24
mar

Dio è Spirito

Salimbeni Lorenzo (1374 ca. - 1420 ca): La Samaritana, Eremo di Lecceto.
Salimbeni Lorenzo (1374 ca. - 1420 ca): La Samaritana, Eremo di Lecceto.

"Dio è spirito e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità"
(Giovanni 4,24)

Il pozzo è profondo 32 metri ed è circondato dalle pareti di una chiesa ortodossa che non fu mai completata. Su di esso si ergono i due monti noti anche alla Bibbia che li ha evocati in senso simbolico, il verdeggiante Garizim, segno di benedizione, e il pietroso Ebal, emblema di maledizione (Deuteronomio 27). Il primo era divenuto anche il monte sacro dei Samaritani che su di esso celebrano ancor oggi la loro Pasqua. A quel pozzo, posto a valle e attribuito al patriarca biblico Giacobbe, sosta in un caldo giorno estivo Gesù e il celebre inno Dies irae alluderà proprio a quella pausa che Cristo si concede, mentre i suoi discepoli si sono diretti al vicino villaggio di Sicar per trovare cibo, e la tramuta in un simbolo: Quaerens me sedisti lassus, eri seduto stanco là, col desiderio di cercarmi...

Ed effettivamente una persona s’avanza in quel mezzogiorno assolato: è una donna di quella comunità eterodossa che ancor oggi sopravvive nella vicina città di Nablus, una samaritana. Sappiamo tutti – sulla base dello straordinario racconto del capitolo 4 di Giovanni – la piega che prende quell’incontro tra Gesù e la donna dalla vita sentimentale piuttosto movimentata. L’acqua di quel pozzo diviene un alto segno spirituale: «Chiunque beve di quest’acqua, di nuovo avrà sete. Ma chi beve dell’acqua che io gli darò non avrà più sete. Anzi, l’acqua che gli darò diverrà in lui sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna» (4,13-14).

Il dialogo, però, acquista un’ulteriore svolta. Tende ora verso l’infinito mistero di Dio e verso la relativa conoscenza e adesione da parte dell’uomo. Le parole di Cristo si fanno ancor più solenni: «È giunto il tempo in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità» (4,23). Ed è a questo punto che viene offerta quella definizione di Dio e del credente che costituisce il frammento da noi proposto: «Dio è spirito» e l’atteggiamento profondo del fedele è quello dell’adorare in «spirito e verità». Dobbiamo subito spazzar via un’interpretazione “spiritualistica” e intimistica che, come non di rado è avvenuto, ha dato origine a una religiosità di stampo individuale, interiore, misticheggiante, fin esoterico.

Secondo questa concezione, il vero credente è colui che adora Dio stando in contemplazione davanti all’architettura del tempio cosmico, oppure nel più modesto spazio della sua camera e incontra il suo Signore nella sua coscienza che alla fine risulta il tempio autentico in cui Dio risiede. Pur essendo suggestiva, questa visione non spiega la genuina concezione del Gesù giovanneo. «Spirito e verità» sono intrecciati tra loro al punto di essere quasi sinonimi. Lo «Spirito» è il comunicarsi di Dio che ha in Cristo la sua espressione perfetta, e la «verità» è la Parola divina che lo stesso Cristo annunzia. In questa linea va la dichiarazione che fa san Paolo: «Il Signore [cioè Cristo] è lo Spirito e dove c’è lo Spirito del Signore c’è libertà» (2Corinzi 3,17).

Senza negare lo Spirito Santo Paraclito, viene presentato Cristo nella sua funzione di rivelatore perfetto del Padre e della sua parola: «Dio nessuno l’ha mai visto, ma il Figlio unigenito che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato» (Giovanni 1,18). La fede e il culto cristiano sono, quindi, l’adesione viva e piena alla persona di Cristo, al suo Vangelo, alla sua offerta di comunione: «Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete ciò che volete e vi sarà dato» (Giovanni 15,7). Ed essere in Cristo è essere in Dio: «Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell’unità » (Giovanni 17,23).

Pubblicato il 24 marzo 2011 - Commenti (0)
16
mar

Come in uno specchio

L'Eterno appare a Mosè di Jacopo Robusti, detto il Tintoretto (1518 - 1594). Venezia, Scuola Grande San Rocco.
L'Eterno appare a Mosè di Jacopo Robusti, detto il Tintoretto (1518 - 1594). Venezia, Scuola Grande San Rocco.

