30
ott

Indemoniato o epilettico?

Raffaello Sanzio, Trasfigurazione, 1518-1520, particolare. Città del Vaticano, Musei, Pinacoteca.
Raffaello Sanzio, Trasfigurazione, 1518-1520, particolare. Città del Vaticano, Musei, Pinacoteca.

"Mio figlio ha uno spirito muto:
lo afferra, lo getta per terra
ed gli schiuma, digrigna i denti
e si irrigidisce
".


(Marco 9,18)

Siamo ai piedi del monte della Trasfigurazione. Gesù ha appena svelato a tre apostoli, Pietro, Giacomo e Giovanni, il mistero della sua persona di Figlio di Dio celato sotto le spoglie della sua umanità.
Nella pianura sottostante s’imbatte in un caso che è classificato come possessione diabolica, secondo la comune concezione di allora (ma non solo) di interpretare uno stato patologico psicofisico riportandolo a una radice demoniaca (Marco 9,14-29). Lo stesso era accaduto anche nel caso, già da noi affrontato, del malato mentale “indemoniato” di Gerasa (5,1-20).

Che si tratti, invece, di epilessia appare dalla stessa descrizione fatta dal padre di questo giovane e che noi abbiamo messo in evidenza nella citazione del passo dell’evangelista Marco.
Inoltre, condotto davanti a Gesù, il ragazzo è preso dalle «convulsioni, cade a terra e si rotola spumando» (9,20) e il padre ricorda che «fin dall’infanzia» gli accadeva questo, al punto di «buttarsi anche nel fuoco e nell’acqua», in atteggiamento autolesionistico (9,21-22). Siamo in presenza della tipica sintomatologia dell’epilessia, rubricata popolarmente sotto uno «spirito muto» demoniaco, secondo la cultura del tempo.

In realtà, Gesù si è trovato di fronte al satanico in senso stretto, come abbiamo visto in una precedente analisi di un testo marciano (1,21-26) all’interno della sinagoga di Cafarnao. Altre volte, invece, ha davanti a sé semplicemente il limite dell’uomo, il male fisico e psichico. Si tratta della nostra imperfezione e creaturalità che ci fanno soffrire; è la nostra incompiutezza umana che comporta caducità, dolore e morte. Questa dimensione negativa nell’antica mentalità era sempre da ricondurre o a una colpa del soggetto o a un intervento demoniaco.

La figura di Cristo, come si erge liberatrice nei confronti delle possessioni diaboliche, ingaggiando una lotta con lo “spirito impuro” che devasta la creatura, spingendola al male, così si leva contro il male fisico e psichico, orizzonte nel quale Dio sembra assente, ma dove in verità può rivelare la sua presenza salvifica che è somatica e spirituale al tempo stesso. È interessante notare i verbi usati nel finale del racconto. «Il fanciullo diventò come morto, sicché molti dicevano: È morto (apéthanen)! Ma Gesù lo prese per mano, lo risvegliò (égheiren) ed egli sorse in piedi (anéste)».

Ebbene, questi sono i tre verbi greci usati nel Nuovo Testamento per definire la morte e la risurrezione di Cristo, sorgente di ogni liberazione dalla morte e dal male. La salvezza che egli offre è, quindi, piena: tocca la nostra creaturalità fragile, ma anche il peccato e le seduzioni che Satana e il male esercitano sulla nostra libertà facendola inclinare verso il vizio.
Certo, dobbiamo evitare, da un lato, gli eccessi di “satanismo” facendone quasi il centro della fede cristiana che è, invece, occupato da Dio e da Cristo. Dobbiamo stroncare la morbosità “satanica” in ambito magico, riconoscendo il primato di Dio e affidando in molti casi anche ad altre discipline il loro compito terapeutico, come la medicina e la psicologia.
Ma non dobbiamo dimenticare il monito di san Pietro: «Il vostro nemico, il diavolo, simile a un leone ruggente, s’aggira cercando chi divorare; resistetegli saldi nella fede!» (1Pietro 5,8-9).

