28 lug
Pieter Paul Rubens (1577-1640), Cristo risorto, Firenze, Galleria Palatina.
"Chi ci separerà
dall’amore
di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione,
la fame, la nudità,
il pericolo,
la spada?
In tutte queste
cose siamo supervincitori!
(Romani 8,35.37)"
Forse qualcuno si stupirà per la nostra
traduzione, apparentemente troppo moderna,
dell’ultima riga del frammento
paolino proposto per la nostra riflessione:
«siamo supervincitori!». In realtà, questa è
proprio la traduzione quasi letterale del verbo
greco usato dall’Apostolo, hypernikômen,
“noi stravinciamo”. La frase, però, prosegue
con una specificazione necessaria che ora
esplicitiamo: noi trionfiamo sul male «grazie
a colui che ci ha amati». Alla radice della nostra
potenza c’è l’invincibile amore divino,
che diventa la nostra fortezza invalicabile
da parte delle orde del male che ci assedia. Ci
sentiamo coraggiosi e sereni, un po’ come Geremia,
giovane fragile e sensibile che, però,
nel giorno della sua vocazione aveva ricevuto
dal Signore questa promessa: «Io faccio di
te come una città fortificata, una colonna di
ferro e un muro di bronzo» (1,18).
San Paolo elenca le oscure energie che vorrebbero
strapparci dall’abbraccio a Cristo, abbattendo
così la nostra fede. Secondo la tipica
simbologia numerica, egli elenca un settenario
di forze nemiche: la tribolazione,
l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità,
il pericolo, la spada. Sono segni diversi di
uno stato di prova in cui si miscelano angustie
interiori e incubi esterni, e che potrebbero
essere trascritti ai nostri giorni ricorrendo
alle varie difficoltà personali e sociali in cui
viene a trovarsi chi tiene alta la fiaccola della
sua fede in Cristo. È un po’ quello che aveva
fatto lo scrittore Ferruccio Parazzoli quando
aveva intitolato un suo romanzo del 1990 La
nudità e la spada, descrivendo però vicende
ecclesiali – naturalmente trasfigurate – contemporanee
a quegli anni.
Il nostro passo è incastonato in un paragrafo
più ampio ove l’Apostolo elenca un’altra
serie di ostacoli o di forze che cercano di costringerci
a un’apostasia da Cristo. Ecco la
nuova lista che si modula, però, questa volta
su un altro simbolismo numerico, quello decalogico:
«Né morte né vita, né angeli né principati,
né presente né avvenire, né potenze,
né altezza né profondità, né alcun’altra creatura
potrà mai separarci dall’amore di Dio
che è in Cristo Gesù, nostro Signore» (Romani
8,38-39). La visione si fa ora ancor più
grandiosa e assume contorni cosmici e storici.
Contro di noi può militare un esercito possente
e misterioso, nel quale marciano anche
oscure forze diaboliche; ma l’amore del
Signore è onnipotente e impedirà che il suo
fedele gli sia strappato.
Per comprendere appieno questa sorta di
cantico di vittoria, bisogna tener conto della
collocazione del nostro brano: esso è incastonato
nel capitolo 8 del capolavoro teologico
di Paolo, la Lettera ai Romani. Ebbene, in tutti
i capitoli precedenti, l’Apostolo ha dipinto
il dilagare del male e del peccato sulla distesa
dell’umanità e della sua storia. Da qui in
avanti, invece, si celebra la potenza gloriosa
dello Spirito «che dà vita in Cristo Gesù e libera
dalla legge del peccato e della morte»
(8,2). Per questo il fedele, che è salvato
dall’amore di Cristo, avanza ora sereno e fiducioso
anche in mezzo alle tempeste
dell’esistenza, stringendosi al suo Signore
e Salvatore. Riecheggiano le parole di Cristo
in quel tramonto della sua ultima sera terrena,
all’interno del Cenacolo: «Nel mondo
avrete tribolazioni, ma abbiate coraggio: io
ho vinto il mondo!» (Giovanni 16,33).
