26 feb
Giona e Pistrice, ambone, XIII secolo, di Niccolò di Bartolomeo da Foggia. Mosaico del Duomo di Ravello.
"Come Giona fu un segno
per quelli di Ninive,
così il Figlio
dell'uomo lo sarà
per questa generazione"
(Luca 11, 30)
A tutti è nota la vicenda di Giona,
profeta renitente alla chiamata divina
che anziché recarsi a Ninive,
la detestata capitale nemica degli Assiri,
per annunciare la parola di Dio, s’imbarca
per l’antipodo, Tarshish, forse
l’odierna Gibilterra. Famosa, anche per
la ripresa nella storia dell’arte, è divenuta
la sua drammatica esperienza nel
ventre di un cetaceo e la successiva liberazione.
Siamo in presenza evidentemente
di una parabola che ha lo scopo
di esaltare l’apertura universalistica
(anche i pagani assiri possono convertirsi)
non di rado presente nella predicazione
profetica.
Gesù assume, dunque, il simbolo di
Giona, ma l’applicazione è diversa in Luca
rispetto a quella che ci offre Matteo.
Cominciamo da quest’ultima, che sembra
più vicina alle parole originarie pronunziate
da Gesù.
Se leggiamo il testo
matteano, abbiamo: «Come infatti Giona
rimase tre giorni e tre notti nel ventre
del pesce, così il Figlio dell’uomo resterà
tre giorni e tre notti nel cuore della
terra» (12,40). Al di là della formula «tre
giorni e tre notti» che è assunta solo per
esaltare il parallelo col passo del libro di
Giona (2,1), è evidente l’applicazione
del “segno di Giona” alla sepoltura e alla
risurrezione di Cristo.
Luca, invece, compara la predicazione
di Gesù a quella di Giona ai Niniviti, i
quali si convertirono «grandi e piccoli»
(Giona 3,5), a differenza dei contemporanei
di Cristo, rimasti indifferenti oppure
ostili: «Nel giorno del giudizio gli abitanti
di Ninive si alzeranno contro questa
generazione e la condanneranno, perché
essi alla predicazione di Giona si convertirono.
Ed ecco, qui vi è uno più grande
di Giona» (Luca 11,32).
Anche Matteo
(12,41) introduce questa applicazione secondaria;
ma per lui primaria rimane
quella “pasquale” sopra evocata, rispetto
a quella “missionaria” esaltata da Luca
in modo esclusivo.
Ancora una volta entra in scena un fenomeno
a cui abbiamo spesso accennato.
Le parole di Gesù non sono state asetticamente
custodite dalle comunità cristiane
originarie quasi fossero pietre preziose
da proteggere in uno scrigno.
Sono
state considerate, invece, come semi da
far fiorire nei vari terreni della predicazione.
A Luca, che scriveva ai cristiani di
matrice pagana, premeva di mostrare
l’esempio dei Niniviti, pagani come loro,
aperti alla parola divina.
Matteo, che pur conosce e presenta
questa interpretazione della frase di Gesù,
ne conserva la base originale ove
era la Pasqua di Cristo il cuore dell’annunzio.
In questo, tra l’altro, si rifletteva
la tradizione giudaica, nota sia a Gesù
sia a Matteo e al suo pubblico di lettori
di matrice ebraica.
Essa, infatti,
non era molto aperta all’universalismo
e – rileggendo Giona – non ne celebrava
tanto la predicazione ai pagani (a loro
un po’ sgradita), quanto piuttosto la
liberazione prodigiosa dal rischio di
morte nel ventre del grosso pesce. Anche
per questo era, quindi, più facile
l’applicazione della vicenda alla risurrezione
sia da parte di Gesù sia da parte
dei cristiani.
Pubblicato il 26 febbraio 2013 - Commenti (2)
21 feb
Sano di Pietro (1406-1481), San Girolamo nel deserto. Parigi, Louvre (Scala).
"Quale padre tra
voi...se il figlio
gli chiede
un uovo,
gli darà
uno scorpione?"
(Luca 11, 11-12)
La frase completa di Gesù, che ora
prendiamo in considerazione, comincia
con un’immagine piuttosto
chiara per descrivere l’amore del Padre
celeste che si preoccupa dei suoi figli,
anche se non sempre come essi vorrebbero
a causa dei loro pensieri non del
tutto perfetti. Si ha, infatti, questa
espressione: «Quale padre tra voi, se il
figlio gli chiede un pesce, gli darà una
serpe al posto del pesce?».
L’immagine
ha un suo senso: l’anguilla, ad esempio,
assomiglia molto a una biscia, così
come molti pesci sottili e flessuosi evocano
la forma e il movimento delle serpi.
