09 ago
Giudizio Finale (1289-93), particolare dei serafini, affresco di Pietro Cavallini (1240 ca.-1320 ca.). Roma, Santa Cecilia in Trastevere.
"Quanto a quel
giorno e a
quell'ora
nessuno lo sa, né
gli angeli
del cielo, né il
Figlio ma solo
il Padre".
(Matteo 24,36)
Partiamo da una domanda iniziale che i
discepoli rivolgono a Gesù. Egli, sostando
davanti al monumentale tempio gerosolimitano
eretto da Erode, aveva annunziato
la futura rovina di quell’edificio.
I discepoli,
allora, gli avevano chiesto: «Di’ a noi
quando accadranno queste cose e quale sarà
il segno della tua venuta e della fine del mondo
» (Matteo 24,3). È evidente che, nel loro quesito,
essi intrecciano eventi diversi tra loro: la
distruzione del tempio da parte dei Romani
nel 70, la nuova venuta di Cristo giudice della
storia e la fine del mondo. Si concentrano qui
alcuni interrogativi che hanno tormentato la
Chiesa delle origini e che hanno vari riflessi
nel Nuovo Testamento (si leggano, ad esempio,
le Lettere di Paolo ai Tessalonicesi o il libro
dell’Apocalisse o la Seconda Lettera di Pietro
nella finale del cap. 3 e così via).
Queste domande sono usate da Matteo come
cornice per il cosiddetto “discorso escatologico”,
il quinto e ultimo intervento ampio
di Gesù, presente nei capp. 24-25 di quel Vangelo.
Il termine “escatologico” è di matrice
greca e indica le “realtà ultime”, cioè la fine
della storia, ma anche il fine di tutto l’essere.
Non si tratta, infatti, di una dissoluzione
nel nulla ma di una redenzione, di una salvezza,
di una nuova creazione («cielo nuovo
e terra nuova», Apocalisse 21,1), comprendente
il giudizio divino discriminante tra bene e
male (si legga Matteo 25,31-46, una pagina
memorabile che vede Cristo protagonista di
questo atto ultimo della storia umana).
Il discorso escatologico di Cristo non vuole
descrivere i fenomeni fisici o gli eventi terminali
che sigleranno la fine del mondo, anche se in
apparenza le immagini usate sembrano inclinare
in questa linea.
In realtà, si tratta di simboli
desunti da una letteratura popolare nel
giudaismo di quei secoli, presente anche
nella Bibbia col libro di Daniele, e denominata
“apocalittica”. Il termine di genesi greca designa
una “rivelazione” (si pensi all’Apocalisse
di Giovanni): essa ha come meta l’apertura simbolica
del sipario sul destino ultimo dell’essere
e dell’esistere. Proprio perché essa si affaccia su
un ignoto tenebroso, questa letteratura ama segni,
visioni, scene che recano impresse sensazioni
di terrore o di indecifrabilità.
Cristo ricorre a questo apparato non per
elaborare previsioni su quell’evento estremo,
bensì per creare tensione e impegno
nei confronti del regno di Dio, già inaugurato
con la sua venuta ma destinato a raggiungere
una meta di pienezza futura, un po’ come
aveva fatto balenare nella parabola del
granello di senape che cresce fino a diventare
un albero (Matteo 13,31-32).
In questa luce
si comprende la frase sorprendente che abbiamo
ritagliato da quel discorso. A Gesù poco
interessa fare oroscopi sulla fine del mondo
oppure sugli antefatti storici: essi sono certamente
inseriti nel piano salvifico divino.
Egli, invece, nella sua esistenza storica e
umana si interessa solo di ciò che riguarda
la sua missione, ossia instaurare le basi del
regno di Dio, un progetto di salvezza, di liberazione,
di amore che fiorirà pienamente in
quell’eternità, destinata a subentrare «a
quel giorno e a quell’ora» della fine che il
Padre celeste ha disegnato nel suo piano generale
di creazione e di redenzione. In questa
frase di Gesù brilla, quindi, la sua umanità
reale e non fittizia.
