17
mag

I cagnolini

Alessandro Allori detto il Bronzino (1535-1607), Cristo e la cananea. Firenze, San Giovannino degli Scolopi.
Alessandro Allori detto il Bronzino (1535-1607), Cristo e la cananea. Firenze, San Giovannino degli Scolopi.

"Non è bene prendere il pane
dei figli e gettarlo ai cagnolini!
".


(Matteo 15,26)

Scena piuttosto inattesa, questa, descritta solo da Matteo (15,21-28) e Marco (7,24-30): essa presenta un Gesù molto duro, ai limiti dell’insensibilità, a tal punto che gli stessi discepoli devono intervenire, almeno per placare la donna che li sta seguendo e che reca con sé il suo dramma. Cristo si trova nel territorio di frontiera con l’attuale Libano e un’indigena cananea (o siro-fenicia) si aggrappa a lui, sulla base della sua fama di guaritore, implorando un suo intervento per la figlia malata.

Gesù all’inizio la ignora semplicemente («non le rivolse neppure una parola»). All’intercessione dei discepoli che vogliono liberarsi di questa presenza importuna, reagisce con un gelido “no”: «Non sono stato mandato se non alle pecore perdute della casa di Israele», ribadendo il primato dell’orizzonte ebraico nella sua missione, sulla scia dell’elezione di Israele. Ma la sua freddezza, sia pure motivata, non scoraggia la donna che gli urla: «Signore, aiutami!». E qui il nostro sconcerto raggiunge l’apice, sentendo Gesù replicarle in modo sferzante con un probabile proverbio quasi “razzista”: ai cani non si dà il pane destinato agli esseri umani!

È vero che nella frase si adotta il diminutivo più attenuato, kynária, “cagnolini”, ma è evidente l’appellativo spregiativo di “cani” riservato agli infedeli, cioè ai pagani, a causa della loro impurità religiosa e rituale, tipica di questi animali che già nell’Antico Testamento venivano usati come appellativo offensivo (“cani”) nei confronti dei prostituti maschi, presenti nei culti idolatrici. Ma quando il cuore di una madre soffre per la sua creatura, non conosce offese o limiti, e la sua replica è umile e coraggiosa al tempo stesso: «Eppure i cagnolini mangiano le briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni».

A questo punto Gesù è, per così dire, trasformato dall’esempio della donna straniera; potremmo quasi dire che riceve da lei una lezione di fede che egli esplicita, prima di concederle il dono tanto sospirato: «Donna, grande è la tua fede!». La confessione e la lode rivolte a questa madre pagana aprono idealmente le frontiere della salvezza oltre il popolo ebraico. L’unico requisito decisivo non è più l’etnia o la cultura ma la fede, come era accaduto anche nel caso del centurione romano che implorava a Gesù la guarigione di un suo servo: «In verità vi dico, in Israele non ho trovato nessuno con una fede così grande!» (Matteo 8,10).

Naturalmente questo comportamento di Gesù, da un lato, marca la sua reale umanità legata a una mentalità, a un linguaggio, a una sensibilità, a un’appartenenza. D’altro lato, però, esso dev’esser letto nella traiettoria della storia della salvezza che ha in Israele il punto di partenza. Dio entra in dialogo con l’umanità attraverso un popolo a cui consegna il suo messaggio e l’incarico di essere testimone nel mondo della sua salvezza.

È questo il tema dell’elezione, della promessa, dell’alleanza che lo stesso san Paolo, apostolo dei pagani, riconosce ed esalta (Romani cc. 9-11), criticando con i profeti la riduzione di questa missione da parte degli ebrei solo a privilegio o a motivo di orgoglio nazionalistico. In questa luce il nostro brano dev’essere interpretato riprendendo tra le mani un testo già da noi commentato, quando Gesù si era rivolto ai Dodici invitandoli inizialmente a «non andare fra i pagani... e a rivolgersi piuttosto alle pecore perdute della casa di Israele» (Matteo 10,5-6), ma infine esortandoli a «fare discepoli tutti i popoli» (28,19).

Pubblicato il 17 maggio 2012 - Commenti (2)
15
mar

La casa d’Israele

Mosè riceve le tavole della Legge e le mostra al popolo ebraico, Bibbia Moutier- Grandval, secolo XI. Londra, British Library.
Mosè riceve le tavole della Legge e le mostra al popolo ebraico, Bibbia Moutier- Grandval, secolo XI. Londra, British Library.

