29 set
Gesù precipita Satana di Mattia Preti (1613-1699). Napoli, Museo di Capodimonte.
“ La superbia
del tuo cuore
ti ha sedotto...
Anche se,
come aquila,
riesci a porre in
alto il tuo nido,
anche se lo
collocassi tra
le stelle,
di lassù io ti farò
precipitare."
(Abdia 3-4)
«Dovunque egli arrivi, il superbo si
mette a sedere e tira fuori dalla
valigia la sua superiorità». Con
ironia lo scrittore ebreo bulgaro-tedesco Elias
Canetti, Nobel 1981, nel suo libro Un regno di
matite, dipingeva questo che è il primo e fondamentale
vizio capitale che già alligna nel
giardino dell’Eden: «Sarete come Dio» è, infatti,
la promessa che il tentatore fa all’orgoglio
di Adamo. Questa attrazione perversa che
fa dell’Io un dio idolatrico è raffigurata in
modo folgorante anche dall’autore del più
breve di tutti i libri profetici, Abdia, il cui
nome è un emblema, “Servo del Signore”. Di
lui non sappiamo nulla e l’unica pagina di 21
versetti di cui si compone la sua opera echeggia
eventi di difficile decifrazione e collocazione
cronologica.
Si pensi, poi, che quasi la metà di questa pagina
(versetti 2-9) si ritrova anche nel più lungo libro
dell’Antico Testamento, quello del profeta
Geremia (49,7-22), sia pure con variazioni. Ma
lasciamo agli esegeti di esercitarsi sull’enigma
Abdia e puntiamo sul frammento che abbiamo
scelto, ritagliandolo all’interno del suo canto
polemico – dominante nel suo scritto – contro
Edom, uno dei tradizionali nemici di Israele,
un popolo discendente da Esaù, il fratello maggiore
di Giacobbe-Israele, da quest’ultimo ingannato
e quindi divenuto vittima del suo odio
(Genesi 25,19-34 e 27,1-46).
Un odio che era dilagato anche nei loro discendenti
e che è suggellato qui da Abdia con
la sua accusa nei confronti di Edom, «ingannato
dalla superbia del suo cuore». Questa
nazione bellicosa del deserto che, come dice
Abdia, «abita nelle caverne della roccia»,
un’allusione alla sua capitale, Ha-Sela’ (2Re
14,7), forse Petra in Giordania, «dice in cuor
suo: Chi potrà scagliarmi a terra?». Ecco, allora,
il severo giudizio divino che umilia i superbi.
La scena è molto vivida: l’aquila riesce
a collocare il suo nido in alture irraggiungibili
da piede umano e col suo volo maestoso
sembra mirare alle stelle.
È questo il simbolo più efficace per illustrare
l’arroganza del superbo che vorrebbe sfidare
Dio, ascendendo verso il cielo, in un atto
blasfemo e dissacratorio. È quello che Isaia
rappresenta in una delle sue pagine più potenti
nella quale il profeta mette in scena il grande
“imperatore” di allora, il re di Babilonia, la
superpotenza orientale. Il suo è un sogno – che
potremmo chiamare “apoteosi”, usando una
parola di origine greca che designa la “divinizzazione”
– un sogno tratteggiato appunto come
un’ascensione celeste: «Salirò in cielo, sulle
stelle di Dio innalzerò il mio trono, risiederò
sul monte dell’assemblea divina... Salirò sulle
regioni che sovrastano le nubi, mi farò uguale
all’Altissimo» (Isaia 14,13-14).
Ma subito dopo, proprio come nella breve e
icastica finale del passo di Abdia, anche Isaia introduce
una svolta radicale: «E invece, sei stato
precipitato negli inferi, scaraventato nelle profondità
degli abissi» (14-15). La meta del folle
volo orgoglioso del re di Babel e di quello di
Edom non è lo zenit divino ma il nadir infernale:
l’ascensione si trasforma in una discesa
precipite e catastrofica. È, questa, la lezione
che il testo del misterioso profeta che conosciamo
come Abdia ci lascia nel frammento della
sua brevissima profezia, siglata in finale da
una frase netta e definitiva: «Il regno sarà del Signore
» (versetto 21). Il pensiero corre, allora, alle
parole di Cristo: «Vedevo Satana cadere dal
cielo come folgore» (Luca 10,18).
