10 set
Liberazione di un indemoniato, ex voto. Cesena, Madonna del Monte.
"Nella sinagoga
vi era un uomo
posseduto da uno
spirito impuro.
Cominciò
a gridare:
«Che vuoi da noi,
Gesù Nazareno?
Io so chi tu sei:
il Santo di Dio!»"
(Marco 1,23-24)
Siamo nella cosiddetta “giornata di Cafarnao”:
nell’arco di un giorno e nello
spazio di questa cittadina che s’affaccia
sul lago di Tiberiade, Gesù compie una serie
di atti miracolosi. Uno di questi eventi si svolge
nella sinagoga locale (quella che Giovanni
inserì come fondale per il celebre discorso
di Gesù sul “pane di vita”): all’improvviso
una persona si alza nell’assemblea, mentre
Gesù sta insegnando con grande autorità, e
gli si scaglia contro interpellandolo e apostrofandolo
(Marco 1,21-26). Chi travolge
quest’uomo apparentemente normale, facendone
un avversario di Cristo?
In lui agisce un’inattesa presenza specifica,
sollecitata dalla parallela presenza di Gesù. È
una presenza vitale e personale che interloquisce
con Cristo, paradossalmente riconoscendolo
come «Santo di Dio», rivelandosi quindi come
dotata di una trascendenza e di un’origine
divina. Si ha, perciò, un’epifania di Satana il
quale sa di avere come avversario Dio stesso,
presente e operante in Gesù Cristo. Non
possiamo qui ridurre l’evento a una guarigione
da una malattia grave, come la demenza (Marco
5,1-20) o l’epilessia (9,14-29), casi che in seguito
considereremo e rubricati dagli evangelisti
come possessioni diaboliche.
Sappiamo, infatti, che nell’antico Vicino
Oriente si era inclini a porre sotto l’insegna
del demoniaco tutto il negativo della storia:
le malattie fisiche, le devianze psichiche, gli
influssi sociali nefasti, il peccato personale, il
male in generale. Qui, invece, si ha una presenza
personale specifica; è l’incontro con un
essere misterioso che si erge contro Cristo dichiarandosi
suo avversario; con lui Gesù ingaggia
un duello che si risolve con un comando
efficace e salvatore: «Esci da quest’uomo!».
E, in finale, l’urlo che si ode rappresenta il grido
di sconfitta di Satana. La salvezza non viene
da formule e gesti esoterici, da filtri o pozioni
magiche, ma solo da un ordine autorevole
e operativo di Cristo.
Al centro di questo racconto non c’è, quindi,
lo “spirito impuro”, il diavolo, ma Cristo liberatore
dal male. Il cristianesimo rigetta ogni
forma di dualismo che veda come arbitri della
storia e dell’essere due divinità antitetiche: il
demonio non è il principio del male che combatte
il principio divino del bene. Satana (in
ebraico “avversario”) è inferiore a Dio ed è
da lui controllato e dominato. Anche se, dunque,
la sua presenza dev’essere ridimensionata,
il diavolo (in greco, “colui che divide”) è un
essere personale che agisce con forza. Certo,
l’uso del termine “persona” è per lui un po’ improprio,
perché si tratta di un concetto positivo,
usato anche per Dio (ad esempio, le tre
“persone” della Trinità).
Satana è, invece, l’antitesi di Dio, nel quale
l’essere persona è pienezza assoluta; è l’antitesi
anche dell’uomo, la cui persona dovrebbe
essere segno di intimità, di donazione, di
amore. Lo scrittore francese agnostico André
Gide scriveva: «Se il diavolo potesse, direbbe:
Io sono colui che non sono». E curiosamente
lo stesso autore concludeva: «Non credo nel
diavolo; ma è proprio quello che il diavolo
spera: che non si creda in lui». A lui farà eco
Giovanni Papini quando diceva che «l’ultima
astuzia del diavolo fu quella di spargere la voce
della sua morte».
