01
dic

Al suono della tromba

Giudizio Universale, angelo con tromba, scuola cassinese. Capua, Sant’Angelo in Formis
Giudizio Universale, angelo con tromba, scuola cassinese. Capua, Sant’Angelo in Formis

" Il Signore,
alla voce
dell'arcangelo
e al suono della
tromba di Dio,
discenderà
dal cielo.
E prima
risorgeranno
i morti in Cristo
e quindi noi,
ancora vivi,
saremo rapiti
con loro...
"
(1 Tessalonicesi 4,16-17)

Ora è la seconda città della Grecia, importante nodo stradale e commerciale, ricca di monumenti bizantini. Allora era la capitale della Macedonia e san Paolo ricordava con piacere l’accoglienza fraterna che gli avevano riservato i pagani, ma con amarezza anche la dura reazione degli Ebrei là residenti, che avevano contro di lui ordito una sommossa popolare costringendolo a una fuga indecorosa (Atti 17,1-10). Il fedele discepolo Timoteo aveva poi recato all’Apostolo, che si trovava a Corinto, notizie della neonata Chiesa tessalonicese e dei suoi primi problemi. Paolo aveva deciso, allora, di inviare un messaggio a quella comunità, «da leggersi a tutti i fratelli».

È l’anno 51: è questo il primo scritto paolino a noi giunto e quasi certamente il primo testo (cronologicamente parlando) del Nuovo Testamento. A chi vorrà leggerlo integralmente verranno incontro tonalità differenti. C’è il registro autobiografico dei ricordi, segnato dalla nostalgia, aperto però alla speranza di un nuovo incontro. C’è il filone teologico che si sviluppa attorno a tre temi: l’amore fraterno, il mistero pasquale di Cristo e la sua parousía o ritorno finale a suggello della storia. C’è, poi, anche il tema morale e pastorale: l’Apostolo, in 5,12-28, esorta la comunità a vivere un’esistenza cristiana perfetta e pura e lo fa attraverso una sequenza di quattordici imperativi.

Il nostro frammento testuale si innesta nel filone teologico, affrontando il tema del ritorno di Cristo alla fine della storia. Lo scenario che san Paolo tratteggia è, però, modulato sul linguaggio apocalittico a quel tempo dominante che ricorreva a immagini, metafore e simboli. Così, stando sul vago, cerca di risolvere un quesito che rodeva l’anima dei cristiani tessalonicesi, convinti che quell’ultimo evento fosse imminente. Essi domandavano: in quell’istante supremo in cui risorgeranno coloro che sono morti in pace e in comunione con Cristo, i cristiani ancora vivi quale sorte avranno?

L’Apostolo ricalca l’apparato delle visioni epifaniche apocalittiche: cori celesti, trombe divine, vortici, nubi, cieli squarciati. Non è, quindi, una descrizione puntuale, ma una rappresentazione simbolica di quel passaggio dal tempo all’eterno, dallo spazio terreno all’infinito di Dio. I morti e gli ancora viventi entreranno nell’orizzonte trascendente: ai Corinzi, poi, dirà che «non tutti dovremo morire [in quel momento estremo], tutti però saremo trasformati» (1Corinzi 15,51). Soddisfatta questa curiosità dei Tessalonicesi, ciò che a Paolo preme è ribadire che il destino di tutti i fedeli è quello di «andare incontro al Signore... e così essere per sempre con lui» (4,17).

Per completezza dobbiamo, però, aggiungere una nota conclusiva. Contro l’eccitazione di coloro che, convinti dell’imminenza di quel momento ultimo, abbandonavano le loro responsabilità e i quotidiani impegni terreni, Paolo raccomanda di «fare tutto il possibile per vivere in pace, occupandosi delle proprie cose e lavorando con le proprie mani, come vi abbiamo ordinato, conducendo una vita decorosa di fronte agli estranei [i non credenti], senza aver bisogno di nessuno » (4,11-12). In passato abbiamo già avuto occasione di registrare come questo appello sia andato a vuoto, perché – nella Seconda Lettera che egli indirizzerà ai cristiani di Tessalonica – l’Apostolo sarà costretto a rivolgere loro una tirata d’orecchi ricordando che «chi non vuole lavorare, neppure mangi!» (si legga 2Tessalonicesi 3,6-15).