"Gesù ordinò
 ai Dodici:
 non andate
 tra i pagani
 e non entrate
 nelle città
 dei Samaritani.
 Rivolgetevi alle
 pecore perdute
 della casa
 d'Israele."
(Matteo 10,5-6)

Ordine paradossale questo che Cristo, nel secondo dei cinque discorsi che costellano il Vangelo di Matteo (discorso detto “missionario”) rivolge ai Dodici durante la loro prima missione, paradossale perché è smentito dall’incarico finale dello stesso testo evangelico quando il Risorto li esorterà così: «Andate e fate discepoli tutti i popoli» (28,19). Paradossale anche perché l’apostolo Paolo senza esitazione infrangerà il cerchio chiuso della «casa d’Israele» – una formula biblica per designare il popolo ebraico – e si rivolgerà proprio ai pagani e ripeterà che in Cristo «non c’è distinzione tra Giudeo e Greco, essendo lui lo stesso Signore di tutti» (Romani 10,12), «in lui Giudeo e Greco… barbaro o Scita sono uno in Cristo Gesù» (vedi Galati 3,28 e Colossesi 3,11).

Eppure, questa restrizione è applicata da Gesù a sé stesso: «Non sono stato mandato se non alle pecore perdute della casa d’Israele» (Matteo 15,24), e alla donna samaritana al pozzo di Giacobbe dichiara che «la salvezza viene dai Giudei» (Giovanni 4,22). Anche san Paolo sapeva che «Cristo è diventato servitore dei circoncisi per mostrare la fedeltà di Dio nel compiere le promesse dei padri» (Romani 15,8). Ecco, questa precisazione paolina è rilevante per sciogliere il paradosso presente nei testi che circoscrivono la missione di Gesù e dei Dodici a Israele.

Alla base c’è, infatti, una categoria fondamentale nella storia della salvezza, “l’elezione”. Per entrare in dialogo con l’umanità Dio sceglie un popolo come suo ambasciatore; deve, quindi, dargli un’investitura ufficiale che è appunto l’elezione. Essa passa inizialmente attraverso la promessa fatta ai patriarchi, a partire da Abramo; procede poi con Mosè e l’evento dell’esodo e del Sinai: «Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa» (Esodo 19,6). Infine, sarà Davide e la sua discendenza a condurre verso il futuro messianico la storia salvifica. In sintesi: «Al Signore tuo Dio appartengono i cieli, i cieli dei cieli, la terra e quanto essa contiene. Ma il Signore predilesse i tuoi padri, li amò e, dopo di loro, ha scelto fra tutti i popoli la loro discendenza, cioè voi» (Deuteronomio 10,14-15).

Ora, l’elezione non è un privilegio o una carica onorifica o l’attestazione di una superiorità etnica o socio-culturale (sappiamo quanto pericolosa sia l’etichetta di “popoli eletti”), tant’è vero che Mosè dichiara: «Il Signore si è legato a voi e vi ha scelti, non perché siete più numerosi di tutti gli altri popoli – siete infatti il più piccolo di tutti i popoli –, ma perché il Signore vi ama» (Deuteronomio 7,7-8). L’elezione è, dunque, un atto d’amore, è grazia ed è una missione. Israele dev’essere un annunciatore di Dio e della sua volontà di salvezza ai popoli della terra, un sacerdote fra le tribù del mondo, così come il sacerdote lo era all’interno delle sue tribù (è il «regno di sacerdoti» che sopra si è evocato).

In questa luce, Cristo è ancorato all’elezione di Israele, e la sua missione parte proprio da quel popolo, che è anche il suo, per allargare poi l’orizzonte a tutte le nazioni della terra. A questa traiettoria di apertura – che è quella della storia della salvezza – già l’Antico Testamento si era allineato con i vari passi universalistici che contiene (si leggano, per esempio, i libri di Giona e di Rut, Isaia 2,1-5; 19,24-25 e 56,6-7, Sofonia 3,9 e così via). Successivamente si inserirà la Chiesa, a partire dagli stessi apostoli, con la sua missione universale che ha in Paolo un vessillo simbolico.