Pubblicato il 10 settembre 2012 - Commenti (2)
14 giu
Albrecht Altdorfer (1480-1538), Martirio di san Floriano. Firenze, Galleria degli Uffizi.
"Chi scandalizzerà
uno solo di questi
piccoli che credono
in me, gli conviene
che gli venga appesa
al collo una macina
da mulino e sia
gettato nel profondo
del mare".
(Matteo 18,6)
Spesso questa frase è stata addotta per condannare i pedofili e persino per giustificarne la condanna a morte. Come può il “mite” Gesù che insegna il perdono, pur condannando la colpa, giungere a questo punto di crudeltà? Per interpretare correttamente il testo dobbiamo procedere per gradi. Innanzitutto puntiamo al soggetto coinvolto nello “scandalo”, termine che, come è noto, indica letteralmente il far “inciampare” uno e farlo cadere a terra, simbolo anche della tentazione perversa. Nell’originale greco non si parla di “bambini” (paidía), bensì di “piccoli” (mikroí), una categoria non anagrafica ma esistenziale, tant’è vero che subito dopo è specificata con la frase «che credono in me». Ferma restando la condanna che noi dobbiamo assegnare all’infamia della pedofilia, la questione qui trattata da Gesù è differente: di scena sono coloro che sono deboli nella fede, “piccoli” nel credere, che devono ancora crescere e che possono essere facilmente scandalizzati dal nostro cattivo esempio di “maturi” e “adulti” nella fede. Anche san Paolo ammonisce i cristiani di Roma a saper «accogliere chi fra di voi è debole nella fede, senza discuterne le esitazioni» (14,1). Cristo, dunque, condanna con durezza chi mette consapevolmente in crisi il fratello “piccolo” nella fede.
E lo fa ricorrendo a un simbolo di giudizio severissimo, il cosiddetto katapontismós praticato dai Romani, ossia l’esecuzione dei colpevoli per annegamento, attestata dagli storici Svetonio e Giuseppe Flavio. Ora, per tirare le fila sul valore generale di questo passo veemente, è necessario ricordare che il linguaggio semitico, usato anche da Gesù, ama i colori accesi, soprattutto nel caso di maledizioni, cioè di invocazioni del giudizio divino nei confronti delle colpe gravi. Pertanto, quel Gesù – che ha insegnato appunto l’amore e il perdono – non può certo suggerire una simile macabra esecuzione capitale o il suicidio del peccatore. Egli, però, non si astiene dal denunciare il male e ricorre a un’immagine terribile, destinata a far comprendere la gravità della colpa di chi scandalizza il fratello dalla fede fragile. È un modo simbolico e vigoroso, tipico del linguaggio orientale dalle tinte forti, per ricordare il severo giudizio divino riguardo aquel peccato. L’immagine del legare al collo la pesante macina, con un foro destinato a contenere la barra che l’asino avrebbe fatto ruotare, diventa un segno della severa condanna che incombe sullo scandalizzatore, segno che noi potremmo riutilizzare per altri giudizi su colpe gravi, sempre tenendo conto delle premesse interpretative sopra fatte. Come scrive un commentatore dei Vangeli, Simon Légasse, «la terribile sorte dell’annegato con la mola al collo è poca cosa in confronto a ciò che attende nel giudizio ultimo di Dio colui che ha provocato lo scandalo».
Pubblicato il 14 giugno 2012 - Commenti (2)
07 giu
Il profeta Elia, mosaico absidale. Ravenna, Sant'Apollinare in Classe.
"Verrà Elia e ristabilirà
ogni cosa.
Ma io vi dico: Elia è già
venuto e non l'hanno
riconosciuto."