Pubblicato il 01 dicembre 2011 - Commenti (2)
24
nov

Non addormentatevi!

Riposo dei cavatori di Baccio Maria Bacci (1888-1974). Firenze, Galleria d'arte moderna.
Riposo dei cavatori di Baccio Maria Bacci (1888-1974). Firenze, Galleria d'arte moderna.

" Vegliate!
Non sapete
quando il padrone
di casa ritornerà:
se a sera
o a mezzanotte.
Giungendo
all'improvviso,
non vi trovi
addormentati! 
"
(Marco 13,35-36)

Lunga più del giorno sembra la notte, con le sue tenebre. Lo sa bene il sofferente insonne, come confessa Giobbe: «Notti di ansia mi sono ormai riservate. Se mi corico, dico: Quando è ora di alzarsi? La notte è sempre più lunga e io sono stanco di rigirarmi fino all’alba» (7,3-4). Isaia, come è noto, ha “sceneggiato” dal vivo questa estensione soffocante attraverso il dialogo di due sentinelle: «Sentinella, quanto resta della notte? Sentinella, quanto resta della notte? L’altra sentinella risponde: Viene il mattino, ma poi ancora la notte... » (21,11-12). Per questo era invalso l’uso di dividere l’arco della notte in “veglie”, in pratica in turni di guardia.

Gli Ebrei ne contavano tre di quattro ore ciascuna. Marco, invece, nel frammento dall’atmosfera molto tesa che abbiamo proposto, adotta il sistema di computo in vigore presso i Romani. Essi suddividevano la notte in quattro “veglie” di tre ore: si iniziava con la «sera», in greco opsé, a cui subentrava la «mezzanotte» (mesonýktion); si sentiva poi il «canto del gallo» (alektorofonía) ed ecco, infine, l’alba, il proí. Gesù, però, introduce su questa sequenza temporale un bozzetto narrativo. Siamo in un palazzo, il padrone è andato lontano, ma ormai è sulla via del ritorno. Ignota e imprevedibile è la durata della “veglia” notturna al termine della quale il signore si presenterà al portone. I servi devono, quindi, “vegliare”.

Questo verbo ricorre in apertura alla scenetta: «Vegliate», in greco gregoréite! E ritorna anche nell’appello-applicazione finale che Gesù fa al quadretto delineato: «Quello che dico a voi, lo dico a tutti: gregoréite, vegliate! » (13,37). Appare, così, una dimensione significativa della predicazione di Gesù, quella dell’urgenza per una scelta da compiere: «Tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo» (Matteo 24,44). Spesso nella predicazione attorno a questo passo evangelico si fa riferimento alla morte, che è un ospite che non s’annuncia. In realtà, Gesù rimanda al suo passaggio che avviene nella storia e nel presente e che esige una decisione netta. Potremmo evocare un’altra mirabile scenetta, quella dipinta dall’Apocalisse: «Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me» (3,20).

In questa luce si intuisce come il sonno sia il segno dell’indifferenza, anzi, del rifiuto di un impegno serio e operoso. Se è vero che la tenebra è simbolo del male e del peccato, è evidente che chi si adagia nel suo grembo facendosi accogliere e cullare diventa «figlio delle tenebre», cioè succube dell’empietà e dell’immoralità. Continuerà san Paolo, commentando idealmente le parole di Cristo: «Voi, però, non siete nelle tenebre... perché siete figli della luce e del giorno. Noi non apparteniamo alla notte, né alle tenebre. Non dormiamo, allora, come gli altri, ma vegliamo e siamo sobri!» (1Tessalonicesi 5,4-6).

Ma l’Apostolo è convinto di una necessità che vale anche per i cristiani che si lasciano lambire dal torpore: «È ormai tempo di svegliarsi dal sonno, perché adesso la salvezza è vicina... La notte è avanzata, il giorno è vicino. Perciò gettiamo via le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce!» (Romani 13,11-12).

Pubblicato il 24 novembre 2011 - Commenti (1)
15
set

La purezza del cuore

Bartolomeo Esteban Murillo (1618-1682), San Giuseppe con Gesù, Mosca, Museo Pushkin.
Bartolomeo Esteban Murillo (1618-1682), San Giuseppe con Gesù, Mosca, Museo Pushkin.