Pubblicato il 29 settembre 2011 - Commenti (2)
22 set
Coppia di amanti, miniatura persiana, Philadelphia, Free Library.
“Il mio amato
è mio e io
sono sua...
Io sono
del mio amato
e il mio amato
è mio."
(Cantico 2,16; 6,3)
Basta sapere che in ebraico i suoni ô e î
indicano rispettivamente la terza persona
(“lui, suo”) e la prima (“io, mio”),
e anche chi ignora questa lingua sentirà l’armonia
simbolica dei due versetti che abbiamo
desunto da quel gioiello poetico e spirituale
che è il Cantico dei cantici. In essi, infatti,
quei due suoni ricorrono come un dolce filo
musicale che canta la piena e assoluta reciprocità
della donazione d’amore. Provate,
perciò, a leggere e rileggere queste frasi in
ebraico e sentirete il dominio di quei due suoni,
l’“io” e “lui” che si abbracciano: dodì li
wa’anì lo…’anì ledodì wedodì li.
Questa «formula della mutua appartenenza
», come l’ha definita un commentatore
francese, André Feuillet, è la riedizione ideale
del primo ed eterno inno d’amore
dell’Adamo universale quando incontra la
sua Eva: «Carne della mia carne, osso delle
mie ossa» (Genesi 2,23). È una professione
d’amore, affidata a quattro sole parole ripetute
che diventano un programma di vita coniugale.
Il matrimonio autentico si fonda su
una reciproca donazione d’amore di anime e
di corpi, per cui si è «una carne sola» ossia,
nel linguaggio biblico, un’unica esistenza.
Protagonisti di questo poemetto biblico sono
un Lui e una Lei senza nome, perché incarnano
gli innamorati di ogni terra e di ogni
epoca: le allusioni a Salomone e a una Sulammita
sono solo simboliche, soprattutto perché
questi termini evocano la parola ebraica shalôm,
“pace”. Questo realismo costituisce, però,
la base per intessere una rete di rimandi
ulteriori. L’amore della coppia umana, quando
ha in sé questa totalità di dono per cui rivela
una comunione perfetta, si trasfigura
in un segno divino. Per questo non pochi esegeti
hanno fatto notare che la duplice formula
del Cantico sopra citata ne echeggia un’altra.
Essa suona sostanzialmente così: «Il Signore
è il tuo Dio e tu sei il suo popolo».
È la cosiddetta “formula dell’alleanza” tra il
Signore e Israele. Inizialmente questo legame
era stato modulato secondo i canoni delle alleanze
diplomatico-politiche tra un re e i suoi
principi vassalli. Al Sinai si era steso quasi un
protocollo siglato con un rito di sangue (Esodo
24,1-11): era un patto reciproco di fedeltà a
diritti e doveri specifici. Con Osea e la sua
drammatica vicenda matrimoniale di marito
abbandonato e tradito si era introdotta una
svolta radicale: quell’alleanza non era più tra
due potenze ma tra due amori.
Il simbolo nuziale era stato adottato per
descrivere il vincolo tra Dio e il suo popolo.
La formula del Cantico può, così, essere sovrimpressa
a quella dell’alleanza col Signore,
così da farle acquistare quel connotato
d’amore e di fedeltà che i profeti, da Osea in
avanti, avevano esaltato. In questa luce, la
professione di reciproca donazione e comunione
tra i due protagonisti del Cantico viene
riletta in chiave religiosa e trasforma il
poemetto biblico in un testo mistico, destinato
a essere quasi il canto di nozze tra Dio e
il suo popolo. In realtà, il Cantico dei cantici
rimane ancorato alla storia di un amore umano,
ma il suo valore intimo può espandersi fino
ai cieli e riflettere la luce del Dio che è
amore (1Giovanni 4,8.16).