"Noi tutti, a viso scoperto, riflettiamo come in uno specchio la gloria del Signore e così siamo trasformati in quella stessa immagine, di gloria in gloria."
(2Corinzi 3,18)

«Quando Mosè scese dal monte Sinai non sapeva che la pelle del suo viso era diventata raggiante, poiché aveva conversato con Dio. Aronne e tutti gli Israeliti, vedendo raggiante la pelle del suo viso, ebbero paura di accostarsi a lui... Mosè, allora, si pose un velo sul volto» (Esodo 34,29-30.33). L’uomo non esce indenne dall’incontro con Dio, viene quasi trasfigurato, tanto da irradiare luce attorno a sé. San Paolo sta meditando appunto su questo passo biblico e lo applica al cristiano con una variante radicale. Prima, però, diamo uno sguardo generale all’intero testo che l’Apostolo sta dettando.

La Seconda Lettera ai Corinzi – ha scritto un suo commentatore, il tedesco Otto Kuss – «riflette il temperamento, la ricchezza caratteriale, l’eccitabilità persino, la ruvidezza di Paolo e anche la confusione della situazione» che si era creata nella tormentata comunità greca di Corinto.

Lo scritto è anch’esso molto travagliato, con salti tematici, a tal punto che non pochi esegeti hanno ipotizzato che esso sia una specie di collage di diverse lettere dell’Apostolo qui unificate. A questo proposito c’è un’immagine di grande intensità che vorremmo riproporre: «La nostra lettera siete voi, lettera scritta nei nostri cuori... Siete come una lettera di Cristo, composta da noi, scritta non con l’inchiostro, ma con lo Spirito del Dio vivente, non su tavole di pietra, ma sulle tavole di carne dei cuori» (3,2-3).

A questa immagine si accosta quella del volto radioso del cristiano. Chi vive a contatto con Dio si trasforma e non deve nascondere questa luminosità, perché essa può rischiararei fratelli. Ecco, allora, la variante che l’Apostolo introduce rispetto al passo biblico da cui è partito. A Mosè era stato suggerito di celare una luce troppo forte; Paolo, invece, ricalca le parole che Cristo aveva rivolto ai suoi discepoli: «Voi siete la luce del mondo... non si accende una lucerna per nasconderla sotto un moggio, ma sopra il lucerniere perché faccia luce a tutti quelli che sono in casa. Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al vostro Padre che è nei cieli» (Matteo 5,14-16).

Non possiamo, però, ignorare un aspetto nella comparazione che Paolo instaura tra Mosè e il cristiano e, quindi, tra l’antica e la nuova alleanza. Egli vuole, infatti, sottolineare una discontinuità, una differenza che non deve però condurre a negare il legame pur profondo che ci unisce alla prima alleanza. Sappiamo quanto l’Apostolo sia orgoglioso di definirsi «circonciso l’ottavo giorno, della stirpe di Israele, della tribù di Beniamino, ebreo da ebrei, fariseo secondo la Legge» (Filippesi 3,8). Qual è, allora, la diversità che viene ora marcata?

La risposta è semplice. Per l’Antico Testamento il volto divino, cioè l’intima essenza personale del Signore, è invisibile a occhio umano perché è come un oceano di luce che acceca, e già il riflesso di essa stampato sul viso di Mosè si rivela insopportabile allo sguardo degli Israeliti. Lo stesso Mosè aveva implorato di contemplare pienamente quel volto, ma la risposta era stata negativa: a lui era apparso solo il dorso del Signore che si allontanava (Esodo 33,18-23). Con l’Incarnazione, invece, nel volto di Cristo c’è la possibilità di vedere il Padre, cioè Dio («Chi ha visto me ha visto il Padre», Giovanni 14,9). Per questo san Giovanni, in apertura alla sua Prima Lettera, dichiarerà di aver potuto «vedere con gli occhi, contemplare e toccare con le mani il Verbo della vita, perché la vita [divina] si è fatta visibile» in Gesù Cristo (1,1-2).

Pubblicato il 16 marzo 2011 - Commenti (1)
10
mar

Diventare come Dio!