Pubblicato il 28 luglio 2011 - Commenti (3)
21 lug
Scuola di Raffaello. Storie della Genesi: creazione del sole e della luna. Vaticano, Logge
"Sorge il sole da un'estremità del cielo, la sua orbita raggiunge l'altro estremo: nulla si sottrae al suo calore
(Salmo 19, 7)"
Tutto è immobile sotto un sole estivo incandescente;
nelle distese desertiche non
c’è riparo dal suo ardore, ma anche le case
delle città sono avvolte dalla calura. Eppure
il sole, sorgente di luce, è nello stesso tempo
fonte di vita. Come si legge in un testo ebraico,
un bambino chiede al maestro che cosa deve fare
la persona giusta. La risposta è: «Il sole ha
forse bisogno di fare qualcosa? Si leva, tramonta,
riscalda l’anima facendola esultare.
Il giusto deve solo imitarlo». Per tale via questo
astro è divenuto nel Vicino Oriente non solo
un segno divino, ma è stato identificato anche
con la stessa divinità. Celebre è la riforma
“monoteistica” del faraone Akhnaton (XIV secolo
a.C.), incentrata sul dio solare Aton.
Noi ora contempliamo l’irraggiare della luce
solare con gli occhi di un antico poeta biblico,
l’autore del Salmo 19, dal quale abbiamo
estratto un frammento che dipinge – secondo
la concezione geocentrica di allora –
l’orbita solare che percorre tutto l’arco del
cielo, considerato in quei tempi come una calotta
metallica, una cupola immensa (il “firmamento”).
L’invito che rivolgiamo ai nostri
lettori è, però, quello di seguire sulla loro
Bibbia l’intera trama di questo inno, luminoso
sia astronomicamente sia teologicamente.
Infatti, in esso risplendono come due soli,
l’uno fisico e l’altro spirituale.
Si comincia appunto con la raffigurazione
del “luminare maggiore” (Genesi 1,16), il sole
che risplende in cielo, che il Salmista dipinge
come un eroe che, dopo essere uscito dal talamo
nuziale ove ha trascorso la notte (le tenebre),
inizia la sua trionfale corsa sull’orizzonte,
rivelandosi simile a un atleta che non conosce
soste e stanchezza. Tutto il nostro pianeta è
avvolto dalla morsa della sua presenza ardente.
Questa simbologia era nota anche in alcuni
testi mesopotamici che invocavano così il dio
Sole: «O Sole, guerriero e atleta, e tu, Notte,
sua sposa, lanciate uno sguardo favorevole alle
mie pie azioni».
Ma nell’inno biblico c’è qualcosa di più: il sole,
che regola il ritmo del dì e della notte, non è
contemplato solo con animo lirico. In esso, ma
anche nel cielo, nel giorno e nella notte, si
cela un messaggio segreto del loro Creatore.
Un grande commentatore del Salterio, il tedesco
Hermann Gunkel, scopriva nei primi versetti
del Salmo «una musica silenziosa» che solo
l’orecchio della fede riesce a cogliere: «I cieli
narrano la gloria di Dio, il firmamento annunzia
l’opera delle sue mani. Il giorno al giorno
ne affida il messaggio e la notte alla notte ne
trasmette notizia, senza discorsi, senza parole,
senza che si oda alcun suono. Eppure la loro voce
si espande per tutta la terra…».
Così si procede fino al versetto 7, il passo da
noi citato. Da lì in avanti, invece, appare un altro
sole, quello spirituale della Legge divina,
della parola sacra che è nella Bibbia, la Torah,
descritta appunto con attributi solari: «I Comandamenti
del Signore sono radiosi, illuminano
gli occhi. La parola del Signore è chiara...
Anche il tuo servo ne è illuminato». Come
il sole fisico illumina col suo fulgore l’universo,
così Dio illumina l’umanità con lo
sfolgorare della sua parola. L’orizzonte naturale
ha come fonte di luce l’astro solare; la Legge
divina è la grande lampada che dà luce
all’orizzonte morale. La voce della natura, come
si è visto, era silenziosa; quella della parola
di Dio è invece squillante, rallegra il cuore e
illumina gli occhi dello spirito.
