamo alla notte, né alle tenebre. Non dormiamo, allora, come gli altri, ma vegliamo e siamo sobri!» (1Tessalonicesi 5,4-6).

Ma l’Apostolo è convinto di una necessità che vale anche per i cristiani che si lasciano lambire dal torpore: «È ormai tempo di svegliarsi dal sonno, perché adesso la salvezza è vicina... La notte è avanzata, il giorno è vicino. Perciò gettiamo via le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce!» (Romani 13,11-12).

Pubblicato il 24 novembre 2011 - Commenti (1)
17
nov

Sono con voi tutti i giorni

Duccio di Buoninsegna (1260 ca.-1318), Maestà, cimasa, apparizione sul monte di Galilea. Siena, Museo dell’Opera Metropolitana
Duccio di Buoninsegna (1260 ca.-1318), Maestà, cimasa, apparizione sul monte di Galilea. Siena, Museo dell’Opera Metropolitana

" Andate e fate
discepoli tutti
i popoli...
Ecco, io sono con
voi tutti i giorni,
sino alla fine
del mondo
"
(Matteo 28,19-20)

Sono, queste, le ultime delle 18.278 parole greche di cui si compone il Vangelo di Matteo, gli ultimi dei suoi 1.070 versetti, nell’ultimo dei 28 capitoli. In quell’«io sono con voi» si può facilmente sentire un’eco dell’«Emmanuele, Dio-con-noi», che aveva aperto il Vangelo durante il racconto della nascita di Gesù (1,23). La scena che conclude lo scritto matteano è grandiosa e ha come fondale il «monte che Gesù aveva indicato» ai suoi discepoli, la cui fede è ancora vacillante («essi, però, dubitavano»). Sappiamo quanto caro all’evangelista sia il monte come simbolo evocativo di quell’altra montagna sacra, culla di Israele, il Sinai: non per nulla egli aveva ambientato il primo dei cinque discorsi di Gesù proprio su un monte di Galilea (5,1).

Ora i discepoli sono ancora in Galilea e davanti a loro non c’è più soltanto quel maestro che aveva vissuto, mangiato e parlato con loro, ma il Risorto, e questo non è più un semplice incontro ma una “cristofania”, cioè un’apparizione pasquale, un’epifania di “missione” (28,16-20). Infatti, le parole che Cristo destina a questi undici apostoli titubanti («essi dubitavano», annota infatti l’evangelista) sono un vero e proprio programma missionario che si distenderà nei secoli interpellando tutta la Chiesa. In questo impegno non appare solo il sacramento dell’iniziazione cristiana, quello dell’ingresso nella fede pasquale, ossia il Battesimo, ma anche l’insegnamento dei precetti di Cristo che regolano l’intera esistenza del fedele.

Ormai si configura anche l’apertura universalistica che valica le frontiere di Israele: «Fate discepoli [si noti questa espressione che è ben diversa da un semplice “ammaestrare”, come talora si traduce] tutti i popoli». Si professa anche la fede trinitaria: il Battesimo è amministrato «nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo». Si proclama – evocando un passo del profeta Daniele (7,14) – la signoria cosmica di Cristo, il Pantokrator, come dirà la tradizione greca successiva, cioè il sovrano di tutto l’essere: «A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra». Ecco, infine, quella promessa di essere sempre con noi ogni giorno, sino alla meta finale dell’aiôn, un termine greco che di per sé rimanda al tempo storico ma anche a ciò che è in esso, vale a dire il mondo e l’umanità. L’idea è, quindi, diversa rispetto a una pura e semplice «fine del mondo». Si tratta piuttosto della meta finale verso cui converge la storia della salvezza; è il fine più che la fine, è un approdo di pienezza. Forse Matteo, le cui origini giudaiche affiorano ininterrottamente nelle sue pagine, allude alla ripartizione della storia in sette ère, suggerita dalla tradizione apocalittica.