La divinità, alla quale
egli partecipa come Figlio di Dio, sarà invece
svelata nella sua risurrezione e nel suo ritorno
al Padre.
Pubblicato il 09 agosto 2012 - Commenti (0)
17 mag
Alessandro Allori detto il Bronzino (1535-1607), Cristo e la cananea. Firenze, San Giovannino degli Scolopi.
"Non è bene prendere il pane
dei figli e gettarlo ai cagnolini!".
(Matteo 15,26)
Scena piuttosto inattesa, questa, descritta solo da Matteo (15,21-28) e Marco (7,24-30): essa presenta un Gesù molto duro, ai limiti dell’insensibilità, a tal punto che gli stessi discepoli devono intervenire, almeno per placare la donna che li sta seguendo e che reca con sé il suo dramma. Cristo si trova nel territorio di frontiera con l’attuale Libano e un’indigena cananea (o siro-fenicia) si aggrappa a lui, sulla base della sua fama di guaritore, implorando un suo intervento per la figlia malata.
Gesù all’inizio la ignora semplicemente («non le rivolse neppure una parola»). All’intercessione dei discepoli che vogliono liberarsi di questa presenza importuna, reagisce con un gelido “no”: «Non sono stato mandato se non alle pecore perdute della casa di Israele», ribadendo il primato dell’orizzonte ebraico nella sua missione, sulla scia dell’elezione di Israele. Ma la sua freddezza, sia pure motivata, non scoraggia la donna che gli urla: «Signore, aiutami!». E qui il nostro sconcerto raggiunge l’apice, sentendo Gesù replicarle in modo sferzante con un probabile proverbio quasi “razzista”: ai cani non si dà il pane destinato agli esseri umani!
È vero che nella frase si adotta il diminutivo più attenuato, kynária, “cagnolini”, ma è evidente l’appellativo spregiativo di “cani” riservato agli infedeli, cioè ai pagani, a causa della loro impurità religiosa e rituale, tipica di questi animali che già nell’Antico Testamento venivano usati come appellativo offensivo (“cani”) nei confronti dei prostituti maschi, presenti nei culti idolatrici. Ma quando il cuore di una madre soffre per la sua creatura, non conosce offese o limiti, e la sua replica è umile e coraggiosa al tempo stesso: «Eppure i cagnolini mangiano le briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni».
A questo punto Gesù è, per così dire, trasformato dall’esempio della donna straniera; potremmo quasi dire che riceve da lei una lezione di fede che egli esplicita, prima di concederle il dono tanto sospirato: «Donna, grande è la tua fede!». La confessione e la lode rivolte a questa madre pagana aprono idealmente le frontiere della salvezza oltre il popolo ebraico. L’unico requisito decisivo non è più l’etnia o la cultura ma la fede, come era accaduto anche nel caso del centurione romano che implorava a Gesù la guarigione di un suo servo: «In verità vi dico, in Israele non ho trovato nessuno con una fede così grande!» (Matteo 8,10).
Naturalmente questo comportamento di Gesù, da un lato, marca la sua reale umanità legata a una mentalità, a un linguaggio, a una sensibilità, a un’appartenenza. D’altro lato, però, esso dev’esser letto nella traiettoria della storia della salvezza che ha in Israele il punto di partenza. Dio entra in dialogo con l’umanità attraverso un popolo a cui consegna il suo messaggio e l’incarico di essere testimone nel mondo della sua salvezza.
È questo il tema dell’elezione, della promessa, dell’alleanza che lo stesso san Paolo, apostolo dei pagani, riconosce ed esalta (Romani cc. 9-11), criticando con i profeti la riduzione di questa missione da parte degli ebrei solo a privilegio o a motivo di orgoglio nazionalistico. In questa luce il nostro brano dev’essere interpretato riprendendo tra le mani un testo già da noi commentato, quando Gesù si era rivolto ai Dodici invitandoli inizialmente a «non andare fra i pagani... e a rivolgersi piuttosto alle pecore perdute della casa di Israele» (Matteo 10,5-6), ma infine esortandoli a «fare discepoli tutti i popoli» (28,19).