Pubblicato il 30 ottobre 2012 - Commenti (2)
18
ott

Presenti all'arrivo del regno

Trasfigurazione di Giovanni Battista Paggi (1554-1627). Firenze, San Marco.
Trasfigurazione di Giovanni Battista Paggi (1554-1627). Firenze, San Marco.

"In verità io vi dico:
vi sono alcuni,
qui presenti,
che non morranno
prima di aver
visto giungere
il regno di Dio
nella sua potenza
".


(Marco 9,1)

Frase a prima vista sconcertante, questa, per quel rimando alla generazione contemporanea di Gesù che sarebbe spettatrice o della venuta del regno di Dio (così nel passo qui citato di Marco 9,1 e in Luca 9,27) o del «Figlio dell’uomo che viene nel suo regno », secondo la variante di Matteo (16,28). Fermo restando che gli evangelisti spesso riprendono le parole di Gesù Cristo incarnandole nel contesto ecclesiale in cui essi sono immersi, sorge spontanea una domanda: cosa s’attendevano di vedere quei primi cristiani durante la loro vita terrena?

Le risposte date dagli esegeti sono diverse: Gesù allude alla successiva epifania gloriosa della sua trasfigurazione oppure alla sua risurrezione, o ancora alla distruzione di Gerusalemme del 70, tutti segni espliciti e “visibili” della venuta del regno di Dio nella storia. In realtà, il centro della questione è in quel «regno di Dio», uno dei temi portanti della predicazione di Gesù, da lui desunto dall’Antico Testamento e sviluppato in modo originale. Si tratta di una metafora per descrivere il progetto trascendente ed eterno di Dio nei confronti della storia umana. Cristo afferma di essere venuto a rivelarlo e a metterlo in opera.

Ora, poiché il regno è una realtà eterna, voluta da Dio per trasformare l’essere, è in sé “puntuale”, è già “ora” e sempre; tuttavia, esso si insedia visibilmente nella storia che è fatta di uno sviluppo, di un “prima” e di un “poi” e, quindi, avrà diverse fasi di attuazione. L’azione di Cristo rende presente il regno di Dio già da adesso: «Se io scaccio i demoni per virtù dello Spirito di Dio, è certo giunto tra voi il regno di Dio» (Matteo 12,28); «il regno di Dio non viene in modo da attrarre l’attenzione e nessuno può dire: “Eccolo qui, o eccolo là!”. Perché il regno di Dio è in mezzo a voi» (Luca 17,21).

Eppure, il regno dei cieli è una realtà che dovrà innervare il futuro e, quindi, è ancora da attendere. Allora, la frase citata di Gesù invita a riconoscere la presenza del regno nella persona e nell’opera di Cristo: la salvezza che egli compie con le sue guarigioni e i suoi esorcismi mostra che quel progetto salvifico è già in azione e allarga i suoi confini sottraendo spazio al Male. I contemporanei sono invitati a scoprirne la presenza viva ed efficace proprio nella figura di Gesù.

Tuttavia, non si deve immaginare che Gesù pensi già a una sorta di fine del mondo e alla sua venuta ultima e definitiva già entro la sua generazione, dopo la sua morte e risurrezione. Ci sono, infatti, varie sue affermazioni – soprattutto all’interno del cosiddetto “discorso escatologico” (Matteo 24-25; Marco 13; Luca 21) – ove a questo presente s’intreccia il futuro della pienezza non ancora compiuta nella sequenza del tempo a cui noi tutti apparteniamo, sia pure in epoche differenti.

In sintesi, il regno di Dio, essendo eterno, abbraccia e supera il tempo e, quindi, si svela in azione in modo forte con Cristo, la sua opera, la sua parola e la sua Pasqua durante quella generazione, ma anche nelle successive. Esso, però, si proietta nel futuro fino alla “pienezza dei tempi”, quando il regno avrà raggiunto la sua attuazione perfetta e conclusiva.

Pubblicato il 18 ottobre 2012 - Commenti (2)
15
ott

Vedo come alberi che camminano

Gesù guarisce un cieco, affresco, scuola cassinese. Sant'Angelo in Formis, Capua.
Gesù guarisce un cieco, affresco, scuola cassinese. Sant'Angelo in Formis, Capua.