L’evangelista Matteo aggiunge a questa
un’altra figura, altrettanto coerente:
«Chi di voi, al figlio che gli chiede un
pane, darà una pietra?» (7,9). Un ciottolo
levigato e una pagnotta possono assomigliarsi.
Ma che senso ha, invece, il paragone
che Luca introduce tra un candido e rotondeggiante
uovo e un animaletto nerastro
com’è il nostro scorpione? Ebbene,
la risposta è ancora una volta, come
in altri casi, da cercare nell’ambiente
naturale in cui Gesù vive e parla.
Egli, infatti, ama evocare (e le sue parabole
ne sono una testimonianza illuminante)
pesci, pecore, cagnolini, uccelli,
serpi, avvoltoi, tarli, asini e altri elementi
del paesaggio in cui i suoi uditori
operano, naturalmente non fermandosi
alla zoologia, interessandosi anche
della botanica (semi, zizzania, grano,
viti, fichi, senapa, gigli, querce, canneti
e così via).
Ora, lo scorpione (’akrab in ebraico,
skorpíos in greco) è presente nella Terrasanta
e in Siria in una dozzina di specie
diverse dai vari colori, gialli, bruni, neri,
rossi, a strisce e soprattutto biancastri.
Questi ultimi, che possono raggiungere
anche i 15 centimetri di lunghezza,
quando s’arrotolano su sé stessi nascondendosi
nelle pietraie del deserto, assumono
appunto la forma di un piccolo
uovo e possono, perciò, trarre in inganno
e, quindi, colpire col loro aculeo velenoso,
che però non è mortale anche
se doloroso e fastidioso. Ecco, allora,
spiegata la comparazione di Gesù che
perde, in questo modo, la sua apparente
paradossalità o incongruenza.
A questo punto vorremmo aggiungere
l’applicazione del paragone che
è sorprendentemente diversa in Matteo
e Luca. Il primo evangelista, infatti,
più direttamente conclude: «Se voi,
che siete cattivi, sapete dare cose buone
ai vostri figli, quanto più il Padre
vostro che è nei cieli darà cose buone
a quelli che gliele chiedono» (Matteo
7,10). Luca, invece, ha: «...quanto più
il Padre vostro del cielo darà lo Spirito
Santo a quelli che glielo chiedono»
(11,13).
Ancora una volta si dimostra
come gli evangelisti non sono meri
verbalizzatori delle parole di Gesù, ma
cercano di scavarne e scovarne il senso
profondo e l’applicazione vitale:
ora, il dono dello Spirito Santo, che
trasforma l’intero essere del fedele,
non è forse la “cosa buona” per eccellenza?
Pubblicato il 21 febbraio 2013 - Commenti (4)
14 feb
Tintoretto (Jacopo Robusti, 1518-1594), anta d’organo con gli evangelisti Luca e Matteo. Venezia, Santa Maria del Giglio (Scala).
"Padre, sia
santificato
il tuo nome,
venga il
tuo regno..."
(Luca 11,2)
Tutti i cristiani conoscono a memoria la
preghiera che Gesù ha insegnato ai
suoi discepoli. Se, però, aprono il Vangelo
di Luca, anziché invocare il Padre celeste
con sette domande, si ritrovano a pregarlo
solo con cinque e non del tutto coincidenti
con le formule che essi ripetono nelle loro
orazioni o nella liturgia: «Padre, sia santificato
il tuo nome, / venga il tuo regno, / dacci
ogni giorno il nostro pane quotidiano, / e
perdona a noi i nostri peccati, anche noi infatti
perdoniamo a ogni nostro debitore, / e
non abbandonarci alla tentazione» (11,2-4).
Ebbene, noi conosciamo a memoria la
versione più ampia offerta dall’evangelista
Matteo (6,9-13): essa riflette probabilmente
un adattamento all’uso che già si faceva
della preghiera di Gesù nella comunità
cristiana delle origini e nella sua liturgia.
Questa variazione, che non intacca la
sostanza dell’orazione, è la conferma di
un elemento fondamentale per comprendere
i Vangeli. Essi, pur riferendo dati storici,
non sono manuali storiografici in senso
stretto, non sono biografie rigorose né
tanto meno verbali dei fatti o dei detti di
Cristo. Gli evangelisti assumono gli eventi
trasmessi dai testimoni (come accade per
Marco e Luca) o da loro stessi vissuti (come
nel caso di Matteo o Giovanni) e li ordinano
all’interno di una trama, riferiscono le
parole di Gesù adattandole al loro uditorio,
attualizzandole e incarnandole nei
nuovi contesti.