Ciascuna di esse comprendeva un arco di mille anni, cifra ovviamente simbolica per evocare un’immensa distesa di tempo. Si ricalcavano, così, i sette giorni simbolici della creazione, come è descritta nel capitolo 1 della Genesi. Il Cristo risorto si erge, quindi, solenne su tutta la sequenza della storia che da Adamo giunge fino al momento estremo quando «Cristo sarà tutto in tutti» (Colossesi 3,11). Egli si leva, possente e glorioso come il Risorto dipinto da Piero della Francesca, sulla sua Chiesa che ora è solo «un piccolo gregge» di undici dubbiosi, ma che è destinata ad allargarsi al mondo. E domina anche su tutto il Vangelo di Matteo che ha celebrato «Gesù Cristo figlio di Davide, figlio di Abramo » (1,1), ma anche «Emmanuele, che significa Dio-con-noi» (1-23).

Pubblicato il 17 novembre 2011 - Commenti (1)
10
nov

Con l’acqua alla gola

Giona nella bocca della balena di Petrus Gilberti, inizio del XV secolo. Londra, British Library.
Giona nella bocca della balena di Petrus Gilberti, inizio del XV secolo. Londra, British Library.

" Le acque mi
hanno sommerso
fino alla gola,
l'abisso mi ha
avvolto,
l'alga si è avvinta
al mio capo...
Ma tu fai risalire
dalla fossa
la mia vita,
Signore, mio Dio!"


(Giona 2,6-7)

«Salvami o Dio, l’acqua mi giunge alla gola! Affondo in un abisso di fango, non trovo un appiglio, sto scivolando in acque profonde, travolto dalla corrente!». Così urla il Salmista (69,2-3), anticipando il grido di Giona che nel ventre del grosso pesce che l’aveva inghiottito, simile a una tomba, lanciava una supplica estrema a Dio, modulata appunto sui testi salmici e incastonata nel capitolo 2 di quel delizioso libretto. Esso è, come si intuisce dal ricorso al meraviglioso, una sorta di parabola che ha per protagonista un profeta, Giona, il cui nome in ebraico significa “colomba”, anche se in realtà egli è più simile a un falco a causa della sua chiusura mentale, ostile com’è all’apertura verso i nemici.

La colomba, tra l’altro, era l’animale sacro alla dea Ishtar, il cui santuario più acclamato era situato proprio a Ninive, la capitale dell’Assiria, alla quale il profeta era stato inviato in missione dal Signore. Il segno cuneiforme che indica questa città, tradizionale nemica di Israele, era quello della casa e del pesce. E il pesce, come è noto, è al centro del racconto, trasformato dalla tradizione popolare in una balena, accolta anche dal Pinocchio di Collodi. In realtà, il pesce mostruoso – si pensi al Leviatan del libro di Giobbe (40,25-41,26) – è simbolo del mare, del caos acquatico che attenta alla vita, e quindi è segno anche del giudizio divino.

Il profeta, renitente alla chiamata divina che lo vorrebbe inviare a predicare proprio a Ninive, si imbarca su una nave diretta all’antipodo, cioè a Tarsis, forse l’attuale Gibilterra o la Sardegna. Non manca neppure un pizzico d’ironia quando si descrive Giona, ignaro della tempesta che si è scatenata, mentre russa pacificamente; al contrario, i marinai pagani «pieni di timore verso il Signore, offrono sacrifici e voti» (1,16) perché egli plachi il fortunale marino. La storia dell’arte si è impossessata di questa narrazione affascinante, rielaborandola in mille forme, spesso sulla scia dell’applicazione fatta da Gesù che, dalla permanenza di tre giorni del profeta nel ventre del pesce, aveva tratto «il segno di Giona», simbolo del sepolcro pasquale e della sua risurrezione (Matteo 12,39-40).

Ma il libretto biblico vuole illustrare un’altra tesi: è l’invito a spezzare il guscio dell’integralismo e a condividere l’universalismo della misericordia divina che abbraccia anche il tradizionale nemico di Israele, l’Assiria idolatra e persecutrice. Giona controvoglia è costretto a predicare la conversione ai Niniviti e con irritazione ne scopre l’esito positivo perché quei pagani si pentono e cambiano vita, mentre il profeta sperava in un’ostinazione che avrebbe scatenato il giudizio divino. Con amarezza giunge al punto di criticare un Dio troppo «misericordioso e clemente, longanime e di grande amore, che si lascia impietosire dopo aver minacciato il giudizio» (4,2).