"Quegli, alzando gli occhi, diceva:
«Vedo la gente, perché vedo
come degli alberi che camminano
»".


(Marco 8,24)

Ambientato a Betsaida (in aramaico “casa dei pescatori”), la patria degli apostoli Pietro, Andrea e Filippo, villaggio situato sul lago di Tiberiade, questo miracolo piuttosto sorprendente mette in scena un Gesù che non riesce a guarire un cieco se non attraverso due interventi successivi.
È solo Marco a narrarci questo episodio dal carattere storico e simbolico al tempo stesso. Storico, perché non si sarebbe mai inventato un atto miracoloso che mostra un Gesù incapace di guarire di primo acchito, ma costretto a ripetere l’operazione sul malato. Simbolico, per la tipologia del paziente e il contesto che assegna all’evento un probabile significato ulteriore.

Iniziamo con la vicenda concreta. Secondo la tradizionale convinzione per la quale si assegnava alla saliva un potere terapeutico, Gesù spalma la sua saliva sugli occhi di un cieco, come farà a Gerusalemme con un caso congenito analogo (Giovanni 9,6).
Impone poi le mani sul malato e attende l’esito che è, però, piuttosto imprevisto: il cieco comincia, sì, a vedere ma confessa di intuire le figure umane in maniera confusa, come se fossero alberi in movimento. Cristo, allora, ripete l’imposizione delle mani «ed egli ci vide chiaramente, fu guarito e da lontano vedeva distintamente ogni cosa» (Marco 8,25).
Segue il monito, frequente nel Vangelo di Marco, di evitare ogni pubblicità al gesto: «Non entrare nemmeno nel villaggio», impone Gesù all’ex cieco (8,26).

Espressione dell’umanità di Cristo che si lega alle tradizioni mediche popolari e che rivela persino una difficoltà operativa, questo racconto ha, però, su di sé un velo simbolico suggestivo. Innanzitutto per la sindrome in questione, la cecità.
Certo, il fenomeno era in sé fisico, derivante anche dalle infezioni oftalmiche purulente, provocate o aggravate dal sole incandescente, dal sudiciume, dal vento che sollevava polvere. Per questo sono molteplici le guarigioni evangeliche di ciechi (Matteo 9,27-32; 20,29-34; Marco 10,46-52; Luca 18,35-43; Giovanni 9,1-7).

Ma è facile intuire che, essendo la luce un simbolo di Dio (1Giovanni 1,5) e di Cristo (Giovanni 8,12), la liberazione dalla cecità acquista un senso più profondo, messianico, tant’è vero che lo stesso Gesù, nel suo discorso programmatico nella sinagoga di Nazaret, non esita ad attribuire a sé il passo isaiano secondo il quale la sua missione comprendeva anche il ridare «la vista ai ciechi» (Luca 4,18), impegno che ribadirà come proprio e specifico ai discepoli del Battista venuti a interrogarlo come Messia (Matteo 11,5).

L’episodio del cieco di Betsaida – a causa del contesto che contiene subito dopo la confessione di Pietro, il quale proclama Gesù come il Cristo, ma che registra anche le incertezze della folla per la quale Gesù è il Battista o Elia o uno dei profeti redivivi – potrebbe anche comprendere un’allusione alla difficoltà nel “vedere” della fede. Essa può attraversare una fase preparatoria, quella appunto che intuisce confusamente in Gesù un profeta che ritorna sulla scena di Israele. Ma alla fine raggiunge la piena luce, come accade a Pietro che, secondo Marco (8,29), vede in lui “il Cristo”, ossia il Messia, e secondo Matteo (16,16) ancora di più: «il Cristo, il Figlio del Dio vivente».

Pubblicato il 15 ottobre 2012 - Commenti (1)
08
ott

Fede e legge

"I farisei" di Karl Schmidt-Rottluff, olio su tela, 1912. New York, Museum of Modern Art (MoMA).
"I farisei" di Karl Schmidt-Rottluff, olio su tela, 1912. New York, Museum of Modern Art (MoMA).