(Matteo 17, 11-12)
Questa frase di Gesù è una risposta a un quesito di Pietro, Giacomo e Giovanni, mentre stanno scendendo dal monte della Trasfigurazione: «Perché gli scribi dicono che prima deve venire Elia?». Per spiegarel’enigma di quel “prima” e di questo ritorno del profeta Elia sulla scena del mondo, dobbiamo risalire alla fonte che aveva generato questa credenza sostenuta dagli scribi giudaici di quel tempo. Essa è da identificare in una frase del profeta Malachia nella quale Dio dichiarava: «Io invierò il profeta Elia prima che giunga il giorno grande e terribile del Signore» (3,23). A sua volta, questa evidente base biblica dell’affermazione degli scribi ha la sua matrice nel racconto della fine di Elia, assunto in cielo per una piena comunione con Dio (2Re 2,1-13).
Era sorta, così, la convinzione che il profeta, vivente per sempre presso Dio dopo la sua ascensione al cielo, sarebbe ritornato ad annunciare al mondo la venuta del Messia e il giudizio finale. Non mancherà nella tradizione successiva ebraica, cristiana e musulmana – di stampo, però, esoterico e fin eterodosso – chi affermasse la sua reincarnazione, dottrina in verità aliena all’antropologia biblica che, invece, proclama la risurrezione. La tesi del ritorno di Elia, vivacemente sostenuta da certi testi apocrifi giudaici come il Libro di Enok, ha lasciato tracce nel rituale ebraico della circoncisione, durante la quale si lascia libera la cosiddetta “sedia di Elia” nella speranza che egli si renda presente.
Nella cena pasquale si ha il “calice di Elia”, tenuto colmo sperando che egli venga a comunicare l’arrivo del Messia attraverso la porta di casa lasciata socchiusa. Si riteneva anche, a livello popolare, che Elia venisse costantemente sulla terra, senza essere riconosciuto, a sostenere i poveri, i malati e i moribondi. Si spiega, così, il fatto che, quando Gesù in croce grida l’avvio del Salmo 22 in aramaico ’Elî, ’Elî, lemâ sabachtanî («Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?»), la folla che assiste confonda quell’’Elî, ’Elî come un’invocazione rivolta al profeta protettore dei moribondi: «Alcuni dei presenti dicevano: “Costui chiama Elia!”... Gli altri dicevano: “Vediamo se viene Elia a salvarlo!”» (Matteo 27,47.49).
Con questi antefatti è facile comprendere la risposta di Gesù ai suoi apostoli: «Elia è già venuto e non l’hanno riconosciuto; anzi, l’hanno trattato come hanno voluto». Cristo si proclama, dunque, come Messia e dichiara che il suo Elia annunziatore fu Giovanni Battista. Ma la gente non lo riconobbe come precursore del Messia Gesù e lo condannò al martirio. L’evangelista Matteo alla fine esplicita questa interpretazione aggiungendo: «Allora i discepoli compresero che egli parlava di Giovanni Battista» (17,13). Già in un’altra occasione, dopo aver tessuto l’elogio del Battista, Gesù aveva ribadito questa identificazione simbolica: «Se lo volete accettare, egli è quell’Elia che deve venire» (11,14).
Pubblicato il 07 giugno 2012 - Commenti (1)
28 lug
Pieter Paul Rubens (1577-1640), Cristo risorto, Firenze, Galleria Palatina.
"Chi ci separerà
dall’amore
di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione,
la fame, la nudità,
il pericolo,
la spada?
In tutte queste
cose siamo supervincitori!
(Romani 8,35.37)"
Forse qualcuno si stupirà per la nostra
traduzione, apparentemente troppo moderna,
dell’ultima riga del frammento
paolino proposto per la nostra riflessione:
«siamo supervincitori!». In realtà, questa è
proprio la traduzione quasi letterale del verbo
greco usato dall’Apostolo, hypernikômen,
“noi stravinciamo”. La frase, però, prosegue
con una specificazione necessaria che ora
esplicitiamo: noi trionfiamo sul male «grazie
a colui che ci ha amati». Alla radice della nostra
potenza c’è l’invincibile amore divino,
che diventa la nostra fortezza invalicabile
da parte delle orde del male che ci assedia. Ci
sentiamo coraggiosi e sereni, un po’ come Geremia,
giovane fragile e sensibile che, però,
nel giorno della sua vocazione aveva ricevuto
dal Signore questa promessa: «Io faccio di
te come una città fortificata, una colonna di
ferro e un muro di bronzo» (1,18).