Pubblicato il 22 settembre 2011 - Commenti (2)
15 set
Bartolomeo Esteban Murillo (1618-1682), San Giuseppe con Gesù, Mosca, Museo Pushkin.
“Tutto è puro
per chi è puro.
Ma per i corrotti
e i senza fede
nulla è puro:
sono corrotte
la loro mente
e la loro coscienza."
(Tito 1,15)
Omnia munda mundis è la traduzione
latina dell’avvio del testo che
proponiamo: chi non ricorda che
questo motto risuona sulle labbra di fra
Cristoforo per placare il fraticello che non
si capacita della libertà con cui il confratello
introduce nella clausura del convento
di Pescarenico due donne, Agnese e Lucia
(Promessi sposi, cap. VIII)? Ebbene, il
frammento biblico che contiene questa
frase proverbiale va in quella linea, perché
vuole combattere ogni ipocrisia; ma
dice anche qualcos’altro che cercheremo
di scoprire. Ma partiamo dal destinatario
di questo monito.
San Paolo sta scrivendo a Tito, un discepolo
molto caro, di origine pagana, come
attesta il suo nome tipicamente latino. Lo
stesso Apostolo forse l’aveva convertito, se
si intende in questo senso l’appellativo
«mio figlio nella comune fede» (1,4). Quanto
gli fosse caro appare a più riprese soprattutto
nella seconda lettera ai Corinzi,
ove è descritto come il mediatore ufficiale
di Paolo con quella turbolenta comunità
greca. Basti leggere solo qualche battuta:
«Giunto a Troade per annunziarvi il Vangelo
di Cristo, anche se la porta mi era aperta
nel Signore, non ebbi pace finché non vi
incontrai Tito, mio fratello... Il Dio che consola
gli afflitti ci ha consolati con la venuta
di Tito» (2Corinzi 2,13; 7,6).
Questo amico e collaboratore era stato
incaricato di reggere la Chiesa dell’isola
di Creta, un’impresa ardua anche perché
Paolo non aveva una grande stima di
quei cittadini, tant’è vero che li bolla con
un motteggio escogitato proprio da uno
di loro, il poeta Epimenide di Cnosso (VI
secolo a.C.): «I Cretesi sono sempre bugiardi,
brutte bestie e fannulloni!» (1,12). Perritornare al nostro passo, dobbiamo riconoscere
che esso si apre appunto con un
detto caro anche all’insegnamento evangelico:
«Non ciò che entra nella bocca rende
impuro l’uomo; è ciò che esce dalla
bocca a rendere impuro l’uomo», osservava
Gesù (Matteo 15,16).
Sappiamo, infatti, quanto fosse rilevante
per la tradizione giudaica l’osservanza
della cosiddetta “purità” rituale con varie
abluzioni soprattutto prima di accedere
al culto. L’accento, invece, viene spostato
da Cristo e da Paolo sulla purezza di coscienza,
di pensieri e di opere. Per questo,
«tutto è puro» per chi ha l’animo puro. Ma
il nostro testo prosegue e tratteggia anche
un rovescio della medaglia, e qui l’Apostolo
attacca alcuni membri della comunità
cretese di origine giudaica che corrompono
ciò che è puro perché «sono corrotte la
loro mente e la loro coscienza». Chi è sporco
dentro contamina ciò che è puro; irradia
attorno a sé una corrente maligna
che tutto perverte.
È interessante notare che l’appello paolino
contro questi cristiani – che in realtà
sono ápistoi, cioè «senza fede» – mette al
centro due realtà umane particolarmente
apprezzate dalla cultura greca, la «mente
», nous, e la «coscienza», syneídesis. Si
vuole risalire alla radice ultima della corruzione
e della sua forza dirompente: essa
è nell’intimo dell’essere, nella sorgente
della morale e quindi delle decisioni,
dei pensieri e delle opere. Gesù, nel passo
matteano sopra citato, diceva la stessa cosa
ma usando un simbolo semitico, il cuore:
«Ciò che esce dalla bocca proviene dal
cuore e rende impuro l’uomo: dal cuore,
infatti, provengono propositi malvagi...»
e segue una lista di sette peccati o vizi, segno
di una pienezza di male che si effonde
corrompendo e devastando tutto. Ritorniamo,
perciò, alla coscienza con quella
pratica ora dimenticata che era detta
appunto “l’esame di coscienza”.