Pubblicato il 15 marzo 2012 - Commenti (2)
22
dic

La stella e lo scettro

L’adorazione dei Magi, lastra marmorea della tomba di Severa (300 ca.) dalle catacombe di Priscilla a Roma. Vaticano, Museo Pio Cristiano.
L’adorazione dei Magi, lastra marmorea della tomba di Severa (300 ca.) dalle catacombe di Priscilla a Roma. Vaticano, Museo Pio Cristiano.

"Lo vedo,
ma non ora;
lo contemplo,
ma da lontano:
una stella spunta
da Giacobbe,
uno scettro sorge
da Israele".
(Numeri 24,17)

In un mondo in cui la magia raccoglieva sotto il suo manto molteplici espressioni spirituali, culturali e folcloristiche, la figura del mago Balaam – del quale si hanno tracce anche in testimonianze extrabibliche – aveva un rilievo particolare. Assegnato dal racconto del libro dei Numeri ora al popolo degli Aramei, ora a quello degli Ammoniti, Balaam incrocia la vicenda di Israele in marcia verso la terra promessa, dopo aver lasciato alle spalle l’oppressione egiziana. Questa massa di fuorusciti ha ormai raggiunto le steppe di Moab in Transgiordania. Battaglieri e pronti a tutto, accompagnati dalla fama di popolo protetto da un Dio potente, gli Israeliti seminano il panico tra gli indigeni moabiti e ammoniti.

Costoro decidono di ricorrere non tanto alle armi quanto piuttosto alla magia, e il re Balak di Moab interpella appunto Balaam perché, con le sue efficaci maledizioni, riesca ad arrestare questa orda di invasori. Ma ecco la grande sorpresa: con tutta la sua buona volontà, il mago non riesce a emettere se non benedizioni, divenendo paradossalmente un “profeta” di Israele, malgrado sé stesso, il suo desiderio e l’attesa del suo committente, il sovrano moabita. Il racconto dei capitoli 22-24 del libro dei Numeri è vivacissimo e, data la sua arcaicità, rivela anche qualche spunto favolistico, come quello dell’asina parlante la quale si schiera, anch’essa, dalla parte degli Ebrei (22,22-35).

Affidiamo ai nostri lettori l’impegno di seguire integralmente quella narrazione, soffermandosi soprattutto sui quattro oracoli di benedizione che Balaam pronunzia, in luogo delle attese maledizioni (23,7-10; 23,18-24; 24,3-9; 24,15-24). Nell’ultimo oracolo incontriamo il passo che proponiamo ora, un testo divenuto celebre per la rilettura messianica che ha subito nel giudaismo. Lo sguardo del mago-profeta si allunga verso un futuro ancora nebuloso e lontano e là egli intravede due segni, una stella e uno scettro, simboli regali.

La stella mattutina “Lucifero” era lo stemma ideale del re di Babilonia (Isaia 14,12). Ecco che la traduzione antica del nostro frammento ebraico nella lingua più popolare in epoca successiva, cioè l’aramaico, ha questa resa della prima immagine: «Un re spunta da Giacobbe». La stella si è trasformata in un sovrano, il re Messia. Così accadrà per Cristo, svelato ai Magi (ideali colleghi di Balaam) da una stella, e definito nell’Apocalisse «stella radiosa del mattino» (22,16). La luce, simbolo divino, accompagnerà anche il canto messianico di Isaia: «Il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una grande luce; su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse» (9,1).

Più immediato è il valore simbolico dello scettro, segno dell’autorità regale. Ma anche qui l’antica versione aramaica, riflettendo la tradizione giudaica, traduce invece di “scettro”: «Un messia sorge da Israele». Era ciò che balenava già nella benedizione che il patriarca Giacobbe aveva riservato alla tribù di Giuda dalla quale sarebbe nato Davide e, quindi, il re messianico: «Non sarà tolto lo scettro da Giuda né il bastone del comando tra i suoi piedi, finché verrà colui al quale esso appartiene e a cui è dovuta l’obbedienza dei popoli» (Genesi 49,10). Abbiamo, così, nelle parole di quel remoto mago d’Oriente un bagliore che anche i cristiani leggono, come gli Ebrei, quasi fosse il ritratto del Messia. Solo che per i cristiani quella stella e quello scettro rimandano a una persona precisa, Gesù Cristo, figlio di Maria, figlio di Dio.