San Paolo elenca le oscure energie che vorrebbero
strapparci dall’abbraccio a Cristo, abbattendo
così la nostra fede. Secondo la tipica
simbologia numerica, egli elenca un settenario
di forze nemiche: la tribolazione,
l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità,
il pericolo, la spada. Sono segni diversi di
uno stato di prova in cui si miscelano angustie
interiori e incubi esterni, e che potrebbero
essere trascritti ai nostri giorni ricorrendo
alle varie difficoltà personali e sociali in cui
viene a trovarsi chi tiene alta la fiaccola della
sua fede in Cristo. È un po’ quello che aveva
fatto lo scrittore Ferruccio Parazzoli quando
aveva intitolato un suo romanzo del 1990 La
nudità e la spada, descrivendo però vicende
ecclesiali – naturalmente trasfigurate – contemporanee
a quegli anni.
Il nostro passo è incastonato in un paragrafo
più ampio ove l’Apostolo elenca un’altra
serie di ostacoli o di forze che cercano di costringerci
a un’apostasia da Cristo. Ecco la
nuova lista che si modula, però, questa volta
su un altro simbolismo numerico, quello decalogico:
«Né morte né vita, né angeli né principati,
né presente né avvenire, né potenze,
né altezza né profondità, né alcun’altra creatura
potrà mai separarci dall’amore di Dio
che è in Cristo Gesù, nostro Signore» (Romani
8,38-39). La visione si fa ora ancor più
grandiosa e assume contorni cosmici e storici.
Contro di noi può militare un esercito possente
e misterioso, nel quale marciano anche
oscure forze diaboliche; ma l’amore del
Signore è onnipotente e impedirà che il suo
fedele gli sia strappato.
Per comprendere appieno questa sorta di
cantico di vittoria, bisogna tener conto della
collocazione del nostro brano: esso è incastonato
nel capitolo 8 del capolavoro teologico
di Paolo, la Lettera ai Romani. Ebbene, in tutti
i capitoli precedenti, l’Apostolo ha dipinto
il dilagare del male e del peccato sulla distesa
dell’umanità e della sua storia. Da qui in
avanti, invece, si celebra la potenza gloriosa
dello Spirito «che dà vita in Cristo Gesù e libera
dalla legge del peccato e della morte»
(8,2). Per questo il fedele, che è salvato
dall’amore di Cristo, avanza ora sereno e fiducioso
anche in mezzo alle tempeste
dell’esistenza, stringendosi al suo Signore
e Salvatore. Riecheggiano le parole di Cristo
in quel tramonto della sua ultima sera terrena,
all’interno del Cenacolo: «Nel mondo
avrete tribolazioni, ma abbiate coraggio: io
ho vinto il mondo!» (Giovanni 16,33).
Pubblicato il 28 luglio 2011 - Commenti (3)
30 giu
Beato Angelico (1387-1455), Entrata in Gerusalemme, Armadio degli argenti, Firenze, Museo di S. Marco.
Ecco viene a te
il tuo re,
giusto, vittorioso,
umile,
cavalca
un asino…
Farà sparire
il carro da guerra
e il cavallo,
e l’arco da guerra
sarà spezzato.
(Zaccaria, 9, 9-10)"
Siamo abituati a connettere questo oracolo del profeta Zaccaria a una scena a noi familiare, quella dell’ingresso trionfale di Gesù a Gerusalemme. Ed effettivamente Cristo avanza su un’asina accompagnata da un puledro e l’evangelista Matteo subito annota: «Questo avvenne perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta…» (21,4-5) e si fa seguire la prima parte del frammento che stiamo esaminando insieme. Ebbene, vorrei porre innanzitutto l’accento proprio su quella cavalcatura che ai nostri occhi risulta modesta, l’asino, e sull’altro animale che per noi sarebbe molto più degno di un sovrano, il nobile ed elegante cavallo.