“Tutto è puro
per chi è puro.
Ma per i corrotti
e i senza fede
nulla è puro:
sono corrotte
la loro mente
e la loro coscienza."
(Tito 1,15)

Omnia munda mundis è la traduzione latina dell’avvio del testo che proponiamo: chi non ricorda che questo motto risuona sulle labbra di fra Cristoforo per placare il fraticello che non si capacita della libertà con cui il confratello introduce nella clausura del convento di Pescarenico due donne, Agnese e Lucia (Promessi sposi, cap. VIII)? Ebbene, il frammento biblico che contiene questa frase proverbiale va in quella linea, perché vuole combattere ogni ipocrisia; ma dice anche qualcos’altro che cercheremo di scoprire. Ma partiamo dal destinatario di questo monito.

San Paolo sta scrivendo a Tito, un discepolo molto caro, di origine pagana, come attesta il suo nome tipicamente latino. Lo stesso Apostolo forse l’aveva convertito, se si intende in questo senso l’appellativo «mio figlio nella comune fede» (1,4). Quanto gli fosse caro appare a più riprese soprattutto nella seconda lettera ai Corinzi, ove è descritto come il mediatore ufficiale di Paolo con quella turbolenta comunità greca. Basti leggere solo qualche battuta: «Giunto a Troade per annunziarvi il Vangelo di Cristo, anche se la porta mi era aperta nel Signore, non ebbi pace finché non vi incontrai Tito, mio fratello... Il Dio che consola gli afflitti ci ha consolati con la venuta di Tito» (2Corinzi 2,13; 7,6).

Questo amico e collaboratore era stato incaricato di reggere la Chiesa dell’isola di Creta, un’impresa ardua anche perché Paolo non aveva una grande stima di quei cittadini, tant’è vero che li bolla con un motteggio escogitato proprio da uno di loro, il poeta Epimenide di Cnosso (VI secolo a.C.): «I Cretesi sono sempre bugiardi, brutte bestie e fannulloni!» (1,12). Perritornare al nostro passo, dobbiamo riconoscere che esso si apre appunto con un detto caro anche all’insegnamento evangelico: «Non ciò che entra nella bocca rende impuro l’uomo; è ciò che esce dalla bocca a rendere impuro l’uomo», osservava Gesù (Matteo 15,16).

Sappiamo, infatti, quanto fosse rilevante per la tradizione giudaica l’osservanza della cosiddetta “purità” rituale con varie abluzioni soprattutto prima di accedere al culto. L’accento, invece, viene spostato da Cristo e da Paolo sulla purezza di coscienza, di pensieri e di opere. Per questo, «tutto è puro» per chi ha l’animo puro. Ma il nostro testo prosegue e tratteggia anche un rovescio della medaglia, e qui l’Apostolo attacca alcuni membri della comunità cretese di origine giudaica che corrompono ciò che è puro perché «sono corrotte la loro mente e la loro coscienza». Chi è sporco dentro contamina ciò che è puro; irradia attorno a sé una corrente maligna che tutto perverte.

È interessante notare che l’appello paolino contro questi cristiani – che in realtà sono ápistoi, cioè «senza fede» – mette al centro due realtà umane particolarmente apprezzate dalla cultura greca, la «mente », nous, e la «coscienza», syneídesis. Si vuole risalire alla radice ultima della corruzione e della sua forza dirompente: essa è nell’intimo dell’essere, nella sorgente della morale e quindi delle decisioni, dei pensieri e delle opere. Gesù, nel passo matteano sopra citato, diceva la stessa cosa ma usando un simbolo semitico, il cuore: «Ciò che esce dalla bocca proviene dal cuore e rende impuro l’uomo: dal cuore, infatti, provengono propositi malvagi...» e segue una lista di sette peccati o vizi, segno di una pienezza di male che si effonde corrompendo e devastando tutto. Ritorniamo, perciò, alla coscienza con quella pratica ora dimenticata che era detta appunto “l’esame di coscienza”.