Pubblicato il 22 dicembre 2011 - Commenti (2)
15
dic

Segno di contraddizione

Presentazione al tempio di Pietro Cavallini (1240 C.-1320 C.), Storie di Maria. Roma, Santa Maria in Trastevere.
Presentazione al tempio di Pietro Cavallini (1240 C.-1320 C.), Storie di Maria. Roma, Santa Maria in Trastevere.

"Egli è qui
per la caduta
e la risurrezione
di molti in Israele,
come segno
di contraddizione!
Anche a te
una spada
trapasserà
l'anima".
(Luca 2,34-35)

Un grande romanziere vittoriano inglese, Anthony Trollope (1815-1882), pone sulle labbra di un prete, mister Harding, protagonista dell’opera Il custode, le parole di Simeone, «uomo giusto e timorato di Dio», dopo aver capito che, vecchio e invalido, non potrà più suonare l’amato violoncello. Infatti, ne tocca le corde, ma riesce solo a trarne «un lagno bassissimo, di breve durata, a intervalli». Allora, «con un dolce sorriso» intona quel canto: «Signore, ora lascia che il tuo servo vada in pace!». In realtà, l’inno di Simeone, divenuto il noto Nunc dimittis del latino della liturgia serale della Compieta, non è un addio crepuscolare e malinconico, bensì un saluto festoso all’alba messianica che sta per schiudersi proprio in quel bambino che egli reca tra le braccia. 

La scena è negli occhi di tutti, anche attraverso le mille riprese dell’arte nei secoli. Simeone è là, nel tempio di Sion, come una presenza orante. Egli incarna la speranza messianica dell’Israele fedele ed è lo Spirito profetico a muoverlo verso quella modesta famigliola che è salita al santuario per adempiere alla legge biblica del riscatto del primogenito, consacrato al Signore secondo la norma codificata nel capitolo 13 del libro dell’Esodo. Le sue sono innanzitutto parole di lode e di benedizione a Dio per la felicità che gli ha concesso di poter accogliere il Messia: «Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo vada in pace... perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza » (Luca 2,29-30).

Ma subito dopo, sempre nello Spirito dei profeti, la sua voce si fa severa e si proietta verso la distesa della storia futura in un oracolo di giudizio e di salvezza. Quel bambino entrerà nell’umanità come un «segno di contraddizione », una sorta di spada – come dirà lo stesso Gesù (Luca 12,51) – che taglia di netto il flusso degli eventi e genera opposizione e persino il rigetto aggressivo. Anche se enfatica, com’era nel suo stile, è suggestiva la definizione che di Cristo ha formulato lo scrittore Giovanni Papini: «il più grande Rovesciatore, il supremo Paradossista, il Capovolgitore radicale e senza paura». L’umanità non potrà evitarne il confronto, per amarlo o per detestarlo. Ininterrottamente saremo costretti a rispondere a quella sua domanda: «Ma voi chi dite che io sia?» (Matteo 16,15).

L’oracolo di Simeone contiene, però, un altro messaggio indirizzato alla madre di Gesù. L’immagine della spada che trafigge l’anima di Maria è parallela alla lancia che trapassa il costato di suo Figlio crocifisso e darà origine alla popolare iconografia della Vergine addolorata col cuore trafitto da una o sette spade. Ma qual è il significato di quell’annunzio terribile? Anticamente alcuni scrittori cristiani, come Origene, pensavano alla spina della tentazione che si incuneava nella fede pura di Maria, di fronte alla croce: si ripeteva per lei la prova di Satana nei riguardi di Cristo. Altri giungevano al punto di ipotizzare anche per lei il martirio! In realtà, il senso è limpido ed è proprio nella stessa linea dell’annuncio rivolto al suo Bambino.

La madre sarà nel cuore della lotta pro e contro Cristo. Anche lei si troverà al centro di quella “contraddizione” ove si scontreranno i cuori. San Paolo è illuminante quando definisce la croce di Gesù come «scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani; ma anche potenza di Dio e sua sapienza per coloro che sono chiamati, Giudei e Greci» (1Corinzi 1,23-24). Maria sarà accanto al Figlio anche in quel momento supremo in cui, perdendolo nella morte, lo ritroverà nella Chiesa, corpo del Cristo glorioso, di cui diverrà madre.