Ora, si deve ricordare che l’asino era la cavalcatura
dei principi e dei re in tempo di pace,
mentre il cavallo col suo incedere potente
e fulmineo era più adatto alle campagne
militari. Di quest’ultimo Giobbe ci ha lasciato
un ritratto folgorante: «Scalpita nella valle
superbo, con impeto va incontro alle armi.
Disprezza la paura, non teme né retrocede
davanti alla spada. Su di lui tintinna la faretra,
luccica la lancia e il giavellotto. Eccitato
e furioso, divora lo spazio; al suono del
corno non riesce a trattenersi. Al primo
squillo nitrisce: Aah…! E da lontano fiuta la
battaglia, le urla dei comandanti, il grido di
guerra» (39,21-25).
Il re che Zaccaria tratteggia ha ormai i lineamenti
messianici, e la sua non è un’opera di
distruzione ma di pacificazione e per questo
sceglie l’asino come cavalcatura. Significativi
sono, infatti, due gesti che egli compie.
Primo atto: abolisce l’esercito e gli armamenti,
eliminando carri da guerra e archi da combattimento.
È un po’ quello che sognava Isaia come
ultima meta messianica: «Spezzeranno le
loro spade e ne faranno aratri, trasformeranno
le loro lance in falci. Una nazione non alzerà
più la spada contro un’altra, non ci saranno
più esercitazioni militari» (2,4). C’è, però, anche
un secondo atto che questo re atteso e sperato
metterà nel suo programma di governo.
Egli darà il via a una diplomazia della pace,
come si legge nella riga che segue il testo
da noi citato: «Annuncerà la pace alle nazioni
». Si inaugura, così, un nuovo ordine di rapporti
internazionali, «da mare a mare, dal
Fiume ai confini della terra», ossia in tutta la
mappa geopolitica di allora, dal mar Morto
al Mediterraneo, dall’Eufrate fino all’attuale
Gibilterra, considerata come la frontiera
estrema della terra. Che questo sovrano sia
ben diverso dai politici della storia – e quindi
dagli stessi re di Giuda – appare dai tre titoli
che il profeta gli assegna.
Il primo attributo è «giusto», non solo perché
«renderà giustizia al popolo e ai poveri
secondo il diritto» (Salmo 72,2), ma soprattutto
perché in lui brillerà la giustizia divina
che è sinonimo di salvezza e benedizione.
In secondo luogo egli è «vittorioso», in
ebraico si ha la radice del verbo “salvare”,
perché su di lui risiede la protezione divina
che lo custodisce dal male che lo assedia.
Infine, il re messianico sarà «umile», in
ebraico ’anî, cioè povero, semplice, lontano
dall’arroganza e dalle prevaricazioni del potere,
simile al «popolo umile e povero» (Sofonia
3,12). Quando all’orizzonte avanzerà
un tale sovrano, si udrà un canto di gioia corale:
«Esulta grandemente, figlia di Sion,
giubila, figlia di Gerusalemme», dichiara infatti
Zaccaria in apertura al nostro frammento
biblico.
Pubblicato il 30 giugno 2011 - Commenti (1)
23 giu
San Paolo, mosaico della volta, Ravenna, Arcivescovado.
"Per me il vivere è Cristo e il morire un guadagno."
(Filippesi 1,21)
Potrebbe essere assunto quasi come il
motto di san Paolo. Sono poche parole
che nell’originale greco suonano così:
emoì gàr tò zèn Christòs kaì tò apothaneìn kérdos.
Il contrasto “vita e morte”, classico in tutte
le culture, viene dissolto perché il morire
non s’affaccia sul baratro del nulla: chi vi approda,
infatti, porta nella sua persona e nella
sua esistenza Cristo che è Figlio di Dio e,
quindi, vivente per sempre nell’eternità divina.
