08
ott

Fede e legge

"I farisei" di Karl Schmidt-Rottluff, olio su tela, 1912. New York, Museum of Modern Art (MoMA).
"I farisei" di Karl Schmidt-Rottluff, olio su tela, 1912. New York, Museum of Modern Art (MoMA).

"Se uno dichiara
al padre
o alla madre:
«È
korbàn!»,
cioè offerta
a Dio, non
gli consentite
di fare più nulla
per il padre
o la madre."


(Marco 7,11-12)

Questa frase enigmatica è inserita all’interno di una polemica che Gesù sta intessendo con alcuni farisei e scribi, venuti da Gerusalemme in Galilea per verificare e censurare l’insegnamento e il comportamento del rabbi di Nazaret. Le critiche non mancano: ad esempio, i discepoli di Gesù non osservano le norme della purità rituale sancita dalla tradizione giudaica. Cristo reagisce accusando di ipocrisia i suoi contestatori attraverso un caso concreto, quello appunto del korbàn, termine aramaico che indica l’“offerta” sacra destinata da un fedele al tempio.
Il procedimento era semplice: quando un ebreo dichiarava formalmente che una somma di denaro o un altro bene era korbàn, cioè consacrato per il tempio, quella cifra o quella realtà non era più disponibile per altre finalità, secondo quanto affermava una prescrizione della tradizione giudaica presente nella Mishnah. Essa era una raccolta di norme e indicazioni che regolavano la prassi dei fedeli ebrei, prima trasmesse oralmente e poi codificate in un testo dal rabbi Jehuda ha-Nasî che aveva organizzato nel III secolo d.C. il materiale in 6 “ordini” (seder) e 63 trattati.

Gesù presenta una scandalosa applicazione di questa norma specifica. Se un ebreo vuole sottrarsi all’obbligo del mantenimento dei genitori anziani, può decidere di assumere una certa somma o un bene prezioso e dichiararlo korbàn per il tempio, così che non ne potrà più disporre per i suoi genitori e sarà libero dall’obbligo filiale. Ovviamente l’impegno a cui si sottraeva era maggiore, perciò ne risultava un vantaggio. Anzi, non di rado questo voto restava solo formale e, quindi, fittizio e non comportava una reale donazione, ma era soltanto un mezzo estrinseco per evadere quell’obbligo morale.
I maestri, scribi e dottori della Legge, erano consapevoli dell’immoralità di un simile comportamento, ma consideravano lo stesso valida la prassi. Gesù, invece, ne denuncia la perversione religiosa ed etica. Egli, infatti, risale al cuore della Bibbia, lacerando il velo ipocrita della casistica e proclama il primato del Comandamento del Decalogo: «Onora tuo padre e tua madre» (Esodo 20,12), laddove quell’“onorare” comportava un impegno operoso di rispetto, di tutela e di sostegno della vita familiare (si legga sul tema l’intenso paragrafo di Siracide 3,1-16).

La conclusione che Cristo appone alla sua polemica è di indole generale e rivela un atteggiamento fondamentale della vera religiosità: «Voi in questo modo annullate la parola di Dio con la tradizione che avete tramandato voi» (7,13). Sulla parola divina viene imposta una norma umana, a un comandamento morale si sostituisce un precetto legale, alla limpidità della spiritualità biblica subentra la meschinità dell’interesse privato, anche se ammantato di autorizzazioni ufficiali.
Ritorna anche in questo evento della vita di Gesù l’afflato della fede profetica che impediva al legalismo e al ritualismo di soffocare l’anima profonda della religione biblica. L’interiorità della coscienza e l’impegno di giustizia e carità debbono sempre avere il primato sui regolamenti e sui codici sacrali e sociali.

Pubblicato il 08 ottobre 2012 - Commenti (3)
01
ott

Cinquemila uomini

La moltiplicazione dei pani, miniatura di Daniele di Uranc, 1433. Manoscritto 4963 foglio 2v. Yerevan (Armenia).
La moltiplicazione dei pani, miniatura di Daniele di Uranc, 1433. Manoscritto 4963 foglio 2v. Yerevan (Armenia).

