26 apr
"Gersusalemme sarà calpestata dai pagani
finché i tempi dei pagani non siano compiuti."
(Luca 21,24)
La conquista di Gerusalemme e la distruzione del Tempio da parte dell’imperatore Tito nell’anno 70 nel dipinto di Nicolas Poussin, 1638. Vienna, Kunsthistorisches Museum (Scala).
Abbiamo già avuto occasione di ricordare che nel Vangelo di Luca ci si imbatte in due brani analoghi che gli esegeti biblici hanno chiamato «la piccola» e «la grande apocalisse» (17,20-37 e 21,5-36). Si tratta di un duplice sguardo rivolto alla “realtà ultima” (in greco éschaton) della storia e del mondo, donde il termine tecnico di “escatologia”. Per abbozzare questa sorta di estuario estremo delle vicende umane e delle realtà create, già nell’Antico Testamento si ricorreva a un genere letterario detto “apocalittico”, vocabolo di origine greca che designa la “rivelazione” (apokálypsis) di un mistero.
Questo genere era ricco di simboli piuttosto forti e molto “colorati”, di visioni, di segni che evidentemente non devono essere presi alla lettera – come si è fatto in passato e come accade talvolta ancor oggi – cioè in modo fondamentalistico. Anche Gesù adotta quelle immagini: lo si può vedere leggendo l’intero brano della “grande apocalisse” lucana. Gli evangelisti, poi, nel redigere per scritto queste parole di Cristo hanno anche fatto balenare in filigrana un evento drammatico come quello della distruzione di Gerusalemme nel 70 a opera dei Romani.
La frase che noi abbiamo ritagliato da quel discorso “escatologico” parla di un sovvolgimento che colpisce appunto Gerusalemme, la quale vede ripetersi ciò che era accaduto nel 586 a.C., quando le armate babilonesi di Nabucodonosor avevano invaso e demolito il tempio e la città santa. Anche nel futuro, quindi, afferma Gesù, Sion sarà calpestata, molti «cadranno a fil di spada oppure saranno condotti prigionieri in tutte le nazioni» e questo avverrà durante una fasestorica simbolicamente denominata come “tempi dei pagani” (in greco kairoì ethnôn, ossia i tempi propri delle nazioni, dei popoli stranieri, delle genti).
Ora, già nell’Antico Testamento si face- va spesso riferimento a un arco di tempo – variamente computato in modo simbo- lico in settant’anni (Geremia 25,11; 29,10; Daniele 9,1-2), oppure in settanta settimane di anni (Daniele 9,24-27) – durante il quale i popoli dominatori avrebbero pu- nito Israele peccatore, divenendo così strumento del giudizio divino. Al termine di questi “tempi dei pagani”, simili a una sorta di crogiuolo purificatore, Israele avrebbe visto la liberazione e la salvezza, inaugurando in tal modo i “tempi ultimi”, l’escatologia appunto, l’èra della salvezza piena.
Benedetto XVI nel suo secondo volume su Gesù di Nazaret (“Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione”, 2011) dedica al “tempo dei pagani” un ca- pitoletto molto interessante e lo vede come «il tempo della Chiesa» che precede la fine della storia, nel quale dev’es- sere annunziato il Vangelo a tutti i popoli. E conclude: «L’urgenza dell’evangelizzazione è motivata... da questa grande concezione della storia: affinché il mondo raggiunga la sua meta, il Vangelo deve arrivare a tutti i popoli».
Pubblicato il 26 aprile 2013 - Commenti (1)
04 feb
Entrata di Cristo in Gerusalemme, affresco, 1303-1304, di Giotto. Padova, cappella degli Scrovegni.
"Mentre stavano
compiendosi i giorni
in cui sarebbe stato
elevato in alto,
egli rese
duro il suo volto
incamminandosi verso
Gerusalemme."
(Luca 9,51)
Frase contorta e oscura, questa di
Luca, che noi abbiamo parzialmente
lasciata nel tenore greco originario.