Pubblicato il 15 settembre 2011 - Commenti (1)
28
lug

Siamo supervincitori

Pieter Paul Rubens (1577-1640), Cristo risorto, Firenze, Galleria Palatina.
Pieter Paul Rubens (1577-1640), Cristo risorto, Firenze, Galleria Palatina.

"Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? In tutte queste cose siamo supervincitori!
(Romani 8,35.37)"

Forse qualcuno si stupirà per la nostra traduzione, apparentemente troppo moderna, dell’ultima riga del frammento paolino proposto per la nostra riflessione: «siamo supervincitori!». In realtà, questa è proprio la traduzione quasi letterale del verbo greco usato dall’Apostolo, hypernikômen, “noi stravinciamo”. La frase, però, prosegue con una specificazione necessaria che ora esplicitiamo: noi trionfiamo sul male «grazie a colui che ci ha amati». Alla radice della nostra potenza c’è l’invincibile amore divino, che diventa la nostra fortezza invalicabile da parte delle orde del male che ci assedia. Ci sentiamo coraggiosi e sereni, un po’ come Geremia, giovane fragile e sensibile che, però, nel giorno della sua vocazione aveva ricevuto dal Signore questa promessa: «Io faccio di te come una città fortificata, una colonna di ferro e un muro di bronzo» (1,18).

San Paolo elenca le oscure energie che vorrebbero strapparci dall’abbraccio a Cristo, abbattendo così la nostra fede. Secondo la tipica simbologia numerica, egli elenca un settenario di forze nemiche: la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada. Sono segni diversi di uno stato di prova in cui si miscelano angustie interiori e incubi esterni, e che potrebbero essere trascritti ai nostri giorni ricorrendo alle varie difficoltà personali e sociali in cui viene a trovarsi chi tiene alta la fiaccola della sua fede in Cristo. È un po’ quello che aveva fatto lo scrittore Ferruccio Parazzoli quando aveva intitolato un suo romanzo del 1990 La nudità e la spada, descrivendo però vicende ecclesiali – naturalmente trasfigurate – contemporanee a quegli anni.

Il nostro passo è incastonato in un paragrafo più ampio ove l’Apostolo elenca un’altra serie di ostacoli o di forze che cercano di costringerci a un’apostasia da Cristo. Ecco la nuova lista che si modula, però, questa volta su un altro simbolismo numerico, quello decalogico: «Né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio che è in Cristo Gesù, nostro Signore» (Romani 8,38-39). La visione si fa ora ancor più grandiosa e assume contorni cosmici e storici. Contro di noi può militare un esercito possente e misterioso, nel quale marciano anche oscure forze diaboliche; ma l’amore del Signore è onnipotente e impedirà che il suo fedele gli sia strappato.

Per comprendere appieno questa sorta di cantico di vittoria, bisogna tener conto della collocazione del nostro brano: esso è incastonato nel capitolo 8 del capolavoro teologico di Paolo, la Lettera ai Romani. Ebbene, in tutti i capitoli precedenti, l’Apostolo ha dipinto il dilagare del male e del peccato sulla distesa dell’umanità e della sua storia. Da qui in avanti, invece, si celebra la potenza gloriosa dello Spirito «che dà vita in Cristo Gesù e libera dalla legge del peccato e della morte» (8,2). Per questo il fedele, che è salvato dall’amore di Cristo, avanza ora sereno e fiducioso anche in mezzo alle tempeste dell’esistenza, stringendosi al suo Signore e Salvatore. Riecheggiano le parole di Cristo in quel tramonto della sua ultima sera terrena, all’interno del Cenacolo: «Nel mondo avrete tribolazioni, ma abbiate coraggio: io ho vinto il mondo!» (Giovanni 16,33).

Pubblicato il 28 luglio 2011 - Commenti (3)
23
giu

Il mio vivere è Cristo

San Paolo, mosaico della volta, Ravenna, Arcivescovado.
San Paolo, mosaico della volta, Ravenna, Arcivescovado.