"Se uno dichiara
al padre
o alla madre:
«È
korbàn!»,
cioè offerta
a Dio, non
gli consentite
di fare più nulla
per il padre
o la madre."


(Marco 7,11-12)

Questa frase enigmatica è inserita all’interno di una polemica che Gesù sta intessendo con alcuni farisei e scribi, venuti da Gerusalemme in Galilea per verificare e censurare l’insegnamento e il comportamento del rabbi di Nazaret. Le critiche non mancano: ad esempio, i discepoli di Gesù non osservano le norme della purità rituale sancita dalla tradizione giudaica. Cristo reagisce accusando di ipocrisia i suoi contestatori attraverso un caso concreto, quello appunto del korbàn, termine aramaico che indica l’“offerta” sacra destinata da un fedele al tempio.
Il procedimento era semplice: quando un ebreo dichiarava formalmente che una somma di denaro o un altro bene era korbàn, cioè consacrato per il tempio, quella cifra o quella realtà non era più disponibile per altre finalità, secondo quanto affermava una prescrizione della tradizione giudaica presente nella Mishnah. Essa era una raccolta di norme e indicazioni che regolavano la prassi dei fedeli ebrei, prima trasmesse oralmente e poi codificate in un testo dal rabbi Jehuda ha-Nasî che aveva organizzato nel III secolo d.C. il materiale in 6 “ordini” (seder) e 63 trattati.

Gesù presenta una scandalosa applicazione di questa norma specifica. Se un ebreo vuole sottrarsi all’obbligo del mantenimento dei genitori anziani, può decidere di assumere una certa somma o un bene prezioso e dichiararlo korbàn per il tempio, così che non ne potrà più disporre per i suoi genitori e sarà libero dall’obbligo filiale. Ovviamente l’impegno a cui si sottraeva era maggiore, perciò ne risultava un vantaggio. Anzi, non di rado questo voto restava solo formale e, quindi, fittizio e non comportava una reale donazione, ma era soltanto un mezzo estrinseco per evadere quell’obbligo morale.
I maestri, scribi e dottori della Legge, erano consapevoli dell’immoralità di un simile comportamento, ma consideravano lo stesso valida la prassi. Gesù, invece, ne denuncia la perversione religiosa ed etica. Egli, infatti, risale al cuore della Bibbia, lacerando il velo ipocrita della casistica e proclama il primato del Comandamento del Decalogo: «Onora tuo padre e tua madre» (Esodo 20,12), laddove quell’“onorare” comportava un impegno operoso di rispetto, di tutela e di sostegno della vita familiare (si legga sul tema l’intenso paragrafo di Siracide 3,1-16).

La conclusione che Cristo appone alla sua polemica è di indole generale e rivela un atteggiamento fondamentale della vera religiosità: «Voi in questo modo annullate la parola di Dio con la tradizione che avete tramandato voi» (7,13). Sulla parola divina viene imposta una norma umana, a un comandamento morale si sostituisce un precetto legale, alla limpidità della spiritualità biblica subentra la meschinità dell’interesse privato, anche se ammantato di autorizzazioni ufficiali.
Ritorna anche in questo evento della vita di Gesù l’afflato della fede profetica che impediva al legalismo e al ritualismo di soffocare l’anima profonda della religione biblica. L’interiorità della coscienza e l’impegno di giustizia e carità debbono sempre avere il primato sui regolamenti e sui codici sacrali e sociali.

Pubblicato il 08 ottobre 2012 - Commenti (3)
01
ott

Cinquemila uomini

La moltiplicazione dei pani, miniatura di Daniele di Uranc, 1433. Manoscritto 4963 foglio 2v. Yerevan (Armenia).
La moltiplicazione dei pani, miniatura di Daniele di Uranc, 1433. Manoscritto 4963 foglio 2v. Yerevan (Armenia).