James Jacques Tissot: La maledizione (particolare), c. 1896-1902. New York, The Jewish Museum.
James Jacques Tissot: La maledizione (particolare), c. 1896-1902. New York, The Jewish Museum.

"Si apriranno i vostri occhi e diventerete come Dio, conoscitori del bene e del male."
(Genesi 3,5)

Nel giardino dell’Eden c’era un albero che non è registrato nei manuali di botanica. In ebraico si chiama ’es da’at tob wara’, «l’albero della conoscenza del bene e del male», e non è una pianta fisica ma metafisica, simbolica. Forse anche qualche nostro lettore è convinto che si tratti di un melo, ma è vittima di un abbaglio. L’equivoco nasce da una sorta di gioco di parole, possibile però soltanto in latino. In quella lingua, infatti, hanno un suono molto affine questi tre vocaboli: malus (melo), malum (male) e malus (cattivo). Ecco spiegato l’inganno che ha generato la celebre “mela di Eva”, legata appunto al “male” che ne è seguito.

Il discorso, in verità, è serio e tocca il cuore della morale. Cerchiamo, quindi, di illustrare il significato di quell’albero misterioso e comprenderemo appieno anche il passo biblico che abbiamo proposto alla nostra riflessione. Innanzitutto l’immagine vegetale è per la Bibbia segno di sapienza, indica un sistema di vita: il Salmo 1, ad esempio, presenta il giusto come un albero radicato nei pressi di un ruscello, le cui foglie non avvizziscono e i cui frutti sono gustosi e costanti. C’è, poi, la “conoscenza”, la da’at che, nella cultura biblica, non è solo intellettuale, ma è anche un atto globale della coscienza che coinvolge volontà, sentimento e azione. È, pertanto, una scelta radicale di vita. Infine, ecco «il bene e il male» che, com’è ovvio, sono i due perni della morale.

A questo punto siamo tutti in grado di identificare quest’albero simbolico: è l’incarnazione della morale nella sua pienezza, che proviene da Dio, colui che pianta nel cuore di ogni creatura umana questa realtà viva e decisiva. I frutti, quindi, sono solo donati, non possono essere sottratti. L’uomo e la donna sono là, con la loro libertà, sotto l’ombra di quell’albero e compiono una scelta drammatica. Sollecitati dal serpente, emblema del tentatore che scuote la nostra libertà, essi strappano il frutto, ossia – fuor di metafora – vogliono decidere in proprio quale sia il bene o il male, rifiutando di riceverli come codificati da Dio.

Si comprende, allora, il significato profondo dell’invito del tentatore: strappare quel frutto vuol dire diventare arbitri («conoscitori ») del bene e del male, artefici autonomi della morale, creatori di ciò che è giusto e di ciò che è perverso a proprio piacimento. È appunto «diventare come Dio». È, questa, la radice del “peccato originale”, anzi, è l’essenza ultima di ogni peccato. È un po’ quello che i Greci definivano come hybris, ossia la sfida che il ribelle lancia contro la divinità. Con questa scelta si giunge non nel cielo sognato da Adamo ed Eva e fatto balenare loro dal serpente come la grande illusione; si precipita, invece, nel cuore della tenebra, nell’abisso del peccato e della colpa.

Detto in altri termini, l’anima oscura del peccato è la superbia, non per nulla considerata come il primo dei vizi capitali: è la folle aspirazione a sostituirsi a Dio definendo autonomamente il bene e il male. La storia umana è l’amara documentazione dei risultati ottenuti, una volta imboccata questa via. Risuona, allora, il monito di un sapiente biblico del II secolo a.C., il Siracide: «Dio in principio creò l’uomo e lo lasciò in mano al suo proprio volere. Se vuoi, osserverai i comandamenti: l’essere fedele dipende dalla tua buona volontà… Davanti agli uomini stanno la vita e la morte: a ognuno sarà dato ciò che egli sceglierà» (Siracide 15,14-15.17).

Pubblicato il 10 marzo 2011 - Commenti (0)
03
mar

Ascolta, Israele!

Guercino (1591 - 1666), Il Padre eterno, Torino, Galleria Sabauda.
Guercino (1591 - 1666), Il Padre eterno, Torino, Galleria Sabauda.

