Giona nella bocca della balena di Petrus Gilberti, inizio del XV secolo. Londra, British Library.
" Le acque mi
hanno sommerso
fino alla gola,
l'abisso mi ha
avvolto,
l'alga si è avvinta
al mio capo...
Ma tu fai risalire
dalla fossa
la mia vita,
Signore, mio Dio!"
(Giona 2,6-7)
«Salvami o Dio, l’acqua mi giunge alla
gola! Affondo in un abisso di
fango, non trovo un appiglio, sto
scivolando in acque profonde, travolto dalla
corrente!». Così urla il Salmista (69,2-3), anticipando
il grido di Giona che nel ventre del
grosso pesce che l’aveva inghiottito, simile a
una tomba, lanciava una supplica estrema a
Dio, modulata appunto sui testi salmici e incastonata
nel capitolo 2 di quel delizioso libretto.
Esso è, come si intuisce dal ricorso al
meraviglioso, una sorta di parabola che ha
per protagonista un profeta, Giona, il cui nome
in ebraico significa “colomba”, anche se
in realtà egli è più simile a un falco a causa
della sua chiusura mentale, ostile com’è
all’apertura verso i nemici.
La colomba, tra l’altro, era l’animale sacro alla
dea Ishtar, il cui santuario più acclamato era
situato proprio a Ninive, la capitale dell’Assiria,
alla quale il profeta era stato inviato in missione
dal Signore. Il segno cuneiforme che indica
questa città, tradizionale nemica di Israele, era
quello della casa e del pesce. E il pesce, come è
noto, è al centro del racconto, trasformato dalla
tradizione popolare in una balena, accolta anche
dal Pinocchio di Collodi. In realtà, il pesce
mostruoso – si pensi al Leviatan del libro di
Giobbe (40,25-41,26) – è simbolo del mare,
del caos acquatico che attenta alla vita, e
quindi è segno anche del giudizio divino.
Il profeta, renitente alla chiamata divina
che lo vorrebbe inviare a predicare proprio a
Ninive, si imbarca su una nave diretta all’antipodo,
cioè a Tarsis, forse l’attuale Gibilterra
o la Sardegna. Non manca neppure un pizzico
d’ironia quando si descrive Giona, ignaro
della tempesta che si è scatenata, mentre russa
pacificamente; al contrario, i marinai pagani
«pieni di timore verso il Signore, offrono
sacrifici e voti» (1,16) perché egli plachi il fortunale
marino. La storia dell’arte si è impossessata
di questa narrazione affascinante, rielaborandola
in mille forme, spesso sulla scia
dell’applicazione fatta da Gesù che, dalla permanenza
di tre giorni del profeta nel ventre
del pesce, aveva tratto «il segno di Giona»,
simbolo del sepolcro pasquale e della sua risurrezione
(Matteo 12,39-40).
Ma il libretto biblico vuole illustrare un’altra
tesi: è l’invito a spezzare il guscio dell’integralismo
e a condividere l’universalismo
della misericordia divina che abbraccia anche
il tradizionale nemico di Israele, l’Assiria
idolatra e persecutrice. Giona controvoglia è costretto
a predicare la conversione ai Niniviti e
con irritazione ne scopre l’esito positivo perché
quei pagani si pentono e cambiano vita, mentre
il profeta sperava in un’ostinazione che
avrebbe scatenato il giudizio divino. Con amarezza
giunge al punto di criticare un Dio troppo
«misericordioso e clemente, longanime e di
grande amore, che si lascia impietosire dopo
aver minacciato il giudizio» (4,2).
Alla fine, attraverso una parabola, quella
del ricino e del verme – che invitiamo a leggere
nel capitolo 4 del libro –, il Signore interpella
e ammonisce questo profeta ottuso e
chiuso nelle sue idee (e tutti coloro che sono
simili a lui) con un interrogativo che suggella
il racconto: «Giona, tu ti dai pena per questa
pianta di ricino [seccata e che non ti ripara
più dal caldo]... E io non dovrei aver pietà
di Ninive, la grande città, nella quale vi sono
più di centoventimila abitanti... e una grande
quantità di animali?» (4,10-11).
Pubblicato il 10 novembre 2011 - Commenti (2)