Pubblicato il 15 dicembre 2011 - Commenti (3)
10
nov

Con l’acqua alla gola

Giona nella bocca della balena di Petrus Gilberti, inizio del XV secolo. Londra, British Library.
Giona nella bocca della balena di Petrus Gilberti, inizio del XV secolo. Londra, British Library.

" Le acque mi
hanno sommerso
fino alla gola,
l'abisso mi ha
avvolto,
l'alga si è avvinta
al mio capo...
Ma tu fai risalire
dalla fossa
la mia vita,
Signore, mio Dio!"


(Giona 2,6-7)

«Salvami o Dio, l’acqua mi giunge alla gola! Affondo in un abisso di fango, non trovo un appiglio, sto scivolando in acque profonde, travolto dalla corrente!». Così urla il Salmista (69,2-3), anticipando il grido di Giona che nel ventre del grosso pesce che l’aveva inghiottito, simile a una tomba, lanciava una supplica estrema a Dio, modulata appunto sui testi salmici e incastonata nel capitolo 2 di quel delizioso libretto. Esso è, come si intuisce dal ricorso al meraviglioso, una sorta di parabola che ha per protagonista un profeta, Giona, il cui nome in ebraico significa “colomba”, anche se in realtà egli è più simile a un falco a causa della sua chiusura mentale, ostile com’è all’apertura verso i nemici.

La colomba, tra l’altro, era l’animale sacro alla dea Ishtar, il cui santuario più acclamato era situato proprio a Ninive, la capitale dell’Assiria, alla quale il profeta era stato inviato in missione dal Signore. Il segno cuneiforme che indica questa città, tradizionale nemica di Israele, era quello della casa e del pesce. E il pesce, come è noto, è al centro del racconto, trasformato dalla tradizione popolare in una balena, accolta anche dal Pinocchio di Collodi. In realtà, il pesce mostruoso – si pensi al Leviatan del libro di Giobbe (40,25-41,26) – è simbolo del mare, del caos acquatico che attenta alla vita, e quindi è segno anche del giudizio divino.

Il profeta, renitente alla chiamata divina che lo vorrebbe inviare a predicare proprio a Ninive, si imbarca su una nave diretta all’antipodo, cioè a Tarsis, forse l’attuale Gibilterra o la Sardegna. Non manca neppure un pizzico d’ironia quando si descrive Giona, ignaro della tempesta che si è scatenata, mentre russa pacificamente; al contrario, i marinai pagani «pieni di timore verso il Signore, offrono sacrifici e voti» (1,16) perché egli plachi il fortunale marino. La storia dell’arte si è impossessata di questa narrazione affascinante, rielaborandola in mille forme, spesso sulla scia dell’applicazione fatta da Gesù che, dalla permanenza di tre giorni del profeta nel ventre del pesce, aveva tratto «il segno di Giona», simbolo del sepolcro pasquale e della sua risurrezione (Matteo 12,39-40).

Ma il libretto biblico vuole illustrare un’altra tesi: è l’invito a spezzare il guscio dell’integralismo e a condividere l’universalismo della misericordia divina che abbraccia anche il tradizionale nemico di Israele, l’Assiria idolatra e persecutrice. Giona controvoglia è costretto a predicare la conversione ai Niniviti e con irritazione ne scopre l’esito positivo perché quei pagani si pentono e cambiano vita, mentre il profeta sperava in un’ostinazione che avrebbe scatenato il giudizio divino. Con amarezza giunge al punto di criticare un Dio troppo «misericordioso e clemente, longanime e di grande amore, che si lascia impietosire dopo aver minacciato il giudizio» (4,2).

Alla fine, attraverso una parabola, quella del ricino e del verme – che invitiamo a leggere nel capitolo 4 del libro –, il Signore interpella e ammonisce questo profeta ottuso e chiuso nelle sue idee (e tutti coloro che sono simili a lui) con un interrogativo che suggella il racconto: «Giona, tu ti dai pena per questa pianta di ricino [seccata e che non ti ripara più dal caldo]... E io non dovrei aver pietà di Ninive, la grande città, nella quale vi sono più di centoventimila abitanti... e una grande quantità di animali?» (4,10-11).