"Tutti mangiarono a sazietà…
Quelli che avevano mangiato
i pani erano cinquemila uomini.
"


(Marco 6,44)

Questa volta affrontiamo una questione che potrà sembrare secondaria. Ci interessiamo dei numeri nei cui confronti il mondo semitico (ma non solo) non si comporta con criteri solo quantitativi, come accade ora a noi, ma soprattutto qualitativi. Anche chi non ha una grande assuefazione con la Bibbia sa che numeri come 3 o 7 o 12 o 40 hanno spesso valore simbolico e sono segni di pienezza o perfezione. L’Apocalisse, al riguardo, è emblematica: tra cardinali, ordinali e frazionali ci offre ben 283 cifre! E tutti citano quel passo in cui si afferma che «il numero della Bestia è 666» (13,18), che è multiplo del 6 e somma di multipli del 6 (600 + 60 + 6): esso equivale al 7 “decapitato” (–1) o il 12 “dimezzato”. Per non dire poi che – secondo l’antica scienza della “ghematria” per la quale le lettere alfabetiche hanno un valore numerico – quel 666 può essere la trascrizione “cifrata” del nome “Nerone Cesare” in ebraico, NRWN QSR: N 50 + R 200 +W6 + N 50 + Q100 + S 60 + R 200 = 666.

Ma stiamo ora all’esempio da noi proposto con l’indicazione dei fruitori della prima moltiplicazione dei pani secondo Marco: 5.000 uomini e Matteo, nel passo parallelo, aggiunge: «senza contare le donne e i bambini» (14,21). Marco per la seconda moltiplicazione dei pani riduce il pubblico a 4.000 uomini (8,9), dato confermato da Matteo (15,38), sempre con la precisazione riguardante donne e bambini che nell’antico Vicino Oriente non erano un soggetto giuridico in senso stretto e, quindi, non entravano nel computo. Qualche perplessità nasce su questa folla enorme, tenendo conto che la Galilea era una regione limitata e Gesù si fermava a parlare in piccole rade del lago di Tiberiade o su prati molto ristretti con gruppi locali abbastanza ridotti. Tra l’altro, l’evangelista parla di una suddivisione «in gruppi di 100 e 50» persone (6,40).

Effettivamente bisogna notare che il numero 1.000 era spesso adottato per designare semplicemente una grande quantità difficile da contare, oppure acquistava il valore simbolico dell’immensità e persino dell’infinito: Dio, ad esempio perdona e ama per «mille generazioni» (Esodo 34,7). Si tratterebbe, allora, solo della segnalazione di 4 o 5 moltitudini di persone. Tra l’altro, è curioso notare che il 1.000 in ebraico è ’elef, vocabolo che indica anche il “bue” che potrebbe essere l’unità di misura alimentare per un gruppo clanico o familiare esteso, come lo era allora la famiglia patriarcale.

Certo, in alcuni casi siamo in presenza di numeri reali o almeno legati a dati documentari, come accade nei censimenti di Israele nel deserto che aprono il libro dei Numeri (capp. 1-4): essi, in realtà, riflettono cifre del periodo in cui il popolo ebraico era stanziato nella terra promessa, con probabili ritocchi simbolici, soprattutto quando si parla delle «migliaia di Israele» (1,16; vedi 1Samuele 10,19-21), designazione riservata ai vari clan. Reali sono, in buona parte, i dati numerici allegati dal libro di Esdra nel capitolo 2 (ripresi in Neemia 7,6-72) riguardo ai rimpatriati da Babilonia. È, però, indubbio che la trasmissione stessa di simili dati nei vari codici biblici a noi giunti ha subìto spesso variazioni e incertezze.
Rimane, comunque, fermo il primato simbolico di alcune cifre: è, ad esempio, il caso – nel racconto della moltiplicazione dei pani – delle ceste avanzate, 12 nel primo caso, come i dodici apostoli o le tribù ebraiche; 7 nel secondo caso, come le nazioni della terra di Canaan (Atti 13,19) o i sette “diaconi” della solidarietà gerosolimitana (Atti 6,5). D’altronde, la sazietà e l’abbondanza sono tipiche del banchetto messianico.

