26 apr
Teschio di capra, 1957, di Georgia O’Keeffe (1887-1986). San Antonio, Texas, McNay Art Museum.
"Quando lo spirito impuro esce dall’uomo,
si aggira per luoghi deserti
cercando sollievo, ma non ne trova. Allora dice: «Ritornerò nella mia casa, da cui sono uscito»".
(Matteo 12,43-44)
Gesù con queste parole sembra “sceneggiare” una storia diabolica, introducendo elementi dal sapore mitico. Innanzitutto precisiamo subito chi sia il protagonista, denominato “spirito impuro” (o “immondo”). La locuzione ricorre spesso nei Vangeli (ad esempio, in Marco 11 volte) ed è l’equivalente del “demonio”. Alla base c’è il concetto biblico rituale della “purità” che riguardava il tempio e la vita religiosa: quanto vi si opponeva era ritenuto “impuro”, cioè profano, sottratto all’orizzonte divino e, quindi, in qualche modo ostile a Dio. L’apice supremo di questa “impurità” è ovviamente Satana.
Ora, lo “spirito impuro”, nel racconto di Gesù, è rappresentato mentre viene espulso da una “casa”, ossia dal cuore di una persona che l’ha scacciato attraverso la conversione. Eccolo, allora, vagare nel deserto. Questo tratto è per noi sorprendente perché ha il sapore di qualcosa di fiabesco e, appunto, di mitico. In realtà, c’è una spiegazione legata alla cultura dell’antichità biblica. Il deserto è, in pratica, un mare di sabbia e, come il mare è il simbolo del nulla, del caos, così anche le aree desertiche raffigurano l’assenza della vita, dell’esistenza, della fecondità. Nasce, così, l’idea che esse siano popolate di demoni.
Quando si celebra il grande rito dell’espiazione comunitaria nella solennità del Kippur, il capro che reca su di sé i peccati del popolo e che viene quindi detto “di Azazel”, nome di un demonio dell’antica tradizione popolare cananea ed ebraica, viene allontanato nel deserto. Là egli porta le colpe di Israele perché vi si estinguano (si legga, al riguardo, il complesso rituale del Kippur nel capitolo 16 del libro del Levitico). Inoltre, nella Bibbia si evocano talora i se‘irîm, di per sé “i capri”, ma in realtà si tratta dei “satiri”, ossia di misteriosi esseri o geni zoomorfi che si assembrano e vagano nei luoghi desertici o nelle città in rovina. Il profeta Isaia, quando maledice Babilonia, la città dell’oppressione, annunzia che essa sarà ridotta a un campo di rovine nel quale «si stabiliranno le bestie selvatiche, i gufi riempiranno i palazzi, vi dimoreranno gli struzzi e vi danzeranno i satiri» (13,21).
La stessa scena è ripetuta dal profeta per il tradizionale nemico di Israele, Edom, nelle cui città devastate «i satiri si chiameranno l’un l’altro; là si poserà anche Lilit» (34,14), un demone mitologico femminile, destinato a una certa popolarità nel folclore e nelle tradizioni giudaiche posteriori. Non dobbiamo, dunque, stupirci che la Bibbia, parola di Dio incarnata, cioè legata a una cultura e a coordinate storiche e sociali antiche, assuma anche elementi mitici.
Essi servono a dare vivacità al messaggio che si vuole comunicare sul mistero del male e di Satana, la cui opera è appunto quella di stimolare la libertà umana inclinandola contro Dio, il bene, la giustizia e la verità. Ecco, allora, il deserto come sua sede perché simbolo di caos, di morte e di male, ed ecco anche il desiderio del demonio di rientrare nella casa del cuore e della coscienza delle persone ove poter esercitare il suo influsso nefasto.
Pubblicato il 26 aprile 2012 - Commenti (2)
19 apr
Anima dannata, busto in cera di scuola lombarda, XVII secolo. Milano, Pinacoteca Ambrosiana.
"Qualunque peccato
o bestemmia
verrà
perdonata
agli uomini, ma
la bestemmia
contro lo Spirito
non verrà
perdonata"
(Matteo 12,31)
Questa frase di Gesù, già di sua natura
sorprendente, si fa quasi
sconcertante nel suo prosieguo
che suona così: «A chi parlerà contro il
Figlio dell’uomo, sarà perdonato; ma a
chi parlerà contro lo Spirito Santo, non
sarà perdonato, né in questo mondo né
in quello futuro» (12,32). Per sciogliere
l’imbarazzo di queste dichiarazioni partiamo
innanzitutto dalla realtà della “bestemmia”
che, nel linguaggio biblico,
ha un’accezione differente da quella
comune per noi. Il famoso comandamento:
«Non nominare il nome di Dio invano
», certo, indirettamente può essere
applicato alla bestemmia come imprecazione
infamante contro la divinità, ma il
suo valore primario va in ben altra direzione,
marcata da quell’ “invano”.