Pubblicato il 17 maggio 2012 - Commenti (2)
19 apr
Anima dannata, busto in cera di scuola lombarda, XVII secolo. Milano, Pinacoteca Ambrosiana.
"Qualunque peccato
o bestemmia
verrà
perdonata
agli uomini, ma
la bestemmia
contro lo Spirito
non verrà
perdonata"
(Matteo 12,31)
Questa frase di Gesù, già di sua natura
sorprendente, si fa quasi
sconcertante nel suo prosieguo
che suona così: «A chi parlerà contro il
Figlio dell’uomo, sarà perdonato; ma a
chi parlerà contro lo Spirito Santo, non
sarà perdonato, né in questo mondo né
in quello futuro» (12,32). Per sciogliere
l’imbarazzo di queste dichiarazioni partiamo
innanzitutto dalla realtà della “bestemmia”
che, nel linguaggio biblico,
ha un’accezione differente da quella
comune per noi. Il famoso comandamento:
«Non nominare il nome di Dio invano
», certo, indirettamente può essere
applicato alla bestemmia come imprecazione
infamante contro la divinità, ma il
suo valore primario va in ben altra direzione,
marcata da quell’ “invano”.
In ebraico il termine rimanda alla “vanità”
dell’idolo; quindi in causa è la degenerazione
della religione e l’arrogarsi da
parte dell’uomo di decidere a suo piacimento
quale sia il vero Dio, modellandolo
a proprio vantaggio e appropriandosi,
così, di una tipica qualità divina. Perciò
la «bestemmia contro lo Spirito» è un peccato
superiore a una semplice parolaccia
o insulto contro la divinità. È un attacco
radicale e consapevole alla realtà intima
e profonda di Dio rappresentata
dal suo Spirito. Non è un peccato di debolezza
come quello dell’adultera che
può pentirsi ed è perdonata da Cristo
(Giovanni 8,1-11). È, invece, una sfida cosciente
scagliata contro Dio.
È a questo punto che dobbiamo interpretare
l’applicazione successiva. Da un
lato, si afferma la possibilità di remissione
del peccato di negazione nei confronti
del Figlio dell’uomo. La giustificazione
è nel fatto che la sua dignità è per
così dire velata dalla sua apparenza
umana che può generare incertezza, sospetto
o reazione negativa. Si ricordi,
per esempio, la replica di Natanaele
all’apostolo Filippo che lo invitava a conoscere
Gesù di Nazaret: «Da Nazaret
può venire qualcosa di buono?» (Giovanni
1,46).
D’altro lato c’è, invece, l’atteggiamento
soprattutto degli scribi e dei farisei
che vedono gli atti gloriosi di Cristo, i
suoi miracoli, le liberazioni dal male demoniaco,
ma chiudono coscientemente
gli occhi della mente e del cuore,
perché il riconoscimento di questa “diversità”
di Gesù infrangerebbe il loro sistema
di potere e le loro elaborazioni teologiche.
Essi, dunque, negano l’evidenza
delle opere che lo Spirito di Dio manifesta
in Cristo: la «bestemmia contro lo Spirito
» è, allora, il rifiuto consapevole della
verità conosciuta come tale, è il rigetto
cosciente della parola e dell’opera di Gesù,
pur sapendola vera e santa, per proprio
interesse “blasfemo”.
In questa luce, è comprensibile la
conclusione logica: a costoro non è possibile
concedere il perdono «né in questo
mondo né il quello futuro», perché
manca il presupposto fondamentale
del pentimento e della confessione
della colpa. Essi si mettono fuori
dell’orizzonte della salvezza di propria
scelta. Il commento ideale a tale dichiarazione
di Gesù è in queste parole
di quella grandiosa omelia che è la Lettera
agli Ebrei: «Se pecchiamo volontariamente
dopo aver ricevuto la conoscenza
della verità, non rimane più alcun
sacrificio per quel peccato, ma soltanto
una terribile attesa del giudizio e
la vampa di un fuoco che dovrà divorare
i ribelli» (Ebrei 10,26-27).