Anzi, avviene qualcosa di paradossale:
proprio perché, varcata la soglia del tempo,
non si hanno più le turbolenze della storia,
le fragilità della creatura, le debolezze della
persona che possono incrinare quell’intimità
con Cristo già ora vissuta, il morire diventa
un “guadagno”.
Certo, qualche tensione permane, come l’Apostolo fa notare nelle righe che seguono: «Sono stretto fra queste due cose: ho il desiderio di lasciare questa vita per essere con Cristo (il che sarebbe meglio); ma per voi [ossia per i cristiani di Filippi e per quelli delle altre Chiese] è più necessario che io rimanga nel corpo» (1,23-24). Detto con altre parole, Paolo anela alla vita piena, totale e assoluta col suo Signore oltre la morte, ma sa di avere una missione da compiere anche nella fase temporale della sua vicenda umana, cioè quella ecclesiale che Cristo stesso gli ha affidato. Infatti, l’Apostolo definisce il «vivere nel corpo» come un «lavorare con frutto» (1,22).
Nella frase che abbiamo scelto scopriamo un aspetto particolare di questo grande evangelizzatore, la sua dimensione mistica, il suo legame intimo e profondo con Cristo, la sua comunione stretta e radicata col mistero divino che diventa una sorgente di energia e di gioia per la sua missione apostolica. Ai Galati aveva già ribadito di essere «crocifisso con Cristo»; per questo «non vivo più io, ma Cristo vive in me» (2,19-20). Ritorna un tema caro a Paolo: il cristiano attraverso il Battesimo e la fede rivive in sé il mistero pasquale di Cristo, nel suo morire e risorgere. Leggiamo con attenzione queste righe scritte ai cristiani della città di Colossi, nell’attuale Turchia centrale: «Voi siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio. Ma quando Cristo, vostra vita, sarà manifestato, allora anche voi apparirete con lui nella gloria» (3,3-4).
Una nota a margine. Sopra dicevamo che Paolo comprende la necessità che egli continui a vivere e a operare nel tempo per svolgere ulteriormente la sua missione apostolica nei confronti dei Filippesi. Ebbene, se è vero che l’intimità più alta e risolutiva è quella che unisce l’Apostolo a Cristo, è altrettanto vero che egli sente con questi cristiani – più che con gli altri – un’altra intimità, quella dell’amicizia. Questi fedeli, di un’importante città della Macedonia, lo coprono di regali, mentre egli è in custodia presso il «pretorio» (1,13) e la «casa di Cesare» (4,22), in pratica la prefettura romana di Efeso. La durezza del carcere, la solitudine e la lontananza sono lenite da un affetto che unisce, sia pure a distanza, i cuori.
Sebbene molti studiosi tendano a vedere in questa Lettera la fusione redazionale posteriore di tre missive diverse inviate da Paolo ai Filippesi, alla fine la tonalità dominante è unica. La comunione di fede e di carità che unisce mittente e destinatari è il filo segreto unitario, anche quando l’Apostolo deve mettere in guardia severamente contro le devianze dottrinali che stanno allignando a Filippi (3,2-4,1). «Sono ricolmo dei vostri doni che sono un profumo piacevole, un sacrificio gradito, caro a Dio» (4,18).
Pubblicato il 23 giugno 2011 - Commenti (1)
21 apr
Mattoni d'argilla al sole, fragile casa dell'uomo che ritorna polvere e sabbia
"Quando verrà dissolta la nostra casa terrena, cioè la tenda del nostro corpo, avremo da Dio una dimora, sarà una casa eterna, non edificata da mani d’uomo, celeste."
(2Corinzi 5,1)
Siamo «abitatori di case d’argilla, cementate
nella polvere, e che si sfasciano
come carie... Le corde della tenda
sono strappate e moriamo senza capire». Le
parole amare e realistiche del libro di Giobbe
(4,19.21) dipingono la radicale fragilità
della creatura umana che un altro sapiente
biblico, l’autore del libro della Sapienza, tratteggerà
con un linguaggio desunto dalla cultura
classica greca che marcava la tensione
tra anima spirituale e corpo materiale: «Un
corpo corruttibile appesantisce l’anima e la
tenda d’argilla grava la mente dai molti pensieri
» (9,15).