La loro è, dunque, una fedeltà duttile e la
loro finalità ultima non è tanto la ricostruzione
storica in senso accademico, ma l’annunzio
della storia della salvezza. Così, Matteo
incastona il Padre nostro nel Discorso della
Montagna, che raccoglie vari interventi
pronunziati da Gesù in momenti diversi e delinea
una sorta di minicatechismo sulla preghiera
(si legga il passo Matteo 6,5-9 che precede
il Padre nostro).
Luca, invece, fa fiorire il
“Padre” (egli ha solo l’invocazione nuda Páter
che sembra riflettere l’aramaico abba,
“babbo”, caro a Gesù) da una domanda di
uno dei discepoli, il quale chiede a Gesù una
preghiera distintiva per la sua comunità, così
come i discepoli del Battista o altri gruppi religiosi
del tempo si distinguevano proprio
per una loro preghiera-simbolo, simile a un
vessillo di riconoscimento.
Come si diceva, le cinque invocazioni di Luca
sono forse la forma originaria del Padre
nostro insegnata da Gesù, prima delle aggiunte
introdotte dall’uso comunitario e riferite
da Matteo. Luca, però, ha reso le invocazioni
più comprensibili nella loro formulazione
anche ai suoi interlocutori che erano cristiani
non di origine ebraica ma pagana.
È per
questo che leggiamo invece di «Rimetti a noi
i nostri debiti…», come si ha in Matteo, un
più chiaro «Perdona a noi i nostri peccati».
Nella lingua usata da Gesù, l’aramaico, i peccati
erano appunto chiamati hobáin, “debiti”
nostri nei confronti di Dio. La realtà profonda
della preghiera che Cristo ha voluto insegnarci
rimane, dunque, intatta anche nelle
” diversità redazionali degli evangelisti.
Pubblicato il 14 febbraio 2013 - Commenti (2)
07 feb
Cristo in casa di Marta di Giovanni da Milano (secolo XIV). Firenze, Santa Croce.
"Marta, Marta,
tu ti affanni
e ti agiti
per
molte cose...
Maria ha scelto
la parte migliore."
(Luca 10,41-42)
Gesù è accolto festosamente nella casa
di una famiglia amica: è una scena di
serenità e di pace che vari pittori hanno
voluto ricreare nelle loro tele, da Tintoretto
nel 1500 (Monaco) a Velázquez nel 1618
(National Gallery di Londra), da Vermeer nel
1653 (a Edimburgo), fino a Overbeck nel
1815 (a Berlino). È solo l’evangelista Luca
(10,38-42) a narrarci questo episodio che presenta
due donne, Marta e Maria, mentre Giovanni
introdurrà un’altra scena parallela ma
differente che vede ancora le due donne nello
stesso atteggiamento che tra poco descriveremo
(12,1-11).
Nella narrazione giovannea,
però, non solo si indica la località, Betania,
un sobborgo di Gerusalemme, ma si fa anche
emergere la figura del fratello Lazzaro, il
quale era stato oggetto di un intervento clamoroso
di Cristo: come si sa, egli l’aveva riportato
in vita (11,1-45).
Ma ritorniamo all’episodio descritto da Luca.
Ciò che accade entro quelle pareti è noto:
Marta funge da padrona di casa (non si cita
Lazzaro), ed è subito coinvolta nei calorosi riti
dell’ospitalità, una realtà molto sentita e
vissuta in Oriente. La sorella Maria, invece, si
intrattiene nell’ascolto dell’ospite.
Le parole che Gesù riserva a Marta, infastidita
per l’assenza di collaborazione della sorella,
hanno dato alla scena un valore simbolico,
interpretato dalla tradizione come
la raffigurazione di due modelli di vita, quella
attiva e impegnata nel sociale e quella
contemplativa e mistica. La prima sarebbe
stata svalutata dalla risposta di Gesù a scapito
della seconda.
Anche il poeta francese Paul Claudel, nel
suo dramma Lo scambio (1894), darà il nome
di Marta alla protagonista umile e laboriosa
facendone l’emblema della dedizione alla famiglia,
all’esistenza quotidiana, agli impegni
concreti. In realtà, le cose stanno diversamente
se si approfondisce il testo evangelico,
a partire dalle parole di Cristo che suonano
così: «Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per
molte cose, ma di una sola cosa c’è bisogno
[altri codici antichi hanno invece questo testo:
«ma c’è bisogno di poco, anzi di una sola
cosa»]. Maria ha scelto la parte migliore, che
non le sarà tolta».