Pubblicato il 19 aprile 2012 - Commenti (2)
17 nov
Duccio di Buoninsegna (1260 ca.-1318), Maestà, cimasa, apparizione sul monte di Galilea. Siena, Museo dell’Opera Metropolitana
" Andate e fate
discepoli tutti
i popoli...
Ecco, io sono con
voi tutti i giorni,
sino alla fine
del mondo "
(Matteo 28,19-20)
Sono, queste, le ultime delle 18.278 parole
greche di cui si compone il Vangelo di
Matteo, gli ultimi dei suoi 1.070 versetti,
nell’ultimo dei 28 capitoli. In quell’«io sono
con voi» si può facilmente sentire un’eco
dell’«Emmanuele, Dio-con-noi», che aveva
aperto il Vangelo durante il racconto della nascita
di Gesù (1,23). La scena che conclude lo
scritto matteano è grandiosa e ha come fondale
il «monte che Gesù aveva indicato» ai suoi
discepoli, la cui fede è ancora vacillante («essi,
però, dubitavano»). Sappiamo quanto caro
all’evangelista sia il monte come simbolo
evocativo di quell’altra montagna sacra, culla
di Israele, il Sinai: non per nulla egli aveva
ambientato il primo dei cinque discorsi di Gesù
proprio su un monte di Galilea (5,1).
Ora i discepoli sono ancora in Galilea e davanti
a loro non c’è più soltanto quel maestro
che aveva vissuto, mangiato e parlato
con loro, ma il Risorto, e questo non è più un
semplice incontro ma una “cristofania”, cioè
un’apparizione pasquale, un’epifania di
“missione” (28,16-20). Infatti, le parole che
Cristo destina a questi undici apostoli titubanti
(«essi dubitavano», annota infatti
l’evangelista) sono un vero e proprio programma
missionario che si distenderà nei secoli
interpellando tutta la Chiesa. In questo
impegno non appare solo il sacramento
dell’iniziazione cristiana, quello dell’ingresso
nella fede pasquale, ossia il Battesimo, ma
anche l’insegnamento dei precetti di Cristo
che regolano l’intera esistenza del fedele.
Ormai si configura anche l’apertura universalistica
che valica le frontiere di Israele: «Fate
discepoli [si noti questa espressione che è ben
diversa da un semplice “ammaestrare”, come
talora si traduce] tutti i popoli». Si professa anche
la fede trinitaria: il Battesimo è amministrato
«nel nome del Padre, del Figlio e dello
Spirito Santo». Si proclama – evocando un passo
del profeta Daniele (7,14) – la signoria cosmica
di Cristo, il Pantokrator, come dirà la
tradizione greca successiva, cioè il sovrano di
tutto l’essere: «A me è stato dato ogni potere
in cielo e sulla terra». Ecco, infine, quella promessa
di essere sempre con noi ogni giorno,
sino alla meta finale dell’aiôn, un termine greco
che di per sé rimanda al tempo storico ma
anche a ciò che è in esso, vale a dire il mondo
e l’umanità. L’idea è, quindi, diversa rispetto
a una pura e semplice «fine del mondo». Si
tratta piuttosto della meta finale verso cui
converge la storia della salvezza; è il fine
più che la fine, è un approdo di pienezza.
Forse Matteo, le cui origini giudaiche affiorano
ininterrottamente nelle sue pagine, allude
alla ripartizione della storia in sette ère, suggerita
dalla tradizione apocalittica.
Ciascuna di esse comprendeva un arco di
mille anni, cifra ovviamente simbolica per
evocare un’immensa distesa di tempo. Si ricalcavano,
così, i sette giorni simbolici della
creazione, come è descritta nel capitolo 1 della
Genesi. Il Cristo risorto si erge, quindi, solenne
su tutta la sequenza della storia che
da Adamo giunge fino al momento estremo
quando «Cristo sarà tutto in tutti» (Colossesi
3,11). Egli si leva, possente e glorioso come
il Risorto dipinto da Piero della Francesca,
sulla sua Chiesa che ora è solo «un piccolo
gregge» di undici dubbiosi, ma che è destinata
ad allargarsi al mondo. E domina anche su
tutto il Vangelo di Matteo che ha celebrato
«Gesù Cristo figlio di Davide, figlio di Abramo
» (1,1), ma anche «Emmanuele, che significa
Dio-con-noi» (1-23).