"Per me il vivere è Cristo e il morire un guadagno." 
(Filippesi 1,21)

Potrebbe essere assunto quasi come il motto di san Paolo. Sono poche parole che nell’originale greco suonano così: emoì gàr tò zèn Christòs kaì tò apothaneìn kérdos. Il contrasto “vita e morte”, classico in tutte le culture, viene dissolto perché il morire non s’affaccia sul baratro del nulla: chi vi approda, infatti, porta nella sua persona e nella sua esistenza Cristo che è Figlio di Dio e, quindi, vivente per sempre nell’eternità divina. Anzi, avviene qualcosa di paradossale: proprio perché, varcata la soglia del tempo, non si hanno più le turbolenze della storia, le fragilità della creatura, le debolezze della persona che possono incrinare quell’intimità con Cristo già ora vissuta, il morire diventa un “guadagno”.

Certo, qualche tensione permane, come l’Apostolo fa notare nelle righe che seguono: «Sono stretto fra queste due cose: ho il desiderio di lasciare questa vita per essere con Cristo (il che sarebbe meglio); ma per voi [ossia per i cristiani di Filippi e per quelli delle altre Chiese] è più necessario che io rimanga nel corpo» (1,23-24). Detto con altre parole, Paolo anela alla vita piena, totale e assoluta col suo Signore oltre la morte, ma sa di avere una missione da compiere anche nella fase temporale della sua vicenda umana, cioè quella ecclesiale che Cristo stesso gli ha affidato. Infatti, l’Apostolo definisce il «vivere nel corpo» come un «lavorare con frutto» (1,22).

Nella frase che abbiamo scelto scopriamo un aspetto particolare di questo grande evangelizzatore, la sua dimensione mistica, il suo legame intimo e profondo con Cristo, la sua comunione stretta e radicata col mistero divino che diventa una sorgente di energia e di gioia per la sua missione apostolica. Ai Galati aveva già ribadito di essere «crocifisso con Cristo»; per questo «non vivo più io, ma Cristo vive in me» (2,19-20). Ritorna un tema caro a Paolo: il cristiano attraverso il Battesimo e la fede rivive in sé il mistero pasquale di Cristo, nel suo morire e risorgere. Leggiamo con attenzione queste righe scritte ai cristiani della città di Colossi, nell’attuale Turchia centrale: «Voi siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio. Ma quando Cristo, vostra vita, sarà manifestato, allora anche voi apparirete con lui nella gloria» (3,3-4).

Una nota a margine. Sopra dicevamo che Paolo comprende la necessità che egli continui a vivere e a operare nel tempo per svolgere ulteriormente la sua missione apostolica nei confronti dei Filippesi. Ebbene, se è vero che l’intimità più alta e risolutiva è quella che unisce l’Apostolo a Cristo, è altrettanto vero che egli sente con questi cristiani – più che con gli altri – un’altra intimità, quella dell’amicizia. Questi fedeli, di un’importante città della Macedonia, lo coprono di regali, mentre egli è in custodia presso il «pretorio» (1,13) e la «casa di Cesare» (4,22), in pratica la prefettura romana di Efeso. La durezza del carcere, la solitudine e la lontananza sono lenite da un affetto che unisce, sia pure a distanza, i cuori.

Sebbene molti studiosi tendano a vedere in questa Lettera la fusione redazionale posteriore di tre missive diverse inviate da Paolo ai Filippesi, alla fine la tonalità dominante è unica. La comunione di fede e di carità che unisce mittente e destinatari è il filo segreto unitario, anche quando l’Apostolo deve mettere in guardia severamente contro le devianze dottrinali che stanno allignando a Filippi (3,2-4,1). «Sono ricolmo dei vostri doni che sono un profumo piacevole, un sacrificio gradito, caro a Dio» (4,18).

Pubblicato il 23 giugno 2011 - Commenti (1)
09
giu

Dove c'è lo Spirito c'è libertà

Correggio (Allegri Antonio, 1489-1534), l'Incoronata, Parma, Galleria Nazionale.
Correggio (Allegri Antonio, 1489-1534), l'Incoronata, Parma, Galleria Nazionale.

"Il Signore è lo Spirito e dove c'è lo Spirito del Signore, c'è libertà. ” 
(2Corinzi 3,17)

Questa volta scegliamo una frase incisiva, quasi lapidaria, che san Paolo incastona in una Lettera tormentata com’è la Seconda ai Corinzi, destinata a una comunità travagliata e un po’ ribelle che ha fatto molto soffrire l’Apostolo. Una frase che non è così semplice come appare a prima vista, tant’è vero che non sono mancati discussioni e approfondimenti da parte degli esegeti biblici.
Infatti, a prima vista sembrerebbe che si identifichino Cristo – che nell’epistolario paolino è chiamato Kyrios, “Signore” – e lo Spirito Santo, oppure lo stesso Dio Padre con lo Spirito, se si accoglie l’uso delle Sacre Scritture secondo l’antica versione greca che rendeva il nome divino ebraico Jhwh con Kyrios, “Signore”.