Innanzitutto ricordiamo che qui
– stando alla struttura del terzo Vangelo
– inizia la lunga marcia che condurrà
Gesù alla città del suo destino terreno
finale e che occuperà quasi dieci capitoli
del racconto di Luca (da 9,51 a 19,28).
Viaggio, certo, geografico-spaziale, ma
anche simbolico-spirituale. L’evangelista
definisce fin dall’inizio la meta e la
esprime con una sola parola greca, análempsis,
da noi tradotta in modo esplicativo,
“essere elevato in alto”.
L’antica versione latina, la Vulgata di
san Girolamo, aveva semplicemente e
letteralmente dies assumptionis, cioè “i
giorni dell’assunzione/ascensione” del
Risorto, evento che Luca descrive sia in
finale al suo Vangelo (24,50-53), sia in
apertura alla sua seconda opera, gli Atti
degli Apostoli (1,6-11). Effettivamente
l’ascensione al cielo è un modo per rappresentare
la gloria della risurrezione;
l’umanità di Cristo ha avuto il suo svelamento
supremo nella morte e sepoltura;
la sua divinità si mostra nuovamente
nel suo splendore con l’“assunzione”
al cielo che è il segno dell’infinito
e dell’eterno di Dio.
L’evangelista Giovanni vede, però,
questa epifania divina del Figlio compiuta
già mentre egli è sulla croce: «Quando
sarò innalzato da terra, attirerò tutti a
me» (12,32; si leggano anche questi altri
passi giovannei: 3,16 e 8,28).
Perciò, possiamo
dire che la meta ultima dell’itinerario
di Gesù a Gerusalemme è sia il
Calvario, cioè la morte e risurrezione,
sia il monte degli Ulivi o dell’ascensione.
Per raggiungere questo punto terminale
decisivo nel quale si riveleranno in
pienezza l’umanità di Cristo e la sua divinità,
è necessaria da parte di Gesù una
scelta forte e radicale.
Essa è formulata nell’originale greco
di Luca con un’espressione curiosa: Gesù
«fece una faccia dura».
La locuzione, che è
un po’ simile alla nostra quando parliamo
di una “decisione ferrea”, riflette in
realtà il linguaggio profetico, in particolare
quello di Ezechiele che a più riprese
usa l’immagine del «fissare la faccia verso
Gerusalemme» (21,7), mentre il Signore
gli dichiara: «Ecco, io ti do una faccia indurita
quanto la loro faccia» (3,8).
Siamo, quindi, di fronte a una svolta
nella vita di Cristo: egli, sulla base della
profezia che è quasi la lampada che illumina
la sua missione, si avvia al compimento
della volontà del Padre con una
scelta determinata e cosciente.
Egli
non è vittima rassegnata di eventi esteriori
che lo superano e lo condizionano. Gesù
sa che, all’interno dei giochi di potere
che compongono la storia, si dipana un
progetto superiore del quale egli è protagonista.
Ed è Gerusalemme la città del
“compimento” di questo disegno di morte
e di vita, di sofferenza e di gloria, di male
e di redenzione, che egli accoglie e attua
con determinazione e fermezza.
Pubblicato il 04 febbraio 2013 - Commenti (0)
06 ott
Pianto di ragazza (1964), opera di Roy Lichtenstein.
“ Il Signore
Dio eliminerà
la morte
per sempre,
asciugherà
le lacrime
su ogni volto,
farà scomparire
da tutta la terra
l'ignominia
del suo popolo."