È, questa, un’esperienza che tutti proviamo
quando, attraverso una malattia, sentiamo
ramificarsi in noi la mano gelida della
morte che crea un disfacimento della «tenda
del nostro corpo» in cui sembra accampata la
nostra anima. Questa immagine nomadica
della tenda è cara naturalmente alla Bibbia
che si rivolge a un popolo di pastori.
Ecco come il re di Giuda, Ezechia, contemporaneo
di Isaia (VIII secolo a.C.), descriveva
la sua situazione dimalato grave: «La mia tenda
sta per essere divelta e scagliata lontano
da me, come una tenda di pastori. Come un
tessitore tu, o Dio, hai arrotolato la mia vita e
stai per recidermi dall’ordito» (Isaia 38,12).
Anche san Paolo ricorre a queste immagini
per descrivere la nostra morte: parla, infatti,
di “tenda”, ma rimanda pure all’emblema
del sedentario, l’oikía in greco, ossia la “casa”.
Tuttavia, il suo sguardo va oltre questa
dissoluzione che per molti è il tragico approdo
ultimo e unico della nostra esistenza. E lo
fa sulla base della fede nella risurrezione di
Cristo. Nello sfacelo della morte è, infatti,
passato lo stesso Figlio di Dio, che di sua natura
è eterno: in quell’ammasso di argilla
sfatta che è il cadavere ha deposto un germe
di eternità, vi ha immesso il principio della
nostra riedificazione gloriosa.
Ecco, allora, la nostra nuova dimora che,
come il corpo risorto di Cristo, non è «edificata
da mani d’uomo». Gesù stesso l’aveva indirettamente
affermato per sé e annunciato davanti
ai giudici del Sinedrio quando non aveva
smentito l’accusa dei testimoni che affermavano:
«Lo abbiamo udito dire: Io distruggerò
questo tempio eretto da mani d’uomo e
in tre giorni ne edificherò un altro non eretto
da mani d’uomo» (Marco 14,58). Infatti,
un giorno, dopo aver cacciato i mercanti dal
tempio, aveva dichiarato: «Distruggete questo
tempio e in tre giorni lo farò risorgere». E
l’evangelista Giovanni aveva commentato:
«Egli parlava del tempio del suo corpo»
(2,19.21). L’apostolo Paolo agli stessi cristiani
di Corinto aveva descritto così la risurrezione
che ci attende: «Si semina un corpo corruttibile
e risorge incorruttibile; si semina un
corpo animato, risorge un corpo spirituale»
(1Corinzi 15,42-44).
Significativa è l’ultima frase nell’originale
greco: ciò che ora noi siamo è un «corpo animato
», ossia congiunto e reso vivo e operante
dalla psyché, l’“anima”; ma l’attesa è per
un corpo animato dallo pneuma, cioè posseduto
e trasformato dallo Spirito di Dio, «un
corpo spirituale», pervaso dalla stessa vita divina,
la «casa eterna, non edificata da mani
d’uomo e celeste», di cui parla san Paolo nel
nostro frammento. Come cantava la poetessa
Margherita Guidacci (1921-1992), «quanto di
te sopravvive / è in altro luogo, misterioso, /
ed ormai reca un nome nuovo / che solo Dio
conosce».
Pubblicato il 21 aprile 2011 - Commenti (0)
14 apr
Deposizione, opera di Courtois Guillame (1628 - 1679), Roma, Accademia di San Luca
"Cristo Gesù svuotò sé stesso assumendo la condizione di schiavo...Umiliò sé stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte in croce."