Pubblicato il 01 ottobre 2012 - Commenti (1)
24
set

Indemoniato o folle?

"Guarigione dell'ossesso", Sant'Apollinare Nuovo, Ravenna.
"Guarigione dell'ossesso", Sant'Apollinare Nuovo, Ravenna.

"Aveva dimora fra le
tombe e nessuno riusciva
a tenerlo legato, neanche
con catene... spezzava
le catene e spaccava
i ceppi e nessuno
riusciva a domarlo".


(Marco 5,3-4)

Siamo – stando al racconto di Marco (5,1-20) – sulla costa orientale del lago di Tiberiade «nella regione dei Geraseni» (Matteo parla, invece, di Gadara, a sud-est dello stesso lago). Ci troviamo nella Decapoli, area a prevalenza pagana e quindi “impura”. Ecco emergere questa figura terribile, una sorta di mostro che vive o in una necropoli, tra i morti, oppure sui monti desertici delle alture del Golan. Appare, così, un altro segno di “impurità” e negatività, la morte e il deserto. Quando Gesù interpella lo “spirito impuro” che travolge quest’uomo, costui risponde: «Mi chiamo Legione», un altro elemento negativo perché rimanda all’oppressione romana e al suo esercito.

Ma non è finita. Quando Gesù decide di liberare quest’uomo dagli “spiriti impuri”, essi domandano e ottengono di entrare in una mandria di porci là allevati, tipici animali “impuri” per la tradizione giudaica. A quel punto il branco «si precipita dal burrone nel mare, affogando uno dopo l’altro nel mare». Il mare (in questo caso il lago: il linguaggio biblico denomina con un unico termine le grandi distese d’acqua) è il simbolo del caos e del male. La sequenza negativa che regge le fila del racconto è, dunque, impressionante: Decapoli, pagani, sepolcri, monti desertici, spiriti immondi/impuri, Legione, porci, mare.

Sembra, quindi, di essere in presenza di una sorta di compendio del male del mondo, del demoniaco che avvelena la storia ma anche dell’idolatria, perché Isaia descrive così gli idolatri: «Abitano nei sepolcri, passano la notte in nascondigli, mangiano carne suina e cibi impuri... bruciano incenso sui morti e sui colli insultano il Signore» (65,4.7). Qual è, allora, il significato da assegnare a questa narrazione, sia nella sua realtà storica sia nel suo valore esemplare? Innanzitutto il ritratto, offerto dall’evangelista, di quello sventurato, lo delinea come un pazzo furioso: non si può legarlo perché reagisce brutalmente, è autolesionista perché si percuote con pietre, urla in modo sconclusionato giorno e notte. Una volta sanato da Gesù è, invece, tratteggiato come «seduto, vestito e sano di mente» (5,15).

Fin qui per quanto riguarda l’evento storico, ossia la guarigione di un malato mentale, così come Gesù sanerà un ragazzo epilettico, scendendo dal monte della Trasfigurazione (9,14-29). Ma qual è il valore ulteriore che l’evangelista assegna a questo fatto? La risposta deve tener conto proprio di tutti gli elementi negativi che abbiamo prima elencato e dell’antica convinzione di Israele, secondo cui le sindromi più gravi presupponevano una colpa personale o una possessione demoniaca. La vicenda, allora, diventa una narrazione esemplare per celebrare la vittoria di Cristo sul male in tutte le sue forme: egli è, infatti, riconosciuto come «Figlio del Dio altissimo» (5,7), trionfante sulle forze oscure, sia fisiche sia morali, che tormentano la storia umana.