(Isaia 25,8)
È noto che il “rotolo” di Isaia è, per così dire,
scritto con più inchiostri e a più mani:
diversi, infatti, sono gli autori profetici
che vi prendono parte e differenti sono i
temi, le tonalità e le coordinate storiche. Ora
noi abbiamo ritagliato un versetto da una
sorta di fascicolo di oracoli, intrecciati a suppliche
e inni, che occupa i capitoli 24-27 del
libro del grande Isaia e che gli studiosi hanno
denominato “l’Apocalisse di Isaia”. Le immagini,
lo stile, i soggetti, infatti, hanno le
caratteristiche di quella particolare letteratura
chiamata “apocalittica” (dal greco apokálypsis,
“rivelazione”), che ha il suo avvio
con il profeta Ezechiele, il suo trionfo con Daniele
e con Zaccaria e che approda nel Nuovo
Testamento con l’Apocalisse di Giovanni.
È significativo che proprio quest’ultimo libro
citi esplicitamente il nostro passo isaiano
nel suo glorioso ritratto della Gerusalemme
nuova e perfetta e lo faccia ben due
volte: «L’Agnello, che sta in mezzo al trono,
sarà il pastore [degli eletti] e li guiderà alle
fonti dell’acqua della vita. E Dio asciugherà
ogni lacrima dai loro occhi... E asciugherà
ogni lacrima dai loro occhi e non vi sarà più
la morte né lutto né lamento né affanno perché
le cose di prima sono passate» (Apocalisse
7,17; 21,4). Ritorniamo ora al testo originario,
quello presente nel libro di Isaia. Esso fa
parte di un canto più ampio (25,6-10a) che
ha al centro un simbolo divenuto celebre nella
tradizione giudaica e cristiana.
Lasciamo la parola al profeta: «Il Signore
degli eserciti preparerà per tutti i popoli su
questo monte un banchetto di grasse vivande,
un banchetto di vini eccellenti, di cibi succulenti,
di vini raffinati» (25,6). Dio, quindi,
entra in scena come un re che imbandisce
un pranzo ufficiale dal menù prelibato. Sappiamo
che la mensa è un segno di amicizia e
di intimità in tutte le civiltà. Il Signore, perciò,
vuole unirsi idealmente all’intera umanità,
ma lo fa nella sua sede che è il monte
Sion a Gerusalemme.
Per rendere agevole questo afflusso universale
egli deve togliere il velo di nubi che separa
quella vetta, deve eliminare la coltre di tenebra
che come un sudario di morte si stende
sulla terra, così che possa brillare la luce e
tutti possano camminare al suo fulgore.
Quando tutti si sono accomodati ai loro posti
attorno alla mensa, il Signore passa in mezzo
a loro per tergere i segni della sofferenza e
della fatica che contaminano i volti. È un atto
di ospitalità suprema che sfocia in una promessa
assolutamente unica che solo Dio può
fare: «Eliminerà la morte per sempre!».
A questo punto sboccia dalle labbra di tutti
un canto festoso: «Ecco il nostro Dio! In lui abbiamo
sperato perché ci salvasse. Questi è il Signore
in cui abbiamo sperato; rallegriamoci,
esultiamo per la sua salvezza!» (25,9). È facile
comprendere come questa scena luminosa
e gioiosa sia divenuta il quadro ideale per
raffigurare l’ingresso glorioso del Messia
nella storia. Ma sia anche la rappresentazione
della meta ultima della vicenda umana così
come l’attende la fede biblica, un approdo
nella vita piena e perfetta. È ciò che aveva già
annunziato un altro profeta, Osea, e le sue parole
erano state riprese da san Paolo: «Li strapperò
dalla mano degli inferi, li riscatterò dalla
morte? Dov’è, o morte, la tua peste? Dov’è,
o inferi, il vostro sterminio?» (13,14). Ma il
profeta era ancora scettico; l’Apostolo, invece,
non avrà esitazioni perché commenterà quel
passo così: «Questo corpo corruttibile si rivestirà
di incorruttibilità e questo corpo mortale
di immortalità» (1Corinzi 15,54-57).
Pubblicato il 06 ottobre 2011 - Commenti (2)
26 mag
Abbeveratoio, Antonio Fontanesi (1818-1882), Bologna, Pinacoteca Nazionale.