Pubblicato il 17 novembre 2011 - Commenti (1)
11 ago
El Greco (1541-1614): Il Salvatore, Toledo, Cattedrale.
"Dio nostro salvatore vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità.
(1 Timoteo 2,3-4)."
L’epistolario paolino si chiude con un fascicolo
di tre scritti omogenei che dal
Settecento si usa chiamare “Lettere pastorali”,
a causa del loro tema dominante e
dei loro destinatari, Timoteo e Tito collaboratori
dell’Apostolo. La loro originalità ha fatto
ipotizzare a molti esegeti biblici una mano diversa
rispetto a quella di Paolo, forse quella di
un discepolo: ad esempio, su un vocabolario
di 848 parole greche diverse che qui vengono
usate, ben 305 non si ritrovano mai nelle lettere
paoline classiche. Tuttavia, è anche possibile
che queste pagine testimonino un’evoluzione
nel pensiero e nello stile dell’Apostolo,
ormai giunto nell’ultima fase della sua esistenza
(si legga il suo bellissimo “testamento”
in 2Timoteo 4,6-8, che a suo tempo abbiamo
proposto in questa nostra rubrica).
Ora, dalla Prima Lettera indirizzata al discepolo
Timoteo – di sangue misto (padre greco e
madre ebrea) e fatto circoncidere da Paolo per
quieto vivere nei confronti della comunità
giudeo-cristiana – abbiamo estratto un passo
molto citato ed effettivamente di grande forza
tematica. A prima vista sembra essere la proclamazione
di una sorta di salvezza universale,
a prescindere dalle religioni, dalle scelte
personali, dalle situazioni contingenti, così da
riportare in vigore l’idea di un inferno vuoto.
In realtà, come è esplicitato nel testo e nel contesto,
l’Apostolo introduce due nodi capitali.
Innanzitutto egli sta parlando della “volontà”
di Dio, cioè del suo progetto che ha rivelato
a profeti e apostoli attraverso Cristo, un
piano che vorrebbe la salvezza di tutte le creature.
Come si legge nel libro del profeta Ezechiele:
«Forse che io ho piacere della morte
del malvagio – oracolo del Signore – o non
piuttosto che desista dalla sua condotta e viva?
» (18,23). Per questo egli offre con insistenza
la sua grazia, che è come una mano sicura
che strappa dalla palude del peccato l’uomo,
suo capolavoro (Geremia nel capitolo 18
della sua profezia e Paolo in Romani 9,21 usano
l’immagine del vasaio).
C’è, quindi,
un’azione divina che interviene efficacemente
sulla sua creatura e sulla sua storia.
Tuttavia, il Creatore non smentisce sé stesso,
cancellando con la sua potenza la libertà
che egli ha concesso all’umanità. Ecco perché
il progetto divino sa già che l’uomo può ribellarsi
e scegliere di procedere su un’altra via rispetto
a quella tracciata dal disegno di Dio. È
un po’ questa l’amarezza o, se si vuole, la delusione
di Dio che potremmo rappresentare
con le parole addolorate che Gesù rivolge a
Gerusalemme: «Quante volte ho voluto raccogliere
i tuoi figli, come una chioccia i suoi pulcini
sotto le ali, ma voi non avete voluto!» (Luca
13,34). Affermava Benedetto XVI nell’enciclica
Spe salvi: «Possono esserci persone che
hanno distrutto totalmente in sé stesse il desiderio
della verità e la disponibilità dell’amore...
È questo che si indica con la parola inferno
». Grazia divina e libertà umana devono,
quindi, incrociarsi per la salvezza.
Una seconda nota è da cercare nel contesto
ove si delinea la via sulla quale si compie
la salvezza. È quella «verità» che Dio vorrebbe
fosse conosciuta: «Uno solo è Dio e uno solo
è il mediatore tra Dio e gli uomini, l’uomo
Cristo Gesù, che ha dato sé stesso in riscatto
per tutti» (2,5-6). La via della salvezza è stata,
dunque, aperta da Cristo col suo sacrificio
liberatore e tutti – esplicitamente o su percorsi
del loro spirito e della loro vita che solo
Dio conosce – devono incamminarsi su questo
itinerario di salvezza e redenzione che ha
la meta luminosa della gloria, allorché «Dio
sarà tutto in tutti» (1Corinzi 15,28).