Pubblicato il 24 settembre 2012 - Commenti (2)
17
set

«Così che non si convertano»

San Matteo evangelista, mosaico. Ravenna, basilica di Sant’Apollinare in Classe.
San Matteo evangelista, mosaico. Ravenna, basilica di Sant’Apollinare in Classe.

"Per quelli che
sono fuori tutto
avvienein parabole
affinchéguardino, sì,
ma non vedano,
ascoltino, sì, ma non
comprendano..."


(Marco 4,11-12)

«Così che non si convertano e venga loro perdonato!»: finisce con questa fosca clausola la frase che Gesù pronunzia nel Vangelo di Marco riguardo alla funzione delle parabole che egli sta raccontando. Paradossale è proprio questa definizione della finalità delle parabole, espressa con quell’“affinché” che indica appunto uno scopo da raggiungere. Forse che Gesù ha scelto l’uso del linguaggio parabolico, che è anche il suo modo più comune di insegnare, per offuscare la mente e il cuore del suo uditorio e impedirgli la conversione («così che non si convertano») e il relativo perdono dei peccati («e non venga loro perdonato»)? La frase, in verità, si basa su una citazione del profeta Isaia che, nel giorno della sua vocazione, aveva ricevuto questo monito: «Rendi insensibile il cuore di questo popolo, rendilo duro d’orecchi e acceca i loro occhi, e non veda con gli occhi, né oda con gli orecchi, né comprenda col cuore, né si converta così da essere guarito!» (6,10).

Dobbiamo proprio partire da questa citazione per comprendere le dure parole di Cristo che sembrerebbero smentire la finalità salvifica della sua predicazione. È chiaro il contenuto dell’appello rivolto a Isaia: egli si scontrerà con il rigetto degli Israeliti, un fenomeno scontato e ben noto ai profeti. Ebbene, quegli imperativi sono in realtà equivalenti a indicativi: si adotta questa forma per mostrare quale sarà il risultato della predicazione profetica, che Dio certamente non vuole, ma che gli è già nota ed è inserita nel suo disegno di salvezza. Questo progetto salvifico, però, continuerà lo stesso e si attuerà giudicando il peccato e l’indurimento del cuore e salvando chi si convertirà e compirà il bene.

L’imperativo non è, quindi, un invito a operare in quella linea negativa, bensì è un modo per rappresentare in forma efficace che neanche il male sfugge al piano divino, che non esiste una divinità negativa che si oppone all’unico Signore, come insegnava il dualismo religioso (Dio del bene contro il dio del male), che la libertà umana con le sue scelte perverse non è ignota al Creatore e non frustra la sua volontà di salvezza. Nello stesso libro di Isaia si giunge al punto di porre anche il male sotto il comando divino: «Sono io che formo la luce e le tenebre, faccio il bene e provoco il male» (45,7). Con questa frase così aspra si vuole soltanto ricordare che nulla sfugge all’onnipotenza del Signore; anche il male e il peccato possono essere inquadrati nel suo grande disegno sull’essere e sull’esistere.

Gesù cita, dunque, questa tesi importante formulata nello scritto isaiano e quella “finalità” («affinché...») è di tipo “scritturistico”, cioè equivale alla tradizionale espressione «affinché si adempia la Scrittura che dice...». L’evangelista ne condivide con Gesù (che rimanda a Isaia) il contenuto: le parabole, che dovrebbero essere un luminoso esempio di rivelazione, diventano un elemento di ostinazione contro Cristo. Questo, però, non deve impressionare, perché Dio – che sa anche dal male trarre un bene – continuerà lo stesso a compiere l’insediamento del suo Regno. È interessante vedere come Matteo abbia riletto questa frase di Isaia e di Gesù sostituendo alla finale («affinché...») una causale più immediata e chiara («perché...»). Il messaggio in parabole di Gesù non è accolto «perché il cuore di questo popolo è diventato insensibile, sono diventati duri d’orecchi, hanno chiuso gli occhi...» (Matteo 13,15).