Benedetto l’uomo che confida nel Signore:
è come un albero piantato lungo un ruscello,
verso la corrente stende le sue radici...,
le sue foglie rimangono verdi...,
non cessa di produrre frutti.
(Geremia 17,7-8)
In un panorama desertico e assolato si leva
un albero verdeggiante e carico di frutti. Come
è possibile in un terreno ove al massimo
sopravvivono i cespugli e i rovi? Ci avviciniamo,
ed ecco che scopriamo in un piccolo
avvallamento laterale un corso d’acqua sottile
ma perenne: le radici si sono tese fino a
raggiungere quella sorgente di vita ed è per
questo che la pianta si erge orgogliosa con la
sua chioma. L’immagine è semplice, ma agli
occhi del profeta Geremia, il drammatico testimone
nel VI secolo a.C. del crollo del regno
di Giuda e della rovina di Gerusalemme,
si trasforma in un simbolo. Infatti, l’applicazione
è subito esplicitata in apertura: «Benedetto
l’uomo che confida nel Signore, è lui la
sua fiducia!».
Non sappiamo quanti anni dopo, un altro
ebreo, un salmista, leggerà queste righe del
profeta e le riprenderà per comporre il suo
canto, quel Salmo che diverrà quasi l’atrio
d’ingresso o il portale dell’intero Salterio: il
giusto «è come albero piantato presso un canale,
dà frutto nella sua stagione, le sue fronde
non appassiscono mai, tutte le sue opere
hanno successo» (Salmo 1,3). Egli, poi, continuerà
e, per contrasto, dipingerà a dittico il
ritratto del malvagio, «simile a pula che il
vento disperde» (1,4), cioè a una realtà secca,
leggera, inconsistente, da far volare col ventilabro
o da ardere nel mucchio della paglia.
La fedeltà a Dio e alla sua legge è principio
di vita, di fecondità, di freschezza interiore.
Quando un altro profeta, Ezechiele, vorrà
rappresentare il futuro ultimo della storia
– quello che i teologi chiamano “l’escatologia”
– ricorderà che il verdeggiare della vita dipende
da un fiume che scaturisce dal tempio,
ossia dalle acque sante della grazia divina:
«Lungo quel fiume, su entrambe le rive, crescerà
ogni sorta di alberi da frutto, le cui foglie
non appassiranno, i loro frutti non cesseranno,
matureranno ogni mese, perché le acque
sgorgano dal tempio» (Ezechiele 47,12).
Limpido è, perciò, l’appello dei profeti: volete
vivere un’esistenza vera e feconda? Attingete
all’acqua della fede, della fiducia,
della fedeltà operosa a Dio e alla sua parola.
È ancora Geremia a usare un’immagine analoga,
ma al negativo, in un frammento che
abbiamo avuto occasione di considerare in
passato: «Il mio popolo ha abbandonato me,
sorgente d’acqua viva, e si è scavato cisterne
piene di crepe che non riescono a trattenere
l’acqua» (2,13). È interessante segnalare una
curiosità. Questo profeta è uno degli autori
biblici più sensibili alla natura, alla sua bellezza
e alla sua possibilità di parlare a noi
umani attraverso i suoi segni.
Così, in contrasto al quadretto rigoglioso e
fresco che ha ora dipinto, egli oppone, in
un’altra pagina poetica intensa ed emozionante,
la tragedia di una siccità terribile e
prolungata, sotto la morsa di una calura implacabile,
con la vegetazione avvizzita, le fonti
inaridite e la disperazione sia degli abitanti
sia degli animali che «aspirano l’aria come
sciacalli, con gli occhi languidi, perché non ci
sono più pascoli» (si legga il capitolo 14). E
anche là Geremia scopre un segno divino: il
Signore colpisce un popolo che è arido e senza
frutti ed egli si è fatto ormai assente, «come
un forestiero sulla terra, come un viandante
che si è fermato una sola notte».