Pubblicato il 10 novembre 2011 - Commenti (2)
20
ott

Il tempo del fidanzamento

Innamorati sotto un albero in fiore (1859) di John Callcott Horsley, Philadelphia Museum of Art, Filadelfia
Innamorati sotto un albero in fiore (1859) di John Callcott Horsley, Philadelphia Museum of Art, Filadelfia

" Mi ricordo di te,
dell'affetto della
tua giovinezza,
dell'amore
al tempo del tuo
fidanzamento,
quando mi seguivi
nel deserto,
in una terra
non seminata."
(Geremia 2,2)

«Enlil, le tue molte perfezioni fanno restare attoniti, la loro natura segreta è come una matassa arruffata che nessuno sa dipanare, è un arruffio di fili di cui non si trova il bandolo». È, questa, una strofa di un antichissimo inno sumerico dedicato al dio Enlil, il capo del pantheon di quella civiltà. Essa ben esprime una concezione della divinità per certi versi affine alla visione greca del Fato, un gorgo oscuro e misterioso che impera sugli stessi dèi, piegandoli a una logica indecifrabile. Anche uno dei “bellissimi nomi” di Allah è “l’inaccessibile” e – sia pure con una prospettiva teologica ben più alta – l’islam considera la divinità come invalicabile a ogni conoscenza intima, che non sia quella negativa («Dio non è come...»).

Su tutt’altra traiettoria si muove, invece, la Bibbia che non solo presenta il Signore come una persona che può dire: «Io sono», ma anche ne descrive i sentimenti, le passioni, l’amore. È il caso di questo stupendo soliloquio di Dio che ci ha lasciato Geremia: in esso brillano sia la tenerezza di una relazione tra due fidanzati, sia l’«affetto» profondo che li unisce. Il termine ebraico usato, hesed, rimanda infatti alla fedeltà amorosa che intercorre tra due innamorati, vincolati tra loro non da un obbligo legale, bensì da un patto d’amore. Nello stesso libro profetico si legge questa appassionata professione d’amore di Dio: «Ti ho amato di amore eterno, per questo ti conservo il mio affetto» (31,3).

C’è, però, una nota stonata da registrare. Il frammento geremiano da noi proposto è incastonato in un brano che in ebraico è detto rîb, ossia un “dibattimento processuale”, una “lite giudiziaria”. Sì, perché in realtà questa sposa, Israele, così amata, si è rivelata una donna infedele. Anzi, il profeta usa un’immagine durissima, “bestiale”: «Come una giovane cammella leggera e vagabonda, come asina selvatica, abituata al deserto, ansima nell’ardore della sua voglia: chi può frenare la sua brama?» (2,23-24). La metafora è esplicitata nella sua dimensione religiosa, quando questa sposa dichiara la sua scelta: «Io amo gli stranieri, voglio andare con loro!» (2,25). Gli amanti «stranieri» sono gli idoli. Come è evidente, la simbologia d’amore viene usata in tutte le sue iridescenze per descrivere l’esaltante e travagliato rapporto nuziale tra il Signore e il suo popolo.

Israele è «una donna infedele a chi la ama» (3,20), «è sfrontata come una prostituta che non arrossisce» (3,3), sta in attesa dei suoi clienti ai crocicchi delle strade «come fa l’arabo nel deserto» (3,2). Eppure, come dice il nostro frammento, Dio è pieno di nostalgia per il passato d’amore vissuto insieme nel deserto del Sinai. In verità, anche là Israele aveva tradito, ma il Signore sembra quasi scordare ogni infedeltà e alonare di luce quella fase antica, nella speranza di un futuro diverso, anche perché «egli non mantiene rancore per sempre né conserva in eterno la sua ira» (3,5). Ecco, allora, il ripetersi nel capitolo 3 – che fa parte sempre dello rîb o contesa tra Dio e Israele – per sette volte del verbo shûb, il “ritornare- convertirsi” (3,1.7.10.12.14.19.22). È il desiderio segreto anche del popolo peccatore, ma è soprattutto l’attesa insonne di Dio: «Ritorna, Israele ribelle, non ti mostrerò la faccia sdegnata perché io sono affettuoso e non conserverò per sempre l’ira» (3,12).