Pubblicato il 17 settembre 2012 - Commenti (4)
10
set

Cristo liberatore e lo "spirito impuro"

Liberazione di un indemoniato, ex voto. Cesena, Madonna del Monte.
Liberazione di un indemoniato, ex voto. Cesena, Madonna del Monte.

"Nella sinagoga
vi era un uomo
posseduto da uno
spirito impuro.
Cominciò
a gridare:
«Che vuoi da noi,
Gesù Nazareno?
Io so chi tu sei:
il Santo di Dio!»"


(Marco 1,23-24)

Siamo nella cosiddetta “giornata di Cafarnao”: nell’arco di un giorno e nello spazio di questa cittadina che s’affaccia sul lago di Tiberiade, Gesù compie una serie di atti miracolosi. Uno di questi eventi si svolge nella sinagoga locale (quella che Giovanni inserì come fondale per il celebre discorso di Gesù sul “pane di vita”): all’improvviso una persona si alza nell’assemblea, mentre Gesù sta insegnando con grande autorità, e gli si scaglia contro interpellandolo e apostrofandolo (Marco 1,21-26). Chi travolge quest’uomo apparentemente normale, facendone un avversario di Cristo?

In lui agisce un’inattesa presenza specifica, sollecitata dalla parallela presenza di Gesù. È una presenza vitale e personale che interloquisce con Cristo, paradossalmente riconoscendolo come «Santo di Dio», rivelandosi quindi come dotata di una trascendenza e di un’origine divina. Si ha, perciò, un’epifania di Satana il quale sa di avere come avversario Dio stesso, presente e operante in Gesù Cristo. Non possiamo qui ridurre l’evento a una guarigione da una malattia grave, come la demenza (Marco 5,1-20) o l’epilessia (9,14-29), casi che in seguito considereremo e rubricati dagli evangelisti come possessioni diaboliche.

Sappiamo, infatti, che nell’antico Vicino Oriente si era inclini a porre sotto l’insegna del demoniaco tutto il negativo della storia: le malattie fisiche, le devianze psichiche, gli influssi sociali nefasti, il peccato personale, il male in generale. Qui, invece, si ha una presenza personale specifica; è l’incontro con un essere misterioso che si erge contro Cristo dichiarandosi suo avversario; con lui Gesù ingaggia un duello che si risolve con un comando efficace e salvatore: «Esci da quest’uomo!». E, in finale, l’urlo che si ode rappresenta il grido di sconfitta di Satana. La salvezza non viene da formule e gesti esoterici, da filtri o pozioni magiche, ma solo da un ordine autorevole e operativo di Cristo.

Al centro di questo racconto non c’è, quindi, lo “spirito impuro”, il diavolo, ma Cristo liberatore dal male. Il cristianesimo rigetta ogni forma di dualismo che veda come arbitri della storia e dell’essere due divinità antitetiche: il demonio non è il principio del male che combatte il principio divino del bene. Satana (in ebraico “avversario”) è inferiore a Dio ed è da lui controllato e dominato. Anche se, dunque, la sua presenza dev’essere ridimensionata, il diavolo (in greco, “colui che divide”) è un essere personale che agisce con forza. Certo, l’uso del termine “persona” è per lui un po’ improprio, perché si tratta di un concetto positivo, usato anche per Dio (ad esempio, le tre “persone” della Trinità).

Satana è, invece, l’antitesi di Dio, nel quale l’essere persona è pienezza assoluta; è l’antitesi anche dell’uomo, la cui persona dovrebbe essere segno di intimità, di donazione, di amore. Lo scrittore francese agnostico André Gide scriveva: «Se il diavolo potesse, direbbe: Io sono colui che non sono». E curiosamente lo stesso autore concludeva: «Non credo nel diavolo; ma è proprio quello che il diavolo spera: che non si creda in lui». A lui farà eco Giovanni Papini quando diceva che «l’ultima astuzia del diavolo fu quella di spargere la voce della sua morte».

Pubblicato il 10 settembre 2012 - Commenti (2)
02
ago

Il Messia di chi è figlio?