In realtà, se noi sfogliamo la Lettera, ci accorgiamo che san Paolo conosce e distingue la Trinità: «Dio stesso ci conferma in Cristo… e ci ha dato la caparra dello Spirito nei nostri cuori» (2Corinzi 1,21-22). E l’ultima riga della Lettera reca questo saluto, che ancor oggi noi usiamo nella liturgia: «La grazia del Signore nostro Gesù Cristo, l’amore di Dio e la comunione dello Spirito Santo siano con tutti voi» (13,13).
Qual è, allora, il senso della dichiarazione di san Paolo presente nel nostro frammento? Egli forse vuole solo esaltare il nesso profondo che intercorre tra Cristo e lo Spirito Santo: Cristo lo invia col Padre nella storia dell’umanità per svelare in pienezza la sua parola di salvezza. Oppure l’Apostolo assume il termine “Spirito” in senso più lato, indicando che in Cristo c’è l’epifania dello Spirito divino, cioè della presenza salvatrice di Dio.

Ed è per tale motivo che, dove irrompe questo Spirito del Signore, fiorisce la libertà. Questa parola è ormai sulle labbra di tutti ed è inflazionata e abusata. Come diceva il filosofo mistico indiano Sri Aurobindo (1872-1950), «tutto il mondo aspira alla libertà, e tuttavia ciascuna creatura è innamorata delle proprie catene».
Un altro autore, il poeta francese “rivoluzionario” Paul Eluard (1895-1952), confessava: «Sui miei quaderni di scolaro, / sul banco e sugli alberi, / sulla sabbia e sulla neve / scrivo il tuo nome, libertà; / su tutte le pagine lette, / su tutte le pagine bianche, / pietra sangue o cenere / scrivo il tuo nome». Certo, la libertà sociale e culturale è un cardine del vivere civile e i condizionamenti e le gabbie che la società ci impone sono un male che vìola l’opera del Creatore che ha voluto libera la creatura umana.

Ma il senso che la parola “libertà” in san Paolo o in san Giovanni («la verità vi farà liberi », ad esempio) è di impronta diversa, cioè religiosa e spirituale. Da un lato, è la liberazione dal peccato, dalle catene della colpa, dagli stessi legami della Legge che ci impone una cappa di piombo di precetti senza darci la forza di osservarli e, quindi, facendoci cadere nella trasgressione.
D’altro lato, in positivo, la libertà è invece l’adesione gioiosa alla parola di Dio che dà luce e gioia, è l’accoglienza della grazia divina la quale è come un abbraccio che ci solleva dal fango del peccato.

Il respiro dello Spirito del Signore ci apre, allora, orizzonti luminosi di libertà interiore. «Mandi il tuo Spirito, Signore, sono creati e rinnovi la faccia della terra», canta il Salmista (104,30). Ecco perché dobbiamo invocare lo Spirito Santo, principio di liberazione piena e di amore. Lasciamo ora la parola a una poetessa contemporanea, Elena Bono, e a pochi suoi versi: «Lo Spirito di Dio è una colomba bianca…/ Vieni su di noi, / prima che il vento disperda le polveri stanche / e i corvi ci abbiano divorati…».

Pubblicato il 09 giugno 2011 - Commenti (0)
14
apr

La kénosis di Cristo

Deposizione, opera di Courtois Guillame (1628 - 1679), Roma, Accademia di San Luca
Deposizione, opera di Courtois Guillame (1628 - 1679), Roma, Accademia di San Luca

"Cristo Gesù svuotò sé stesso assumendo la condizione di schiavo...Umiliò sé stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte in croce."
(Filippesi 2,7-8)

Nelle nostre memorie scolastiche la città macedone di Filippi – che portava il nome del suo fondatore, Filippo II, padre di Alessandro Magno (IV secolo a.C.) – è presente per la battaglia decisiva del 42 a.C. tra Ottaviano Augusto e Marco Antonio, da una parte, e Bruto e Cassio, dall’altra. Battaglia che ha generato il motto: «Ci rivedremo a Filippi», riferito dallo storico greco Plutarco. Per il cristianesimo, Filippi – che ancora oggi offre una significativa testimonianza archeologica della sua gloria antica – è legata alla presenza di Paolo e alla Lettera che, attorno al 55-56, indirizzò a quella comunità cristiana a lui unita da un intenso vincolo di amicizia.