Pubblicato il 20 ottobre 2011 - Commenti (1)
08
set

Gli insegnavo a camminare e a mangiare

Vincent van Gogh, Primi passi, da Millet, 1890, New York, Metropolitan Museum of Art.
Vincent van Gogh, Primi passi, da Millet, 1890, New York, Metropolitan Museum of Art.

“ A Efraim io insegnavo a camminare,
 tenendolo per mano...

 Li attiravo a me con legami di bontà e vincoli d'amore. Ero come chi solleva un bimbo alla sua guancia, chinandomi su di lui per farlo mangiare."
(Osea 11,3-4)

Chi è genitore conosce bene la fatica e tutti gli stratagemmi che bisogna escogitare per convincere un bambino riottoso a mangiare un cibo necessario ma a lui sgradito, così come non ha certo dimenticato la pazienza che si deve esercitare quando s’insegna al proprio figlio a camminare. A ogni caduta bisogna subito ricorrere a un bacio o a una stretta per placare il piccolo che si abbandona a un pianto omerico e inconsolabile. È curiosamente questa la duplice scenetta che il profeta Osea (VIII secolo a.C.) desume dalla sua esperienza di padre e la applica al Signore che è alle prese con un figlio così capriccioso come Efraim, cioè Israele.

Non bisogna dimenticare che lo stesso profeta, nelle prime pagine del suo libro, era partito da un’altra sua esperienza familiare tutt’altro che rara ai nostri giorni – quella di un matrimonio in crisi – per rappresentare il rapporto tra Dio e il suo popolo, in questo caso incarnato dalla moglie infedele di Osea che lo aveva abbandonato lasciandogli da accudire tre figli. Suggeriamo, perciò, ai nostri lettori di seguire anche il racconto autobiografico che il profeta ci ha lasciato nei primi tre capitoli della sua opera. Là ci si imbatterà nel nome simbolico dei suoi tre figli, due maschi e una femmina.

A essi, infatti, Osea, consapevole di essere lui stesso nella sua vita un emblema per Israele, aveva assegnato tre nomi impossibili: Izreel, che era il toponimo di una città ove si erano consumati delitti pubblici e privati narrati dalla Bibbia (1Re 21; 2Re 20); Lo’-ruhamah, “Nonamata”, per la bambina; Lo-’ammî, “Non-miopopolo”, per il terzo maschietto. Nomi che incarnavano sia il peccato del popolo, sia il rigetto che il Signore aveva compiuto nei suoi riguardi. Naturalmente, una volta che Dio e Israele si fossero riconciliati, come il profeta sognava nei confronti di sua moglie Gomer, i tre nomi sarebbero stati trasformati: Izreel avrebbe riacquistato il suo significato etimologico positivo di “seme di Dio”, cioè fecondo, e gli altri due figli sarebbero diventati Ruhamah, “Amata”, e ’Ammî, “Popolo mio”.

Ciò che ci preme sottolineare è questa suggestiva raffigurazione del Signore con sentimenti, passioni e affetti umani. È quello che si definisce col termine “antropomorfismo”: un Dio così strettamente vicino alla sua creatura da condividerne l’esperienza personale e intima. È, questo, un primo passo che prepara l’Incarnazione cristiana quando il Verbo divino si fa “carne” umana, come insegna san Giovanni (1,14).

C’è un altro aspetto che vorremmo rimarcare. Esso riguarda una delle idee fondamentali che la Bibbia rivela per indicare la relazione tra il Signore e Israele e che è espressa col termine “alleanza, patto” (in ebraico berît).

Ebbene, al Sinai questa alleanza era stata definita ricorrendo al simbolo dei trattati tra un sovrano e i principi vassalli. Era, quindi, un vincolo di stampo giuridico-politico, piuttosto estrinseco. Con Osea, invece, si passa dal patto diplomatico all’alleanza nuziale, ove sono ancora in gioco le violazioni (i tradimenti), ma ben diverse sono sia la tonalità sia la qualità di questo rapporto: per usare le parole di Osea, sono «legami di bontà e vincoli d’amore».

Pubblicato il 08 settembre 2011 - Commenti (2)
03
mar

Ascolta, Israele!

Guercino (1591 - 1666), Il Padre eterno, Torino, Galleria Sabauda.
Guercino (1591 - 1666), Il Padre eterno, Torino, Galleria Sabauda.