Pubblicato il 15 settembre 2011 - Commenti (1)
08 set
Vincent van Gogh, Primi passi, da Millet, 1890, New York, Metropolitan Museum of Art.
“ A Efraim io insegnavo a camminare,
tenendolo per mano...
Li attiravo a me con legami di bontà e vincoli d'amore. Ero come chi solleva un bimbo alla sua guancia, chinandomi su di lui per farlo mangiare."
(Osea 11,3-4)
Chi è genitore conosce bene la fatica e
tutti gli stratagemmi che bisogna escogitare
per convincere un bambino riottoso
a mangiare un cibo necessario ma a lui
sgradito, così come non ha certo dimenticato
la pazienza che si deve esercitare quando s’insegna
al proprio figlio a camminare. A ogni caduta
bisogna subito ricorrere a un bacio o a
una stretta per placare il piccolo che si abbandona
a un pianto omerico e inconsolabile. È curiosamente
questa la duplice scenetta che il
profeta Osea (VIII secolo a.C.) desume dalla
sua esperienza di padre e la applica al Signore
che è alle prese con un figlio così capriccioso
come Efraim, cioè Israele.
Non bisogna dimenticare che lo stesso profeta,
nelle prime pagine del suo libro, era partito
da un’altra sua esperienza familiare
tutt’altro che rara ai nostri giorni – quella di
un matrimonio in crisi – per rappresentare il
rapporto tra Dio e il suo popolo, in questo
caso incarnato dalla moglie infedele di
Osea che lo aveva abbandonato lasciandogli
da accudire tre figli. Suggeriamo, perciò,
ai nostri lettori di seguire anche il racconto
autobiografico che il profeta ci ha lasciato
nei primi tre capitoli della sua opera. Là ci si
imbatterà nel nome simbolico dei suoi tre figli,
due maschi e una femmina.
A essi, infatti, Osea, consapevole di essere lui
stesso nella sua vita un emblema per Israele,
aveva assegnato tre nomi impossibili: Izreel,
che era il toponimo di una città ove si erano
consumati delitti pubblici e privati narrati dalla
Bibbia (1Re 21; 2Re 20); Lo’-ruhamah, “Nonamata”,
per la bambina; Lo-’ammî, “Non-miopopolo”,
per il terzo maschietto. Nomi che incarnavano
sia il peccato del popolo, sia il rigetto
che il Signore aveva compiuto nei suoi riguardi.
Naturalmente, una volta che Dio e
Israele si fossero riconciliati, come il profeta sognava
nei confronti di sua moglie Gomer, i tre
nomi sarebbero stati trasformati: Izreel avrebbe
riacquistato il suo significato etimologico positivo
di “seme di Dio”, cioè fecondo, e gli altri
due figli sarebbero diventati Ruhamah, “Amata”,
e ’Ammî, “Popolo mio”.
Ciò che ci preme sottolineare è questa suggestiva
raffigurazione del Signore con sentimenti,
passioni e affetti umani. È quello
che si definisce col termine “antropomorfismo”:
un Dio così strettamente vicino alla
sua creatura da condividerne l’esperienza
personale e intima. È, questo, un primo passo
che prepara l’Incarnazione cristiana
quando il Verbo divino si fa “carne” umana,
come insegna san Giovanni (1,14).
C’è un altro aspetto che vorremmo rimarcare.
Esso riguarda una delle idee fondamentali
che la Bibbia rivela per indicare la relazione
tra il Signore e Israele e che è espressa col termine
“alleanza, patto” (in ebraico berît).
Ebbene, al Sinai questa alleanza era stata definita
ricorrendo al simbolo dei trattati tra un
sovrano e i principi vassalli. Era, quindi, un vincolo
di stampo giuridico-politico, piuttosto
estrinseco. Con Osea, invece, si passa dal patto
diplomatico all’alleanza nuziale, ove sono
ancora in gioco le violazioni (i tradimenti), ma
ben diverse sono sia la tonalità sia la qualità di
questo rapporto: per usare le parole di Osea, sono
«legami di bontà e vincoli d’amore».