In questo scritto, come annotava uno studioso, Jerome Murphy O’Connor, «si sente battere il cuore di Paolo»: «Nessuna Chiesa aprì con me», confessa l’Apostolo, «un conto di dare e di avere, se non voi soli... Sono ricolmo dei vostri doni... che sono un profumo di soave odore, un sacrificio accetto e gradito a Dio» (4,15-18). Ora, nel capitolo 2 di questa Lettera è incastonato un inno (2,6-11) che è modellato su un simbolo spaziale, la discesa-ascesa di Cristo sull’asse cielo- terra-cielo. Ecco innanzitutto la discesa umiliante del Figlio di Dio quando s’incarna, divenendo uomo tra gli uomini, abbandonando la sua gloria. Anzi, il suo è un vero e proprio precipitare in un abisso: egli, infatti, muore in croce, il supplizio riservato agli schiavi, agli ultimi della terra.

Solo così Cristo diventa veramente fratello di tutte le creature umane, non escludendo neanche quelle che sono nei bassifondi estremi della società, inserendo, però, con il suo passaggio nella nostra carne, la presenza salvifica e trasformatrice della sua divinità. Ma dalla vetta del Golgota ove si leva la croce ha inizio l’altro movimento spaziale, quello dell’ascesa, che l’inno descrive nella sua seconda parte (2,9-11). Cristo ritorna nella sua gloria con il nome di Kyrios, “Signore”, appellativo divino; egli brilla di nuovo nella luce della trascendenza che si era eclissata nella morte in croce, quando Gesù si era «svuotato » della sua dignità altissima non solo per essere accanto all’umanità, ma anche per entrare nel suo grembo, fatto di miseria, di limite e di peccato così da redimerla.

Ecco, noi vorremmo ora puntare brevemente la nostra attenzione proprio su quella frase «svuotò sé stesso», in greco ekénosen, un verbo che ha dato origine a un vocabolo “tecnico” della teologia, kénosis, destinato appunto a indicare l’abisso in cui Dio precipita nel Figlio morto in croce e umiliato. È, questo, il segno pieno e definitivo di quel mistero centrale del cristianesimo chiamato “incarnazione”. Nella kénosis-“svuotamento” si ha, infatti, il vessillo e la sintesi della storia di Gesù di Nazaret, divenuto uomo tra gli uomini, povero, umile, condannato a una pena capitale infamante, riservata solo agli schiavi e ai ribelli antiromani. Eppure, quello “svuotamento” liberamente scelto da Cristo non ne annienta la divinità.

Essa riappare quando si è raggiunto il fondo ultimo della kénosis, la morte. È là che si apre l’alba di Pasqua, la gloria della risurrezione. Vorremmo concludere, allora, questa nostra riflessione sul frammento di un testo paolino così importante con le parole che un famoso scrittore russo, l’autore del Dottor Živago, Boris Pasternak (1890-1960), mette in bocca allo stesso Gesù: «Scenderò nella bara e il terzo giorno risorgerò / e, come le zattere discendono i fiumi, / in giudizio, da me, come chiatte in carovana, / affluiranno tutti i secoli dell’umanità».

Pubblicato il 14 aprile 2011 - Commenti (0)
16
mar

Come in uno specchio

L'Eterno appare a Mosè di Jacopo Robusti, detto il Tintoretto (1518 - 1594). Venezia, Scuola Grande San Rocco.
L'Eterno appare a Mosè di Jacopo Robusti, detto il Tintoretto (1518 - 1594). Venezia, Scuola Grande San Rocco.