"Ascolta, Israele, il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo! Amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutte le forze".
(Deuteronomio 6,4-5)

Nel film Kapò (1960) di Gillo Pontecorvo, quando la protagonista che, per sopravvivere, ha scelto di espletare la funzione di sorvegliante dei suoi fratelli ebrei nel lager nazista, vede il loro terribile esito finale, non riesce più a trattenersi e pronuncia la sua professione di fede, quella che è quotidianamente sulle labbra di ogni israelita: Shema’ Jisra’el, «Ascolta, Israele!...».

Si colloca, così, di nuovo dalla parte delle vittime e si sacrifica per permettere al prigioniero russo di cui si è innamorata e ad altri ebrei di fuggire dal campo. Noi abbiamo ora proposto gli stessi versetti mirabili che costituiscono anche per Gesù «il più grande e il primo dei comandamenti» della Bibbia, quando risponde al «dottore della Legge che lo interroga per metterlo alla prova» (Matteo 22,35-38).

Tre sono le osservazioni di commento che ora vorremmo riservare a questo passo capitale nella spiritualità giudaica e cristiana. Innanzitutto ci soffermiamo sull’imperativo «Ascolta!», in ebraico Shema’. La Bibbia esalta questo verbo, tant’è vero che esso punteggia il Deuteronomio, il libro della Legge proclamata, e “ascoltare” è sinonimo di “obbedire”. Si tratta, quindi, di un’adesione intima e non di un mero sentire esterno, di un orecchio libero dalle “ortiche” delle chiacchiere (per usare l’espressione della poetessa ebrea Nelly Sachs). È il non essere «ascoltatore smemorato ma colui che mette in pratica», come scrive san Giacomo (1,25). «Ascolta» e «amerai» sono, infatti, nel nostro testo in parallelo tra loro.

La seconda considerazione tocca, invece, il cuore di quell’ascolto-obbedienza. È l’accoglienza ferma della professione di fede monoteista: «Il Signore è uno solo!». Dio non ha attorno a sé un pantheon,ma non è neppure l’ente supremo astratto, immobile e impassibile nella sua eternità e nella sua trascendenza. Infatti, si dice che egli «è il nostro Dio», ha cioè con noi un legame di alleanza. In questa luce si capisce anche perché la Bibbia non è un’asettica raccolta di teoremi teologici, ma è una storia viva e tormentata di relazione tra due soggetti personali, liberi e capaci di amore, Dio e l’umanità.

Proprio per questo, la fede biblica comprende tante dimensioni. Ed è ciò che è espresso nella nostra terza nota che mette l’accento sulle varie componenti dell’adesione umana. Nel testo ebraico sono implicati «il cuore, l’anima e le forze» nella loro totalità. Sappiamo che l’“anima” per la Bibbia è l’intero essere vivente, la persona nella sua capacità vitale e comunicativa, mentre il “cuore” è la coscienza e le “forze” rimandano a quell’energia che si esplica nell’agire. Siamo, quindi, in presenza di tutto l’essere umano che deve pensare, fremere, operare, scegliere, orientandosi sempre verso Dio.

È il ritratto di una fede che presenta la persona che si offre al suo Signore nella sua integralità. Sono, così, escluse certe pallide spiritualità fatte solo di vago sentimento, ma anche un impegno religioso solo esteriore e operativo. Lode e giustizia, adorazione e scelte
concrete si devono intrecciare.

A questo proposito va fatta un’osservazione finale. Quando Gesù cita il passo del Deuteronomio, introduce una variante suggestiva che alcuni studiosi ritengono legata all’orizzonte culturale del tempo, quando la civiltà greca aveva ottenuto una posizione di primato: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente». Sì, anche la ragione si deve associare alla fede perché esse sono «come le due ali» che ci conducono nel cielo della contemplazione e della verità (e l’immagine, come è noto, è dell’enciclica Fides et ratio, “fede e ragione” appunto, di Giovanni Paolo II).

Pubblicato il 03 marzo 2011 - Commenti (0)

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Autore del blog

Gianfranco Ravasi

Gianfranco Ravasi

Gianfranco Ravasi è un cardinale, arcivescovo cattolico e biblista italiano, teologo, ebraista ed archeologo.
Dal 2007 è presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, della Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa e presidente della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra.

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