Pubblicato il 08 settembre 2011 - Commenti (2)
01 set
Bernardo Zenale (1436-1526), Il giustiziato, storie di sant’Ambrogio, Milano, San Pietro in Gessate.
“ Il tempo è giunto
a pienezza,
il Regno di Dio
è vicino! Convertitevi
e credete
nel Vangelo!
(Marco 1,15)
Voltaire aveva il dente avvelenato coi preti. Tuttavia, non aveva tutti i torti quando diceva che la loro predicazione è
spesso «come la spada di Carlo Magno, lunga
e piatta»; e un altro francese famoso, Montesquieu, spiegava: «I predicatori quello che
non sanno darti in profondità te lo danno in
lunghezza».
Ho fatto questa premessa perché
quella che ora ho proposto è, per così dire, la
prima predica di Gesù, stando almeno al Vangelo di Marco. La cornice di questa citazione
suona, infatti, così: «Dopo che Giovanni Battista fu arrestato, Gesù si recò in Galilea, predicando il Vangelo di Dio, e diceva...» (1,14). Eppure questa brevità oratoria, affidata solo
a quattro frasi, è di una densità sorprendente. Abbiamo parlato di “predica”, in realtà
questo che Gesù proclama è un kerygma, in
greco un “annunzio” primo, fondamentale e
destinato a tutti, non a chi già crede, come
dovrebbe accadere per l’omelia-predica-sermone domenicale.
Le parole di Gesù sono articolate in quattro frasi che si dispongono in due coppie. La
prima coppia è di taglio “teologico”, cioè descrive l’iniziativa, l’opera, l’intervento divino. Eccone le due componenti. Innanzitutto
«il tempo è giunto a pienezza»: abbiamo tradotto così, invece del solito «è compiuto» per
essere più fedeli al greco che ha il verbo della “pienezza” (peplérotai) e che usa il vocabolo kairós, indicante il “tempo” decisivo, pieno di eventi e di vita, e non il semplice chrónos, che designa il tempo “cronologico”,
esterno e fatto di date. L’idea è, allora, squisitamente religiosa: la storia della salvezza,
iniziata con la prima alleanza di Dio con
Israele, giunge ora con Cristo al suo apice,
alla sua pienezza.
Il secondo detto della “predica” di Gesù introduce il «Regno di Dio» che è un’espressione simbolica, già presente nell’Antico Testamento, destinata a definire il disegno che
Dio vuole attuare nel mondo e nella storia,
un progetto «di verità e di vita, di santità e di
grazia, di giustizia, di amore e di pace», come
dice la liturgia della solennità di Cristo re dell’universo. Ebbene, questo «Regno di
Dio è vicino»; il verbo greco usato, enghýzein, è curioso perché in sé ha un valore di
futuro e di prossimità, come qualcosa che è
imminente, da attendere presto, o accanto
a noi; tuttavia, il verbo è coniugato al perfetto che in greco denota un’azione al pas-
sato il cui effetto perdura nel presente. Il
Regno di Dio è, quindi, già in parte compiuto, ma è ancora in azione e tende a una sua
piena attuazione futura.
L’altra coppia è, invece, “antropologica”,
ossia è riservata all’opera dell’uomo. Egli deve innanzitutto «convertirsi», in greco metanoéin, letteralmente “cambiare la mente”,
cioè la sua visione delmondo e delle sue scelte, alla luce del Vangelo. A questo mutamento radicale deve, perciò, unirsi la fede nel
Vangelo. Anche qui il greco è suggestivo perché, ricalcando un’espressione semitica che
evoca un “basarsi/fondarsi su”, richiede che
il credente fondi la sua esistenza sul Vangelo. Non è, quindi, solo un’adesione teorica al
Vangelo, al suo annuncio e ai suoi enunciati,
ma è anche una scelta coerente di vita, una
fede-fiducia piena e vitale.
Pubblicato il 01 settembre 2011 - Commenti (1)
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