Innamorati sotto un albero in fiore (1859) di John Callcott Horsley, Philadelphia Museum of Art, Filadelfia
" Mi ricordo di te,
dell'affetto della
tua giovinezza,
dell'amore
al tempo del tuo
fidanzamento,
quando mi seguivi
nel deserto,
in una terra
non seminata."
(Geremia 2,2)
«Enlil, le tue molte perfezioni fanno
restare attoniti, la loro natura segreta
è come una matassa arruffata
che nessuno sa dipanare, è un arruffio di
fili di cui non si trova il bandolo». È, questa,
una strofa di un antichissimo inno sumerico
dedicato al dio Enlil, il capo del pantheon
di quella civiltà. Essa ben esprime
una concezione della divinità per certi versi
affine alla visione greca del Fato, un gorgo
oscuro e misterioso che impera sugli stessi
dèi, piegandoli a una logica indecifrabile.
Anche uno dei “bellissimi nomi” di Allah è
“l’inaccessibile” e – sia pure con una prospettiva
teologica ben più alta – l’islam considera
la divinità come invalicabile a ogni
conoscenza intima, che non sia quella negativa
(«Dio non è come...»).
Su tutt’altra traiettoria si muove, invece, la
Bibbia che non solo presenta il Signore come
una persona che può dire: «Io sono», ma anche
ne descrive i sentimenti, le passioni,
l’amore. È il caso di questo stupendo soliloquio
di Dio che ci ha lasciato Geremia: in esso
brillano sia la tenerezza di una relazione tra
due fidanzati, sia l’«affetto» profondo che li
unisce. Il termine ebraico usato, hesed, rimanda
infatti alla fedeltà amorosa che intercorre
tra due innamorati, vincolati tra loro non da
un obbligo legale, bensì da un patto d’amore.
Nello stesso libro profetico si legge questa appassionata
professione d’amore di Dio: «Ti ho
amato di amore eterno, per questo ti conservo
il mio affetto» (31,3).
C’è, però, una nota stonata da registrare. Il
frammento geremiano da noi proposto è incastonato
in un brano che in ebraico è detto rîb,
ossia un “dibattimento processuale”, una “lite
giudiziaria”. Sì, perché in realtà questa
sposa, Israele, così amata, si è rivelata una
donna infedele. Anzi, il profeta usa un’immagine
durissima, “bestiale”: «Come una giovane
cammella leggera e vagabonda, come asina
selvatica, abituata al deserto, ansima
nell’ardore della sua voglia: chi può frenare
la sua brama?» (2,23-24). La metafora è esplicitata
nella sua dimensione religiosa, quando
questa sposa dichiara la sua scelta: «Io amo
gli stranieri, voglio andare con loro!» (2,25).
Gli amanti «stranieri» sono gli idoli. Come è
evidente, la simbologia d’amore viene usata
in tutte le sue iridescenze per descrivere l’esaltante
e travagliato rapporto nuziale tra il Signore
e il suo popolo.
Israele è «una donna infedele a chi la ama»
(3,20), «è sfrontata come una prostituta che
non arrossisce» (3,3), sta in attesa dei suoi
clienti ai crocicchi delle strade «come fa l’arabo
nel deserto» (3,2). Eppure, come dice il nostro
frammento, Dio è pieno di nostalgia
per il passato d’amore vissuto insieme nel
deserto del Sinai. In verità, anche là Israele
aveva tradito, ma il Signore sembra quasi scordare
ogni infedeltà e alonare di luce quella fase
antica, nella speranza di un futuro diverso,
anche perché «egli non mantiene rancore per
sempre né conserva in eterno la sua ira» (3,5).
Ecco, allora, il ripetersi nel capitolo 3 – che fa
parte sempre dello rîb o contesa tra Dio e
Israele – per sette volte del verbo shûb, il “ritornare-
convertirsi” (3,1.7.10.12.14.19.22). È il
desiderio segreto anche del popolo peccatore,
ma è soprattutto l’attesa insonne di Dio: «Ritorna,
Israele ribelle, non ti mostrerò la faccia
sdegnata perché io sono affettuoso e non conserverò
per sempre l’ira» (3,12).
Pubblicato il 20 ottobre 2011 - Commenti (1)