Ebbene, di Marta nel racconto di Luca si diceva
che «era tutta presa», quasi «distolta» a
causa del servizio a cui si era totalmente dedicata.
Qui è la chiave per comprendere la puntualizzazione
di Gesù. Marta si è lasciata assorbire
completamente dalle cose esteriori.
Maria, invece, incarna il modello del discepolo
che, in qualsiasi contesto, è in ascolto della
Parola divina e tiene sempre la barra rivolta
verso «la parte migliore» e fondamentale.
Detto in termini generali, non è il lavoro in
sé che allontana da Dio e dallo spirito (Gesù
con tutto il suo predicare, guarire, incontrare,
ascoltare non era forse anche lui un “attivo”?),
bensì è l’alienazione nell’agire, è l’essere
catturati totalmente dalle cose, senza
più un atteggiamento interiore, implicito o
esplicito, rivolto verso Dio, una sorta di canale
intimo aperto verso di lui.
Pubblicato il 07 febbraio 2013 - Commenti (2)
04 feb
Entrata di Cristo in Gerusalemme, affresco, 1303-1304, di Giotto. Padova, cappella degli Scrovegni.
"Mentre stavano
compiendosi i giorni
in cui sarebbe stato
elevato in alto,
egli rese
duro il suo volto
incamminandosi verso
Gerusalemme."
(Luca 9,51)
Frase contorta e oscura, questa di
Luca, che noi abbiamo parzialmente
lasciata nel tenore greco originario.
Innanzitutto ricordiamo che qui
– stando alla struttura del terzo Vangelo
– inizia la lunga marcia che condurrà
Gesù alla città del suo destino terreno
finale e che occuperà quasi dieci capitoli
del racconto di Luca (da 9,51 a 19,28).
Viaggio, certo, geografico-spaziale, ma
anche simbolico-spirituale. L’evangelista
definisce fin dall’inizio la meta e la
esprime con una sola parola greca, análempsis,
da noi tradotta in modo esplicativo,
“essere elevato in alto”.
L’antica versione latina, la Vulgata di
san Girolamo, aveva semplicemente e
letteralmente dies assumptionis, cioè “i
giorni dell’assunzione/ascensione” del
Risorto, evento che Luca descrive sia in
finale al suo Vangelo (24,50-53), sia in
apertura alla sua seconda opera, gli Atti
degli Apostoli (1,6-11). Effettivamente
l’ascensione al cielo è un modo per rappresentare
la gloria della risurrezione;
l’umanità di Cristo ha avuto il suo svelamento
supremo nella morte e sepoltura;
la sua divinità si mostra nuovamente
nel suo splendore con l’“assunzione”
al cielo che è il segno dell’infinito
e dell’eterno di Dio.
L’evangelista Giovanni vede, però,
questa epifania divina del Figlio compiuta
già mentre egli è sulla croce: «Quando
sarò innalzato da terra, attirerò tutti a
me» (12,32; si leggano anche questi altri
passi giovannei: 3,16 e 8,28).
Perciò, possiamo
dire che la meta ultima dell’itinerario
di Gesù a Gerusalemme è sia il
Calvario, cioè la morte e risurrezione,
sia il monte degli Ulivi o dell’ascensione.
Per raggiungere questo punto terminale
decisivo nel quale si riveleranno in
pienezza l’umanità di Cristo e la sua divinità,
è necessaria da parte di Gesù una
scelta forte e radicale.
Essa è formulata nell’originale greco
di Luca con un’espressione curiosa: Gesù
«fece una faccia dura».
La locuzione, che è
un po’ simile alla nostra quando parliamo
di una “decisione ferrea”, riflette in
realtà il linguaggio profetico, in particolare
quello di Ezechiele che a più riprese
usa l’immagine del «fissare la faccia verso
Gerusalemme» (21,7), mentre il Signore
gli dichiara: «Ecco, io ti do una faccia indurita
quanto la loro faccia» (3,8).
Siamo, quindi, di fronte a una svolta
nella vita di Cristo: egli, sulla base della
profezia che è quasi la lampada che illumina
la sua missione, si avvia al compimento
della volontà del Padre con una
scelta determinata e cosciente.
Egli
non è vittima rassegnata di eventi esteriori
che lo superano e lo condizionano. Gesù
sa che, all’interno dei giochi di potere
che compongono la storia, si dipana un
progetto superiore del quale egli è protagonista.
Ed è Gerusalemme la città del
“compimento” di questo disegno di morte
e di vita, di sofferenza e di gloria, di male
e di redenzione, che egli accoglie e attua
con determinazione e fermezza.
Pubblicato il 04 febbraio 2013 - Commenti (0)
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