(Filippesi 2,7-8)
Nelle nostre memorie scolastiche la città
macedone di Filippi – che portava il
nome del suo fondatore, Filippo II, padre
di Alessandro Magno (IV secolo a.C.) – è
presente per la battaglia decisiva del 42 a.C.
tra Ottaviano Augusto e Marco Antonio, da
una parte, e Bruto e Cassio, dall’altra. Battaglia
che ha generato il motto: «Ci rivedremo
a Filippi», riferito dallo storico greco Plutarco.
Per il cristianesimo, Filippi – che ancora
oggi offre una significativa testimonianza
archeologica della sua gloria antica – è legata
alla presenza di Paolo e alla Lettera che,
attorno al 55-56, indirizzò a quella comunità
cristiana a lui unita da un intenso vincolo
di amicizia.
In questo scritto, come annotava uno studioso,
Jerome Murphy O’Connor, «si sente
battere il cuore di Paolo»: «Nessuna Chiesa
aprì con me», confessa l’Apostolo, «un conto
di dare e di avere, se non voi soli... Sono ricolmo
dei vostri doni... che sono un profumo
di soave odore, un sacrificio accetto e
gradito a Dio» (4,15-18). Ora, nel capitolo 2
di questa Lettera è incastonato un inno
(2,6-11) che è modellato su un simbolo spaziale,
la discesa-ascesa di Cristo sull’asse cielo-
terra-cielo. Ecco innanzitutto la discesa
umiliante del Figlio di Dio quando s’incarna,
divenendo uomo tra gli uomini, abbandonando
la sua gloria. Anzi, il suo è un vero
e proprio precipitare in un abisso: egli, infatti,
muore in croce, il supplizio riservato agli
schiavi, agli ultimi della terra.
Solo così Cristo diventa veramente fratello
di tutte le creature umane, non escludendo
neanche quelle che sono nei bassifondi
estremi della società, inserendo, però, con il
suo passaggio nella nostra carne, la presenza
salvifica e trasformatrice della sua divinità.
Ma dalla vetta del Golgota ove si leva la croce
ha inizio l’altro movimento spaziale, quello
dell’ascesa, che l’inno descrive nella sua seconda
parte (2,9-11). Cristo ritorna nella sua
gloria con il nome di Kyrios, “Signore”, appellativo
divino; egli brilla di nuovo nella luce
della trascendenza che si era eclissata nella
morte in croce, quando Gesù si era «svuotato
» della sua dignità altissima non solo per
essere accanto all’umanità, ma anche per entrare
nel suo grembo, fatto di miseria, di limite
e di peccato così da redimerla.
Ecco, noi vorremmo ora puntare brevemente
la nostra attenzione proprio su quella
frase «svuotò sé stesso», in greco ekénosen,
un verbo che ha dato origine a un vocabolo
“tecnico” della teologia, kénosis, destinato appunto
a indicare l’abisso in cui Dio precipita
nel Figlio morto in croce e umiliato. È, questo,
il segno pieno e definitivo di quel mistero
centrale del cristianesimo chiamato
“incarnazione”. Nella kénosis-“svuotamento”
si ha, infatti, il vessillo e la sintesi della
storia di Gesù di Nazaret, divenuto uomo tra
gli uomini, povero, umile, condannato a una
pena capitale infamante, riservata solo agli
schiavi e ai ribelli antiromani. Eppure, quello
“svuotamento” liberamente scelto da Cristo
non ne annienta la divinità.
Essa riappare quando si è raggiunto il fondo
ultimo della kénosis, la morte. È là che si
apre l’alba di Pasqua, la gloria della risurrezione.
Vorremmo concludere, allora, questa
nostra riflessione sul frammento di un testo
paolino così importante con le parole che un
famoso scrittore russo, l’autore del Dottor
Živago, Boris Pasternak (1890-1960), mette
in bocca allo stesso Gesù: «Scenderò nella bara
e il terzo giorno risorgerò / e, come le zattere
discendono i fiumi, / in giudizio, da me, come
chiatte in carovana, / affluiranno tutti i secoli
dell’umanità».
Pubblicato il 14 aprile 2011 - Commenti (0)
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