"Ascolta, Israele, il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo! Amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutte le forze".
(Deuteronomio 6,4-5)

Nel film Kapò (1960) di Gillo Pontecorvo, quando la protagonista che, per sopravvivere, ha scelto di espletare la funzione di sorvegliante dei suoi fratelli ebrei nel lager nazista, vede il loro terribile esito finale, non riesce più a trattenersi e pronuncia la sua professione di fede, quella che è quotidianamente sulle labbra di ogni israelita: Shema’ Jisra’el, «Ascolta, Israele!...».

Si colloca, così, di nuovo dalla parte delle vittime e si sacrifica per permettere al prigioniero russo di cui si è innamorata e ad altri ebrei di fuggire dal campo. Noi abbiamo ora proposto gli stessi versetti mirabili che costituiscono anche per Gesù «il più grande e il primo dei comandamenti» della Bibbia, quando risponde al «dottore della Legge che lo interroga per metterlo alla prova» (Matteo 22,35-38).

Tre sono le osservazioni di commento che ora vorremmo riservare a questo passo capitale nella spiritualità giudaica e cristiana. Innanzitutto ci soffermiamo sull’imperativo «Ascolta!», in ebraico Shema’. La Bibbia esalta questo verbo, tant’è vero che esso punteggia il Deuteronomio, il libro della Legge proclamata, e “ascoltare” è sinonimo di “obbedire”. Si tratta, quindi, di un’adesione intima e non di un mero sentire esterno, di un orecchio libero dalle “ortiche” delle chiacchiere (per usare l’espressione della poetessa ebrea Nelly Sachs). È il non essere «ascoltatore smemorato ma colui che mette in pratica», come scrive san Giacomo (1,25). «Ascolta» e «amerai» sono, infatti, nel nostro testo in parallelo tra loro.

La seconda considerazione tocca, invece, il cuore di quell’ascolto-obbedienza. È l’accoglienza ferma della professione di fede monoteista: «Il Signore è uno solo!». Dio non ha attorno a sé un pantheon,ma non è neppure l’ente supremo astratto, immobile e impassibile nella sua eternità e nella sua trascendenza. Infatti, si dice che egli «è il nostro Dio», ha cioè con noi un legame di alleanza. In questa luce si capisce anche perché la Bibbia non è un’asettica raccolta di teoremi teologici, ma è una storia viva e tormentata di relazione tra due soggetti personali, liberi e capaci di amore, Dio e l’umanità.

Proprio per questo, la fede biblica comprende tante dimensioni. Ed è ciò che è espresso nella nostra terza nota che mette l’accento sulle varie componenti dell’adesione umana. Nel testo ebraico sono implicati «il cuore, l’anima e le forze» nella loro totalità. Sappiamo che l’“anima” per la Bibbia è l’intero essere vivente, la persona nella sua capacità vitale e comunicativa, mentre il “cuore” è la coscienza e le “forze” rimandano a quell’energia che si esplica nell’agire. Siamo, quindi, in presenza di tutto l’essere umano che deve pensare, fremere, operare, scegliere, orientandosi sempre verso Dio.

È il ritratto di una fede che presenta la persona che si offre al suo Signore nella sua integralità. Sono, così, escluse certe pallide spiritualità fatte solo di vago sentimento, ma anche un impegno religioso solo esteriore e operativo. Lode e giustizia, adorazione e scelte
concrete si devono intrecciare.

A questo proposito va fatta un’osservazione finale. Quando Gesù cita il passo del Deuteronomio, introduce una variante suggestiva che alcuni studiosi ritengono legata all’orizzonte culturale del tempo, quando la civiltà greca aveva ottenuto una posizione di primato: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente». Sì, anche la ragione si deve associare alla fede perché esse sono «come le due ali» che ci conducono nel cielo della contemplazione e della verità (e l’immagine, come è noto, è dell’enciclica Fides et ratio, “fede e ragione” appunto, di Giovanni Paolo II).

Pubblicato il 03 marzo 2011 - Commenti (0)

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Autore del blog

Gianfranco Ravasi

Gianfranco Ravasi

Gianfranco Ravasi è un cardinale, arcivescovo cattolico e biblista italiano, teologo, ebraista ed archeologo.
Dal 2007 è presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, della Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa e presidente della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra.

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