Pubblicato il 11 agosto 2011 - Commenti (2)
09 giu
Correggio (Allegri Antonio, 1489-1534), l'Incoronata, Parma, Galleria Nazionale.
"Il Signore è lo Spirito e dove c'è lo Spirito del Signore, c'è libertà. ”
(2Corinzi 3,17)
Questa volta scegliamo una frase incisiva,
quasi lapidaria, che san Paolo incastona
in una Lettera tormentata
com’è la Seconda ai Corinzi, destinata a una
comunità travagliata e un po’ ribelle che ha
fatto molto soffrire l’Apostolo. Una frase che
non è così semplice come appare a prima vista,
tant’è vero che non sono mancati discussioni e approfondimenti da parte degli esegeti biblici.
Infatti, a prima vista sembrerebbe
che si identifichino Cristo – che nell’epistolario
paolino è chiamato Kyrios, “Signore”
– e lo Spirito Santo, oppure lo stesso Dio Padre
con lo Spirito, se si accoglie l’uso delle Sacre
Scritture secondo l’antica versione greca
che rendeva il nome divino ebraico Jhwh con
Kyrios, “Signore”.
In realtà, se noi sfogliamo la Lettera, ci accorgiamo che san Paolo conosce e distingue la Trinità: «Dio stesso ci conferma in Cristo… e ci ha dato la caparra dello Spirito nei nostri cuori» (2Corinzi 1,21-22). E l’ultima riga della Lettera reca questo saluto, che ancor oggi noi usiamo nella liturgia: «La grazia del Signore nostro Gesù Cristo, l’amore di Dio e la comunione dello Spirito Santo siano con tutti voi» (13,13).
Qual è, allora, il senso della dichiarazione di san Paolo presente nel nostro frammento? Egli forse vuole solo esaltare il nesso profondo che intercorre tra Cristo e lo Spirito Santo: Cristo lo invia col Padre nella storia dell’umanità per svelare in pienezza la sua parola di salvezza. Oppure l’Apostolo assume il termine “Spirito” in senso più lato, indicando che in Cristo c’è l’epifania dello Spirito divino, cioè della presenza salvatrice di Dio.
Ed è per tale motivo che, dove irrompe questo Spirito del Signore, fiorisce la libertà. Questa parola è ormai sulle labbra di tutti ed è inflazionata e abusata. Come diceva il filosofo mistico indiano Sri Aurobindo (1872-1950), «tutto il mondo aspira alla libertà, e tuttavia ciascuna creatura è innamorata delle proprie catene».
Un altro autore, il poeta francese “rivoluzionario” Paul Eluard (1895-1952), confessava: «Sui miei quaderni di scolaro, / sul banco e sugli alberi, / sulla sabbia e sulla neve / scrivo il tuo nome, libertà; / su tutte le pagine lette, / su tutte le pagine bianche, / pietra sangue o cenere / scrivo il tuo nome». Certo, la libertà sociale e culturale è un cardine del vivere civile e i condizionamenti e le gabbie che la società ci impone sono un male che vìola l’opera del Creatore che ha voluto libera la creatura umana.
Ma il senso che la parola “libertà” in san Paolo o in san Giovanni («la verità vi farà liberi », ad esempio) è di impronta diversa, cioè religiosa e spirituale. Da un lato, è la liberazione dal peccato, dalle catene della colpa, dagli stessi legami della Legge che ci impone una cappa di piombo di precetti senza darci la forza di osservarli e, quindi, facendoci cadere nella trasgressione.
D’altro lato, in positivo, la libertà è invece l’adesione gioiosa alla parola di Dio che dà luce e gioia, è l’accoglienza della grazia divina la quale è come un abbraccio che ci solleva dal fango del peccato.