Alla fine, attraverso una parabola, quella del ricino e del verme – che invitiamo a leggere nel capitolo 4 del libro –, il Signore interpella e ammonisce questo profeta ottuso e chiuso nelle sue idee (e tutti coloro che sono simili a lui) con un interrogativo che suggella il racconto: «Giona, tu ti dai pena per questa pianta di ricino [seccata e che non ti ripara più dal caldo]... E io non dovrei aver pietà di Ninive, la grande città, nella quale vi sono più di centoventimila abitanti... e una grande quantità di animali?» (4,10-11).

Pubblicato il 10 novembre 2011 - Commenti (2)
03
nov

La pagliuzza e la trave

Un fariseo, miniatura. Londra, British Library
Un fariseo, miniatura. Londra, British Library

" Perchè guardi
la pagliuzza
che è nell'occhio
del tuo fratello
e non ti accorgi
della trave che è
nel tuo occhio?"

(Luca 6,41)

«Un discepolo si era macchiato di una grave colpa. Tutti gli altri reagirono con durezza condannandolo. Il maestro, invece, taceva e non reagiva. Uno dei discepoli non seppe trattenersi e sbottò: “Non si può far finta di niente dopo quello che è accaduto! Dio ci ha dato gli occhi!” Il maestro, allora, replicò: “Sì, è vero, ma ci ha dato anche le palpebre!”». Siamo partiti da lontano, con questo apologo indiano, per commentare una delle frasi più celebri del Vangelo, dedicata alla falsa correzione fraterna.

Sappiamo, infatti, che lo stesso Gesù suggerisce di «ammonire il fratello se commette una colpa contro di te» (si legga il paragrafo di Matteo 18,15-18). Ma è inesorabile contro gli ipocriti che correggono il prossimo per esaltare sé stessi e, anche in questo caso, è difficile trovare una più incisiva lezione rispetto a quella che ci è offerta dalla parabola del fariseo e del pubblicano (Luca 18,9-14). In tutti gli ambienti, anche in quelli ecclesiali, ci imbattiamo in questi occhiuti e farisaici censori del prossimo, ai quali non sfugge la benché minima pagliuzza altrui, sdegnati forse perché la Chiesa è troppo misericordiosa e, a loro modo di vedere, troppo corriva.

Si ergono altezzosi, convinti di essere investiti da Dio di una missione, consacrati al servizio della verità e della giustizia. In realtà, essi si crogiolano nel gusto sottilmente perverso di sparlare degli altri e si guardano bene dall’esaminare con lo stesso rigore la loro coscienza, inebriati come sono del loro compito di giudici. Ecco, allora, l’accusa netta di Gesù: guarda piuttosto alla trave che ti acceca! «Togli prima la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio di tuo fratello» (6,42). E poche righe prima, in questo che gli studiosi hanno denominato il “Discorso della pianura” (parallelo al “Discorso della montagna” di Matteo), egli aveva ammonito: «Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati; perdonate e sarete perdonati!» (6,37).

Purtroppo, dobbiamo tutti confessare che questo piacere perverso di spalancare gli occhi sulle colpe del prossimo è una tentazione insuperabile che ci lambisce spesso. Quel racconto indiano che abbiamo citato in apertura è accompagnato da un paio di versi di un celebre e sterminato poema epico indiano, il Mahabharata, che affermano: «L’uomo giusto si addolora nel biasimare gli errori altrui, il malvagio invece ne gode». Bisogna riconoscere – come ribadiva l’umanista mantovano Baldesar Castiglione (1478-1529) nel suo trattato Il Cortegiano – che «tutti di natura siamo pronti più a biasimare gli errori che a laudar le cose bene fatte». Ritorniamo, comunque, a quel discorso di Gesù proposto dal Vangelo di Luca e riprendiamo un’altra frase che sia da suggello a questa nostra riflessione sull’ipocrisia: «Siate misericordiosi come il Padre vostro è misericordioso» (6,36).

Pubblicato il 03 novembre 2011 - Commenti (3)

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Autore del blog

Gianfranco Ravasi

Gianfranco Ravasi

Gianfranco Ravasi è un cardinale, arcivescovo cattolico e biblista italiano, teologo, ebraista ed archeologo.
Dal 2007 è presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, della Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa e presidente della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra.

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