In ebraico il termine rimanda alla “vanità”
dell’idolo; quindi in causa è la degenerazione
della religione e l’arrogarsi da
parte dell’uomo di decidere a suo piacimento
quale sia il vero Dio, modellandolo
a proprio vantaggio e appropriandosi,
così, di una tipica qualità divina. Perciò
la «bestemmia contro lo Spirito» è un peccato
superiore a una semplice parolaccia
o insulto contro la divinità. È un attacco
radicale e consapevole alla realtà intima
e profonda di Dio rappresentata
dal suo Spirito. Non è un peccato di debolezza
come quello dell’adultera che
può pentirsi ed è perdonata da Cristo
(Giovanni 8,1-11). È, invece, una sfida cosciente
scagliata contro Dio.
È a questo punto che dobbiamo interpretare
l’applicazione successiva. Da un
lato, si afferma la possibilità di remissione
del peccato di negazione nei confronti
del Figlio dell’uomo. La giustificazione
è nel fatto che la sua dignità è per
così dire velata dalla sua apparenza
umana che può generare incertezza, sospetto
o reazione negativa. Si ricordi,
per esempio, la replica di Natanaele
all’apostolo Filippo che lo invitava a conoscere
Gesù di Nazaret: «Da Nazaret
può venire qualcosa di buono?» (Giovanni
1,46).
D’altro lato c’è, invece, l’atteggiamento
soprattutto degli scribi e dei farisei
che vedono gli atti gloriosi di Cristo, i
suoi miracoli, le liberazioni dal male demoniaco,
ma chiudono coscientemente
gli occhi della mente e del cuore,
perché il riconoscimento di questa “diversità”
di Gesù infrangerebbe il loro sistema
di potere e le loro elaborazioni teologiche.
Essi, dunque, negano l’evidenza
delle opere che lo Spirito di Dio manifesta
in Cristo: la «bestemmia contro lo Spirito
» è, allora, il rifiuto consapevole della
verità conosciuta come tale, è il rigetto
cosciente della parola e dell’opera di Gesù,
pur sapendola vera e santa, per proprio
interesse “blasfemo”.
In questa luce, è comprensibile la
conclusione logica: a costoro non è possibile
concedere il perdono «né in questo
mondo né il quello futuro», perché
manca il presupposto fondamentale
del pentimento e della confessione
della colpa. Essi si mettono fuori
dell’orizzonte della salvezza di propria
scelta. Il commento ideale a tale dichiarazione
di Gesù è in queste parole
di quella grandiosa omelia che è la Lettera
agli Ebrei: «Se pecchiamo volontariamente
dopo aver ricevuto la conoscenza
della verità, non rimane più alcun
sacrificio per quel peccato, ma soltanto
una terribile attesa del giudizio e
la vampa di un fuoco che dovrà divorare
i ribelli» (Ebrei 10,26-27).
Pubblicato il 19 aprile 2012 - Commenti (2)
12 apr
Liberazione di una indemoniata (sec. XV) del Maestro di San Severino. Firenze, Museo Horne.
"I Chi non è con me
è contro di me."
(Matteo 12,30)
"Chi non è
contro di noi
è per noi"
(Marco 9,40)
Abbiamo appaiato due frasi di Gesù
apparentemente contraddittorie.
Da un lato, c’è la frase riferita da
Matteo e ripetuta anche da Luca (11,23)
che sembra presentare un Gesù integralista,
e per derivazione una Chiesa gelosa
della sua esclusività nel possedere la verità
e la salvezza (il famoso detto Extra ecclesiam
nulla salus, fuori della Chiesa
non c’è salvezza). D’altro lato, Marco raffigurerebbe,
invece, un Gesù più “ecumenico”,
aperto ai semi di verità che sono
diffusi in tutta l’umanità. In realtà, l’antitesi
si scioglie se si tiene presente il
differente contesto in cui queste frasi
sono state pronunciate da Gesù.
Partiamo dall’evento che origina la
battuta di Gesù in Matteo e Luca. Come
abbiamo illustrato in una precedente
analisi del passo di Matteo 12,22-29, siamo
di fronte a un dibattito con i farisei
riguardo al tema della lotta contro Satana.
È ovvio che in questa battaglia non
si possono concedere attenuanti o accordi:
il male deve vederci schierati in un
duello e chi non sta dalla parte del bene
è da considerarsi come un avversario.
Chi non è con Cristo in questa lotta
è contro di lui.
Diverso è il caso che fa da cornice alla
frase riferita da Marco. L’apostolo Giovanni
segnala a Gesù un esorcista estraneo
alla comunità cristiana che opera contro
il male satanico nel nome di Cristo, senza
che egli appartenga alla cerchia dei discepoli.
Giovanni l’aveva abbordato e, con
un tipico atteggiamento di autodifesa segnato
da un pizzico di chiusura e di gelosia
di stampo integralistico, l’aveva minacciato:
«Noi glielo abbiamo vietato perché
non era dei nostri» (Marco 9,38).