Pubblicato il 21 luglio 2011 - Commenti (1)
14 lug
James Sowerby (1740-1803): Brassica arvensis, pianta di senape selvatica.
"Il Regno dei cieli è simile a un grano di senape. E' il più piccolo di tutti i semi; eppure cresciuto, è più grande delle altre piante dell'orto, tanto che gli uccelli nidificano tra i suoi rami
(Matteo 13, 31-32)"
Senza ricorrere ai grossi manuali di botanica,
basta cercare su un qualsiasi
modesto dizionario la voce senapa e si
leggerà più o meno questa definizione: «Pianta
brassicacea, il cui seme minutissimo, di sapore
acuto, si macina per farne una mostarda
(la “senape”) e, in medicina, revulsivi (“senapismi”)
». Gesù tiene, quindi, nel palmo della
mano alcuni di questi grani neri minuti e davanti
a sé e ai suoi discepoli vede ergersi l’arbusto
alto e svettante di una senapa orientale,
molto più vigorosa della nostra, capace persino
di reggere un nido d’uccelli.
È una scena molto quotidiana e familiare
che si può immaginare ambientata in un viottolo
lungo il quale si allineano gli orti con le
loro modeste coltivazioni. Come sempre, Gesù
non veleggia – come fanno certi predicatori
– sopra le teste dei suoi ascoltatori, ma
parte dai loro piedi, ossia da quella terra sulla
quale sono piantati per condurre una vita
spesso disagiata e stentata, e da lì sa poi condurli
verso un orizzonte più elevato, di natura
religiosa e spirituale. Cerchiamo, dunque,
di cogliere questo movimento rivolto verso
l’infinito di Dio ma che parte da un vegetale
domestico.
Ci riferiremo, allora, all’interpretazione del
simbolismo sotteso a questa che è una delle
35 parabole narrate dai Vangeli (c’è chi ne conta
fino a 72, allargando però il concetto di “parabola”
anche a paragoni ampi, a frammenti
narrativi, a metafore espanse). Gli studiosi propongono
un’oscillazione tra due possibilità interpretative
che, a nostro avviso, riescono a
coesistere. Da un lato, il racconto esalta un
contrasto forte e fin provocatorio tra un
«più piccolo» e un «più grande»: tra le nostre
mani c’è questo seme minuto e davanti ai nostri
occhi un albero. Non si può ignorare la discontinuità,
la sorprendente differenza. Eppure
alla base sono la stessa realtà.
La lezione, ossia lo sguardo dell’anima che
sale verso il divino, cioè il Regno dei cieli, è
limpida e semplice. Il progetto di salvezza, di
pace, di amore, di verità e giustizia che Dio
vuole attuare nel mondo con Cristo e con chi
lo segue – tale è il senso della locuzione “Regno
dei cieli” – è apparentemente piccolo, fin
minuscolo, presente in un uomo umile come
Gesù di Nazaret e in un «piccolo gregge» di discepoli,
votati alla sconfitta in un confronto
con le potenze trionfali del male. Eppure la logica
del seme che diventa un albero vale anche
per il Regno e la parabola si trasforma in
un vero e proprio canto di fiducia e speranza
che spazza via gli scoraggiamenti, gli sconforti,
le frustrazioni e le delusioni.
D’altro lato, molti esegeti definiscono questo
racconto una “parabola di crescita”. L’elemento
fondamentale sarebbe proprio l’evoluzione
tra il seme e l’albero, il dinamismo efficace
che necessariamente fa esplodere l’energia
vitale del chicco di senapa e lo fa espandere
in modo sorprendente e inatteso. Si ha, così,
un altro sguardo verso l’alto, partendo da
quel semplice vegetale: è la celebrazione della
grazia divina che opera potentemente, superando
i limiti, gli ostacoli, le crisi. Come è evidente,
anche con questa interpretazione ritroviamo
la stessa lezione di fiducia e di serenità,
ma da un altro angolo di visuale.