Sacra parentela, dipinto originario della Germania, circa 1500. Philadelphia, Museum of Art.
Sacra parentela, dipinto originario della Germania, circa 1500. Philadelphia, Museum of Art.

"Gesù chiese
ai farisei: «Che
cosa pensate
del Cristo?
Di chi è figlio?».
Gli risposero:
«Di Davide»".


(Matteo 22,41-42)

Questa volta non sono i suoi avversari a punzecchiare Gesù, come accade ripetutamente nella pagina del capitolo 22 di Matteo, una pagina costellata di “controversie”, ossia di polemiche con farisei e sadducei. Ora è lui stesso che provoca i farisei riuniti in un’assemblea, rivolgendo loro il quesito che abbiamo citato, apparentemente banale. Non era, infatti, noto a tutti i lettori della Bibbia che il Messia sarebbe disceso dal filo genealogico davidico? Ricordiamo che la parola “Cristo” è la versione greca dell’ebraico “Messia” (Mashiah) che significa “consacrato”, e che “figlio” è usato spesso in senso lato per indicare un discendente. Dov’è, dunque, la difficoltà?


Essa è da cercare nel prosieguo della discussione. Gesù, infatti, mette sul tappeto del dibattito un celebre Salmo messianico, il 110, ritenuto opera di Davide come si evince dal titolo che gli era stato apposto: «Di Davide. Salmo». L’inno, composto dal famoso sovrano considerato appunto dalla tradizione come l’antenato del Messia, «mosso dallo Spirito » (22,43), inizia con un oracolo divino che è così introdotto: «Disse il Signore [Yhwh Dio] al mio Signore [il re Messia] ». Segue l’oracolo: «Siedi alla mia destra, finché io ponga i tuoi nemici sotto i tuoi piedi». Davide, quindi, chiama il Messia «mio signore». Facile è l’obiezione di Cristo: «Se dunque lo chiama “Signore” come può essere suo figlio?» (22,44-45). Se il Messia-Cristo è “figlio di Davide”, come può Davide definirlo suo “Signore” e quindi a lui superiore?


I farisei si trovano impastoiati in una disputa di taglio rabbinico, un genere nel quale peraltro eccellevano. Gesù li avviluppa nella stessa rete che essi più di una volta avevano teso contro di lui con i loro quesiti. A questo punto, però, ci si attenderebbe di vedere come Gesù – qui raffigurato nella veste di un rabbí giudaico – riesca a risolvere la contraddizione tra un Messia contemporaneamente figlio e Signore di Davide, secondo l’analisi appena fatta del Salmo 110. La conclusione di Matteo è spiazzante: «Nessuno era in grado di rispondergli e, da quel giorno, nessuno osò più interrogarlo» (22,46). Marco, che ambienta questa scena nell’area del tempio di Gerusalemme, senza introdurre i farisei come interlocutori, conclude semplicemente: «la folla numerosa lo ascoltava volentieri» (12,37).


La risposta a quell’apparente contraddizione è ovviamente possibile solo in sede cristiana. Per il giudaismo, infatti, il Messia rimane creatura umana e come tale non potrà essere definito “Signore”. Nel cristianesimo il Cristo ha certamente una reale dimensione storica e, quindi, è ancorato nella sua umanità a una discendenza, quella davidica, attestata dalla genealogia che lo stesso Matteo pone in apertura al suo Vangelo: «Genealogia di Gesù Cristo figlio di Davide, figlio di Abramo » (1,1). Egli è, dunque, realmente «figlio [discendente] di Davide», legato alla linea della promessa messianica (2Samuele 7; Salmo 89). Ma contemporaneamente è figlio di Dio e, in questa luce, è “Signore” di Davide. Il mistero centrale del cristiano, l’Incarnazione, risolve dunque anche l’enigma del Salmo 110, posto da Gesù all’attenzione dei farisei.