"Tutti mangiarono a sazietà…
Quelli che avevano mangiato
i pani erano cinquemila uomini.
"


(Marco 6,44)

Questa volta affrontiamo una questione che potrà sembrare secondaria. Ci interessiamo dei numeri nei cui confronti il mondo semitico (ma non solo) non si comporta con criteri solo quantitativi, come accade ora a noi, ma soprattutto qualitativi. Anche chi non ha una grande assuefazione con la Bibbia sa che numeri come 3 o 7 o 12 o 40 hanno spesso valore simbolico e sono segni di pienezza o perfezione. L’Apocalisse, al riguardo, è emblematica: tra cardinali, ordinali e frazionali ci offre ben 283 cifre! E tutti citano quel passo in cui si afferma che «il numero della Bestia è 666» (13,18), che è multiplo del 6 e somma di multipli del 6 (600 + 60 + 6): esso equivale al 7 “decapitato” (–1) o il 12 “dimezzato”. Per non dire poi che – secondo l’antica scienza della “ghematria” per la quale le lettere alfabetiche hanno un valore numerico – quel 666 può essere la trascrizione “cifrata” del nome “Nerone Cesare” in ebraico, NRWN QSR: N 50 + R 200 +W6 + N 50 + Q100 + S 60 + R 200 = 666.

Ma stiamo ora all’esempio da noi proposto con l’indicazione dei fruitori della prima moltiplicazione dei pani secondo Marco: 5.000 uomini e Matteo, nel passo parallelo, aggiunge: «senza contare le donne e i bambini» (14,21). Marco per la seconda moltiplicazione dei pani riduce il pubblico a 4.000 uomini (8,9), dato confermato da Matteo (15,38), sempre con la precisazione riguardante donne e bambini che nell’antico Vicino Oriente non erano un soggetto giuridico in senso stretto e, quindi, non entravano nel computo. Qualche perplessità nasce su questa folla enorme, tenendo conto che la Galilea era una regione limitata e Gesù si fermava a parlare in piccole rade del lago di Tiberiade o su prati molto ristretti con gruppi locali abbastanza ridotti. Tra l’altro, l’evangelista parla di una suddivisione «in gruppi di 100 e 50» persone (6,40).

Effettivamente bisogna notare che il numero 1.000 era spesso adottato per designare semplicemente una grande quantità difficile da contare, oppure acquistava il valore simbolico dell’immensità e persino dell’infinito: Dio, ad esempio perdona e ama per «mille generazioni» (Esodo 34,7). Si tratterebbe, allora, solo della segnalazione di 4 o 5 moltitudini di persone. Tra l’altro, è curioso notare che il 1.000 in ebraico è ’elef, vocabolo che indica anche il “bue” che potrebbe essere l’unità di misura alimentare per un gruppo clanico o familiare esteso, come lo era allora la famiglia patriarcale.

Certo, in alcuni casi siamo in presenza di numeri reali o almeno legati a dati documentari, come accade nei censimenti di Israele nel deserto che aprono il libro dei Numeri (capp. 1-4): essi, in realtà, riflettono cifre del periodo in cui il popolo ebraico era stanziato nella terra promessa, con probabili ritocchi simbolici, soprattutto quando si parla delle «migliaia di Israele» (1,16; vedi 1Samuele 10,19-21), designazione riservata ai vari clan. Reali sono, in buona parte, i dati numerici allegati dal libro di Esdra nel capitolo 2 (ripresi in Neemia 7,6-72) riguardo ai rimpatriati da Babilonia. È, però, indubbio che la trasmissione stessa di simili dati nei vari codici biblici a noi giunti ha subìto spesso variazioni e incertezze.
Rimane, comunque, fermo il primato simbolico di alcune cifre: è, ad esempio, il caso – nel racconto della moltiplicazione dei pani – delle ceste avanzate, 12 nel primo caso, come i dodici apostoli o le tribù ebraiche; 7 nel secondo caso, come le nazioni della terra di Canaan (Atti 13,19) o i sette “diaconi” della solidarietà gerosolimitana (Atti 6,5). D’altronde, la sazietà e l’abbondanza sono tipiche del banchetto messianico.

Pubblicato il 01 ottobre 2012 - Commenti (1)

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Autore del blog

Gianfranco Ravasi

Gianfranco Ravasi

Gianfranco Ravasi è un cardinale, arcivescovo cattolico e biblista italiano, teologo, ebraista ed archeologo.
Dal 2007 è presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, della Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa e presidente della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra.

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