Pubblicato il 14 luglio 2011 - Commenti (1)
07 lug
Vincent van Gogh, Pioggia (1889). Filadelfia, Philadelphia Museum of Art.
Come la pioggia e la neve scendono giù dal cielo, e non vi ritornano senza averla irrigata, fecondata e fatta germogliare, per dare seme al seminatore e pane a chi mangia, così sarà della parola uscita dalla mia bocca.
(Isaia 55, 10-11)"
La parola ebraica majîm, “acqua”, risuona
580 volte nell’Antico Testamento, come
l’equivalente greco hydôr ritorna 76
volte nel Nuovo Testamento (metà di esse
nel solo Vangelo di Giovanni). Circa 1.500
versetti dell’Antico e oltre 430 del Nuovo Testamento
sono “intrisi” d’acqua perché – oltre
ai vocaboli citati – c’è una vera e propria
costellazione di realtà che ruotano attorno
a questo elemento vitale, a partire dal mare
che spesso ha connotati negativi, quasi fosse
simbolo del caos che attenta al creato, passando
attraverso le piogge (che in ebraico
hanno nomi diversi secondo le stagioni), le
sorgenti, i fiumi, i torrenti, i canali, i pozzi, le
cisterne, la neve e così via.
Si comprende, allora, perché l’acqua si trasformi
in un emblema di Dio che in un Salmo
“primaverile”, il 65, è celebrato come il
supremo agricoltore che irriga le campagne
con il carro delle acque. Anche nella letteratura
dei Cananei, gli indigeni della Terra Santa,
si cantava «la pioggia effusa dal Cavaliere
divino delle nubi versate dalle stelle», mentre
il bacio fecondo del dio Baal faceva germogliare
la vegetazione e il temporale era
concepito come il suo orgasmo che donava alla
terra arida e assetata il seme vitale della
pioggia. A questa visione “panteistica” e materialista
la Bibbia si oppone e vede nella
«sorgente di acqua viva» (Geremia 2,13) solo
un simbolo del Signore.
Nel frammento che ora proponiamo – e
che costituisce in pratica l’ultima pagina del
cosiddetto Secondo Isaia (capp. 40-55), profeta
anonimo del VI sec. a.C. la cui opera è entrata
nel libro del grande Isaia (VIII sec. a.C.) –
l’acqua, unita alla neve, diventa invece un segno
della parola di Dio senza la quale l’esistenza
umana si tramuta in un deserto sterile.
Ciò che il profeta vuole marcare è soprattutto
la fecondità e l’efficacia di questa parola,
comparata al tipico processo naturale della
pioggia, dell’evaporazione, delle nubi e della
nuova pioggia. È un ciclo vitale che trasforma
la nostra vicenda umana quasi in una parola
divina capace, a sua volta, di rendere fertili altri
ambiti della storia.
Soprattutto si insiste sul vigore che ha in
sé la parola di Dio: essa «non ritorna a me»,
dice il Signore, «senza effetto, senza aver operato
ciò che desidero e senza aver compiuto
ciò per cui l’ho mandata». Come è evidente,
l’immagine idrica trascolora e trapassa in
quella di un messaggero celeste che ritorna
dal suo re dopo aver compiuto la sua missione.
Lasciamo, però, questa suggestiva raffigurazione
della rivelazione divina, fonte di vitalità
spirituale, e ritorniamo alla più realistica
pioggia da cui siamo partiti, che è anch’essa
principio di vitalità ma fisica.
Concluderemo, dunque, con un’invocazione
delle Diciotto Benedizioni, testo capitale
del culto giudaico: «Siano rugiada e pioggia
come una benedizione su tutta la superficie
della terra. Benedici i prodotti della terra perché
ne goda il mondo intero e concedi benedizione,
abbondanza e successo all’opera delle
nostre mani!».
Pubblicato il 07 luglio 2011 - Commenti (1)
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