Pubblicato il 02 agosto 2012 - Commenti (2)
19
lug

L'abito nuziale

Francesco Traini (secolo XIV), Giudizio finale, particolare con angelo e beato. Pisa, Camposanto.
Francesco Traini (secolo XIV), Giudizio finale, particolare con angelo e beato. Pisa, Camposanto.

"Amico, come mai
sei entrato qui senza
l’abito nuziale?...
Legatelo mani e piedi
e gettatelo fuori
nelle tenebre!"


(Matteo 16,23)

Le varie parabole di Gesù attingono sempre alla vita sociale di un popolo. Nel caso del banchetto nuziale regale (Matteo 22,1-14) si fa riferimento a un evento che, anche ai nostri giorni, stimola l’interesse della comunicazione e la curiosità della gente. Gesù, elaborando un simile avvenimento, lo colora di allusioni allegoriche modulate anche sulla tradizione biblica: il re evoca Dio, mentre suo figlio si trasfigura nel Messia e il banchetto nuziale diventa la grande celebrazione della festosa era messianica (si legga Isaia 25,6-10); nei servi inviati a convocare gli invitati sono riconoscibili i profeti e gli apostoli; gli invitati della prima cernita che si comportano in modo così altezzoso e fin aggressivo incarnano l’Israele peccatore e i Giudei che rigettano Cristo; i chiamati raccolti per le strade rimandano ai pagani lieti di essere ammessi in quel banchetto privilegiato, mentre la città dei ribelli data alle fiamme è l’anticipazione della rovina di Gerusalemme del 70 dopo Cristo.


Rimane, però, un’altra scena piuttosto sconcertante, introdotta solo da Matteo. Alcuni studiosi pensano persino che si tratti di un’altra parabola “incollata” a quella del banchetto nuziale che è nota anche a Luca (14,16-24). La prospettiva sembra diversa e più universale: siamo di fronte al giudizio finale ove si consumerà una divisione netta, simile a quella tra grano e zizzania di un’altra nota parabola matteana (13,24-30). È da questa seconda parte del racconto che noi abbiamo desunto l’elemento centrale piuttosto sconcertante, che vede come protagonista un uomo senza l’abito da cerimonia.


La perplessità che proviamo è spontanea: una condanna così aspra è giustificata da una semplice mancanza di etichetta? Evidentemente no. Bisogna risalire al simbolismo, diffuso in tutte le culture, della veste. Essa non ha solo funzioni concrete nei confronti del clima o di decenza riguardo al pubblico, ma rivela anche un aspetto emblematico, estetico e sociale (si pensi solo alla funzione fin esasperata della moda ai nostri giorni). Anzi, l’abito da cerimonia è spesso indizio di una dignità civile o religiosa: è ciò che accade per i paramenti sacerdotali, la corona e lo scettro reale, la fascia del sindaco e così via, tant’è vero che per indicare l’accesso a una carica pubblica parliamo di “investitura”.


È chiaro, allora, che l’assenza di abito nuziale nel protagonista di questo secondo racconto è indizio ben più grave di una semplice carenza di educazione. È la privazione di quelle opere e qualità morali che possono ammettere al Regno di Dio e al suo banchetto. Non è sufficiente la vocazione a un compito (“i chiamati”), bisogna anche adempierlo con fedeltà e impegno così da diventare “eletti”, cioè ammessi alla festa finale.


Fede e opere di giustizia devono unirsi nell’esistenza, perché «non chiunque dice: “Signore, Signore!” entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre che è nei cieli» (Matteo 7,21). Altrimenti si è votati alle tenebre della condanna infernale, lontani dal banchetto del Regno di Dio. Là si avrà «pianto e stridore di denti», un’immagine quest’ultima non solo di freddo, come si ha nel mondo classico e come suppone l’oscurità con l’assenza del sole, ma anche di terrore e di disperazione.