A questo punto Gesù reagisce proprio
con una dichiarazione di grande
apertura nei confronti del bene ovunque
si manifesti, frase citata dall’evangelista
Marco: «Chi non è contro di noi
è per noi». È curioso notare che questa
frase riflette un proverbio allora molto
diffuso: era usato anche nel mondo romano,
come attesta Cicerone nella sua
arringa Pro Ligario (n. 33).
Si dissolve,
così, l’apparente contraddizione tra i
due detti che, in realtà, contengono entrambi
una loro verità.
Non si deve, comunque, dimenticare
un principio generale che abbiamo
spesso ribadito: le parole di Cristo sono
state conservate dagli evangelisti
non in modo letterale e meccanico, ma
come messaggi vivi da incarnare nelle
varie situazioni vissute dalle comunità
cristiane. Non ci si deve, perciò, impressionare
di fronte a varianti che impediscono
di far combaciare perfettamente
certe redazioni della stessa frase.
Diverso naturalmente è il nostro caso.
Qui, infatti, sono di scena due situazioni
profondamente diverse che meritavano
da parte di Gesù giudizi necessariamente
antitetici.
Pubblicato il 12 aprile 2012 - Commenti (3)
05 apr
Discesa al Limbo di Andrea Bonaiuti (1346-1379), particolare con i demoni. Firenze, Santa Maria Novella, Cappellone degli Spagnoli.
"I farisei dissero:
costui scaccia i demoni
per mezzo di Beeelzebul,
principe dei demoni!".
(Matteo 12,24)
Il nome esotico “Beelzebul” è entrato
nel linguaggio generale per indicare
qualcosa di orrido, che impaurisce i
bambini. La sua origine è piuttosto remota.
Dobbiamo, infatti, risalire ai Cananei,
la popolazione indigena della
terra d’Israele, ove questo nome significava
letteralmente “Baal il principe”.
Baal, che vuol dire “Signore”, era l’appellativo
della divinità della fecondità
e della vita.
Questo dio era il principe del pantheon
cananeo e aveva come simbolo il
toro, segno di fertilità (si ricordi la tentazione
di Israele nel deserto: rappresentare
Dio sotto l’immagine di un vitello-
toro d’oro). Siamo, quindi, in presenza
dell’idolo per eccellenza.
Successivamente, proprio per la sua
capacità di tentare il popolo ebraico
all’apostasia, fu considerato «il principe
o il capo dei demoni», come si intuisce
nell’accusa che i farisei scagliano contro
Gesù e che abbiamo proposto per la
nostra decifrazione dei passi più complessi
dei Vangeli. Dobbiamo anche segnalare
che nell’Antico Testamento si
ha la forma “Beelzebub” (2Re 1,2-3): essa
è una deformazione spregiativa che
letteralmente significa “Signore delle
mosche”, un titolo che è stato apposto a
un famoso romanzo pubblicato nel
1954 dallo scrittore britannico William
Golding (in inglese Lord of the Flies).
Ma ritorniamo al testo e al contesto di
Matteo (12,22-30).
Gesù è, dunque, accusato di essere in
combutta con Satana perché riesce a
controllare i demoni con i suoi esorcismi.
La sua replica è semplice e si sviluppa
in due direzioni. Da un lato, fa notare
che è ben assurdo un Satana così autolesionista,
pronto a combattere sé
stesso. Sarebbe simile a un regno o a
una città o a una famiglia in preda a lacerazioni
interne e votata alla rovina.
D’altra parte, Gesù osserva che anche
tra i farisei c’erano alcuni – da lui chiamati
loro “figli”, che nel linguaggio di
allora significava “adepti, discepoli” –
che compivano esorcismi. Anche questi
sono asserviti a Beelzebul?
Conclude la sua argomentazione indicando
il vero principio della sua opera
di liberazione dal male diabolico: «Se io
scaccio i demoni per mezzo dello Spirito
di Dio, allora è giunto a voi il regno di
Dio» (12,28). È la potenza divina che
opera in Cristo a vincere Satana, inaugurando
così il piano di salvezza del
Padre celeste. Dobbiamo aggiungere alla
scena che abbiamo ora descritto un’appendice
che è presente nel cosiddetto
“Discorso missionario” di Gesù. Là egli
afferma: «Un discepolo non è più grande
del suo maestro, né un servo è più grande
del suo signore; è sufficiente per il discepolo
diventare come il suo maestro e
per il servo come il suo signore. Se hanno
chiamato Beelzebul il padrone di casa,
quanto più quelli della sua famiglia!»
(Matteo 10,24-25).
La spiegazione, alla luce della scena
prima descritta, è facile. Anche i discepoli,
infatti, avevano ricevuto questo incarico
dal loro Signore: «Guarite gli infermi,
risuscitate i morti, purificate i lebbrosi,
scacciate i demoni!» (10,8). Ebbene, come
è stato trattato il loro Maestro e Signore,
così anche loro verranno accusati,
forse con più veemenza, di essere
al servizio di Satana-Beelzebul, mentre
anche la loro è una missione sostenuta
dallo Spirito divino liberatore per
l’estensione del regno di Dio.
Pubblicato il 05 aprile 2012 - Commenti (2)
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