Pubblicato il 26 maggio 2011 - Commenti (0)
06 feb
La vedova (1941), opera di Italo Valenti, Firenze, Raccolta della Ragione
"Voi tutti che passate per la via, considerate se c’è un dolore simile al mio, al dolore che ora
mi tormenta: il Signore mi ha afflitta nel giorno della sua ira ardente."
(Lamentazioni 1,12)
Nel 1958 il grande musicista russo Igor Stravinskij elaborava una composizione per coro e orchestra intitolata Threni, un termine greco che significa “Lamentazioni”. Infatti, alla base di quell’opera c’era la raccolta di cinque elegie che la tradizione ha attribuito a Geremia e che sono entrate nella Bibbia proprio dopo il libro di quel profeta.
Si tratta di poemetti di tragica bellezza e di straordinaria intensità al cui centro risalta Gerusalemme, la città santa devastata dalle truppe del re babilonese Nabucodonosor nell’anno 586 a.C. Essa è raffigurata come una vedova sconsolata che lancia al cielo l’eterno interrogativo dei sofferenti (che è anche la prima parola ebraica della prima Lamentazione e che ha dato il titolo dell’intera raccolta secondo la tradizione giudaica): ’ekah, “come mai?”.
La vedova Gerusalemme si rivolge sia al Dio giudice inesorabile sia agli spettatori perché
entrambi abbiano compassione e donino conforto. Ma – come si intuisce nel frammento da noi evocato e suggerito amo’ di invito alla lettura integrale di questi gioielli di poesia e di umanità – le cinque Lamentazioni sono anche un’accorata meditazione sulla causa ultima di quella tragedia, ossia sul peccato umano e sul giudizio divino.
Non sono stati, allora, i Babilonesi a incendiare e a massacrare. In azione, attraverso le loro mani, era Dio stesso simile a un vendemmiatore che pigia l’uva della vigna d’Israele, spremendone sangue: «Il Signore ha pigiato nel torchio la vergine figlia di Giuda» (1,15).
Si apre, quindi, idealmente uno squarcio nelle mura della cittadella misteriosa del dolore. Certamente, questa non può essere l’unica soluzione di fronte a un tema così vasto e misterioso. Tuttavia, è indubbio che un’ampia fetta di sofferenza dell’umanità nasce dalle ingiustizie perpetrate da molti. Il dono della libertà si rivela spesso come un ordigno che è tra le nostre mani ed esplode ferendo noi e gli altri. Ma rimane nell’analisi di queste pagine bibliche crude un altro sapore in bocca al lettore ed è quello dell’amore per le proprie radici, che si rinvigoriscono proprio nel giorno della prova. Sion «piange amaramente nella notte, le lacrime rigano le sue guance. Nessuno la consola fra tutti i suoi amanti. Tutti i suoi amici l’hanno tradita, le sono divenuti nemici» (1,2). Il linguaggio amoroso serve non solo a definire gli antichi alleati che hanno tradito, ma anche il tradimento stesso di Israele che era andato a cercare divinità straniere, inquinando la sua
religiosità, avvelenando la sua stessa identità culturale e spirituale.
«Per questo», continua, allora, la vedova Gerusalemme, «piango e dal mio occhio scorrono lacrime, perché lontano da me è chi consola, chi potrebbe ridarmi la vita», cioè il Signore, la sorgente della vita e della speranza (1,16). Essa protende le mani, abbattuta nella polvere, e grida: «Guarda, Signore, quanto sono in angoscia!» (1,20). La domanda finale che suggella la quinta e ultima Lamentazione lascia aperta la via all’attesa, pur nello scoramento: «Ci hai forse rigettati per sempre, e senza limite sei sdegnato contro di noi?» (5,22). Ma questa stessa frase è da alcuni studiosi resa in modo affermativo: «Non ci hai rigettati per sempre e non sei sdegnato con noi sino alla fine». La fiammella della speranza rimane, dunque, sempre accesa.
Pubblicato il 06 febbraio 2011 - Commenti (0)
|
|