Il respiro dello Spirito del Signore ci apre, allora, orizzonti luminosi di libertà interiore. «Mandi il tuo Spirito, Signore, sono creati e rinnovi la faccia della terra», canta il Salmista (104,30). Ecco perché dobbiamo invocare lo Spirito Santo, principio di liberazione piena e di amore. Lasciamo ora la parola a una poetessa contemporanea, Elena Bono, e a pochi suoi versi: «Lo Spirito di Dio è una colomba bianca…/ Vieni su di noi, / prima che il vento disperda le polveri stanche / e i corvi ci abbiano divorati…».
Pubblicato il 09 giugno 2011 - Commenti (0)
19 mag
Vaso, colombe e uva, mosaico in San Vitale a Ravenna
"Io sono la via, la verità, la vita.
Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me."
(Giovanni 14,6)
«Preso il boccone, Giuda subito uscì.
Ed era notte...». Su Gerusalemme,
dunque, si stende il velo delle tenebre
e Giuda, il traditore – dopo aver partecipato
a quell’ultima cena durante la quale
Gesù gli aveva espresso un estremo gesto di
attenzione offrendogli il “boccone dell’ospite”,
segno di cordialità –, s’avvia di corsa per
le strade deserte della città santa a consumare
il suo tradimento. In quella «grande sala,
arredata e già apparecchiata, al piano superiore
» di una casa gerosolimitana (Marco
14,15), era salito Gesù con i suoi discepoli. Là
aveva celebrato la cena pasquale e poi, uscito
Giuda, aveva iniziato a parlare.
Quella sarebbe stata l’ultima sera della sua vita terrena. Le sue parole, perciò, acquistavano il sapore di un testamento. Giovanni, l’evangelista, ha rielaborato quei discorsi secondo uno stile che è stato chiamato “a ondate” perché, come accade ai flutti della risacca sul litorale che ricoprono lo stesso spazio in forme sempre diverse, così i temi dominanti, la fede e l’amore, ritornano ripetutamente su sé stessi, ma costantemente con tonalità e sfumature differenti. Facciamo solo due citazioni. L’una è per la fede, che è comunione con Cristo: «Io sono la vera vite, voi i tralci. Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può far frutto da sé stesso, se non rimane nella vite, così anche voi, se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci» (Giovanni 15,1.4-5).
L’altra citazione è sull’amore: «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così anche voi amatevi gli uni gli altri... Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi» (13,34; 15,12).
Ora, però, la nostra analisi si concentra sulla frase che abbiamo scelto e proposto. Gesù ha fatto balenare ai suoi amici ciò che lo attende, la morte e il successivo ingresso nell’orizzonte divino, promettendo che là avrebbe preparato un posto anche per loro. Tommaso, il “dubbioso”, gli obietta: «Signore, non sappiamo dove vai; come possiamo conoscere la via?». E la risposta di Cristo è in quella potente affermazione che abbiamo citato. Essa si apre con quell’«Io sono» che vale molto di più di una semplice copula verbale perché, come spesso avviene nel quarto Vangelo (si legga, ad esempio, Giovanni 8,58), si rimanda alla solenne autopresentazione di Dio nel roveto ardente al Sinai: «Io sono colui che sono» (Esodo 3,14).
A quella premessa gloriosa si collegano tre titoli che s’inanellano tra loro. Infatti, Cristo è «la via» per raggiungere il Padre proprio perché è «la verità», ossia la rivelazione perfetta del mistero di Dio. Attraverso lui, perciò, «conoscerete la verità che vi farà liberi » (8,32). I nostri passi avanzeranno verso quell’orizzonte di luce, guidati dalla parola di Gesù che è «verità».
Ma egli è anche «la vita» che non perisce, l’essenza stessa di Dio, ed è per questo che, stando uniti a lui in pienezza – appunto come i tralci al tronco della vite – noi saremo ammessi all’intimità vitale con Dio, il Padre, Signore della vita. Mettiamoci, allora, sulla strada che egli ci rivela e, stretti a lui, raggiungeremo la luce eterna e divina: «Io sono la luce del mondo; chi segue me non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita» (8,12).
Pubblicato il 19 maggio 2011 - Commenti (0)
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