"Noi tutti, a viso scoperto, riflettiamo come in uno specchio la gloria del Signore e così siamo trasformati in quella stessa immagine, di gloria in gloria."
(2Corinzi 3,18)

«Quando Mosè scese dal monte Sinai non sapeva che la pelle del suo viso era diventata raggiante, poiché aveva conversato con Dio. Aronne e tutti gli Israeliti, vedendo raggiante la pelle del suo viso, ebbero paura di accostarsi a lui... Mosè, allora, si pose un velo sul volto» (Esodo 34,29-30.33). L’uomo non esce indenne dall’incontro con Dio, viene quasi trasfigurato, tanto da irradiare luce attorno a sé. San Paolo sta meditando appunto su questo passo biblico e lo applica al cristiano con una variante radicale. Prima, però, diamo uno sguardo generale all’intero testo che l’Apostolo sta dettando.

La Seconda Lettera ai Corinzi – ha scritto un suo commentatore, il tedesco Otto Kuss – «riflette il temperamento, la ricchezza caratteriale, l’eccitabilità persino, la ruvidezza di Paolo e anche la confusione della situazione» che si era creata nella tormentata comunità greca di Corinto.

Lo scritto è anch’esso molto travagliato, con salti tematici, a tal punto che non pochi esegeti hanno ipotizzato che esso sia una specie di collage di diverse lettere dell’Apostolo qui unificate. A questo proposito c’è un’immagine di grande intensità che vorremmo riproporre: «La nostra lettera siete voi, lettera scritta nei nostri cuori... Siete come una lettera di Cristo, composta da noi, scritta non con l’inchiostro, ma con lo Spirito del Dio vivente, non su tavole di pietra, ma sulle tavole di carne dei cuori» (3,2-3).

A questa immagine si accosta quella del volto radioso del cristiano. Chi vive a contatto con Dio si trasforma e non deve nascondere questa luminosità, perché essa può rischiararei fratelli. Ecco, allora, la variante che l’Apostolo introduce rispetto al passo biblico da cui è partito. A Mosè era stato suggerito di celare una luce troppo forte; Paolo, invece, ricalca le parole che Cristo aveva rivolto ai suoi discepoli: «Voi siete la luce del mondo... non si accende una lucerna per nasconderla sotto un moggio, ma sopra il lucerniere perché faccia luce a tutti quelli che sono in casa. Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al vostro Padre che è nei cieli» (Matteo 5,14-16).

Non possiamo, però, ignorare un aspetto nella comparazione che Paolo instaura tra Mosè e il cristiano e, quindi, tra l’antica e la nuova alleanza. Egli vuole, infatti, sottolineare una discontinuità, una differenza che non deve però condurre a negare il legame pur profondo che ci unisce alla prima alleanza. Sappiamo quanto l’Apostolo sia orgoglioso di definirsi «circonciso l’ottavo giorno, della stirpe di Israele, della tribù di Beniamino, ebreo da ebrei, fariseo secondo la Legge» (Filippesi 3,8). Qual è, allora, la diversità che viene ora marcata?

La risposta è semplice. Per l’Antico Testamento il volto divino, cioè l’intima essenza personale del Signore, è invisibile a occhio umano perché è come un oceano di luce che acceca, e già il riflesso di essa stampato sul viso di Mosè si rivela insopportabile allo sguardo degli Israeliti. Lo stesso Mosè aveva implorato di contemplare pienamente quel volto, ma la risposta era stata negativa: a lui era apparso solo il dorso del Signore che si allontanava (Esodo 33,18-23). Con l’Incarnazione, invece, nel volto di Cristo c’è la possibilità di vedere il Padre, cioè Dio («Chi ha visto me ha visto il Padre», Giovanni 14,9). Per questo san Giovanni, in apertura alla sua Prima Lettera, dichiarerà di aver potuto «vedere con gli occhi, contemplare e toccare con le mani il Verbo della vita, perché la vita [divina] si è fatta visibile» in Gesù Cristo (1,1-2).

Pubblicato il 16 marzo 2011 - Commenti (1)

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Autore del blog

Gianfranco Ravasi

Gianfranco Ravasi

Gianfranco Ravasi è un cardinale, arcivescovo cattolico e biblista italiano, teologo, ebraista ed archeologo.
Dal 2007 è presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, della Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa e presidente della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra.

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