Pubblicato il 19 luglio 2012 - Commenti (2)
09
lug

Il cammello e la cruna

Dromedario utilizzato come mezzo di trasporto. Incisione tratta da "La Terre Illustree" n. 73, 24 marzo 1892. Tunisia.
Dromedario utilizzato come mezzo di trasporto. Incisione tratta da "La Terre Illustree" n. 73, 24 marzo 1892. Tunisia.

"È più facile che un cammello
passi per la cruna di un ago che
un ricco entri nel regno di Dio".


(Matteo 19,24)

Il detto di Gesù, strettamente parlando, non risulta né strano né di ardua interpretazione a chi conosce il linguaggio dell'antico Vicino Oriente che ama il paradosso, i colori accesi, le tonalità forti. È stata solo la sensibilità occidentale a tentarne un ridimensionamento secondo una logica più "normale". Così c'è chi ha voluto ricondurre il greco kámêlon, "cammello" a un kámilon (la ê e la i avevano in passato e hanno oggi nel greco moderno lo stesso suono – i – nella pronuncia), che era invece una sorta di gomena o nodo marinaio: in questo modo si renderebbe meno eccessiva e più coerente l'immagine. C'è chi è ricorso fantasiosamente a una non documentata e, quindi, ipotetica porta di Gerusalemme denominata "cruna dell'ago" a causa della sua piccolezza e ristrettezza, sulla scia della "porta stretta" – evidentemente metaforica – evocata da Gesù nel Discorso della Montagna (Matteo 7,13).

In realtà, si deve lasciare il paragone in tutta la sua forza paradossale: la ricchezza è un ostacolo invalicabile per entrare nel regno di Dio che è destinato ai «poveri in spirito» e – come abbiamo visto in una precedente nostra analisi – costoro non sono tali per un vago distacco "spirituale" dai loro beni, ma perché essi sono radicalmente e totalmente liberi dall'idolatria delle cose e del loro possesso. Tra l'altro, che questo senso forte sia inteso da Gesù emerge dalla successiva reazione dei discepoli sconcertati (in greco si ha exepléssonto sfódra, cioè "furono grandemente stupiti, costernati"). E Cristo lo conferma dichiarando che la salvezza del ricco è sostanzialmente possibile solo attraverso un miracolo: «Questo è impossibile agli uomini, ma a Dio tutto è possibile!» (19,26).

Che il significato dell'immagine sia quello del contrasto estremo tra la microscopica cruna dell'ago e il mastodontico cammello è confermato anche da altri due paralleli esterni. Il primo è nello stesso Vangelo di Matteo, all'interno della veemente sequenza di sette "Guai!" che Gesù scaglia contro gli scribi e i farisei, rivelando che – se l'ira è un vizio capitale – lo sdegno in difesa della virtù e del bene è una virtù. Là si legge: «Guide cieche che filtrate il moscerino e ingoiate il cammello!» (23,24). È evidente l'implicito nesso tra questo poderoso animale e i piccoli fori del colino.

La seconda conferma viene da un testo rabbinico posteriore a Gesù, nel quale si delinea l'impossibilità e l'assurdità del far passare anche un elefante per la cruna di un ago! Cristo rivela, così, non solo la ferma condanna della ricchezza egoista che impedisce la sua sequela, come era accaduto al giovane ricco nel cui contesto è collocato il nostro detto (19,16-22), ma mostra anche la sua aderenza al linguaggio colorito della cultura in cui egli era incarnato.

In appendice ricordiamo che il cammello – in ebraico gamal, termine che vale anche per il dromedario a una sola gobba – è menzionato nella Bibbia a partire già dai patriarchi (ad esempio, Genesi 24,10-67 e 31,17.34). Curiosamente notiamo che, secoli dopo, secondo un registro riferito dal libro biblico di Esdra (2,66-67), gli Ebrei rimpatriati dall'esilio a Babilonia avevano una dotazione di ben 435 cammelli, molto più dei 245 muli, ma ovviamente meno dei più semplici asini che erano 6.720 e dei 736 cavalli. Nel Nuovo Testamento Giovanni Battista indossava abiti tessuti con peli di cammello (Matteo 3,4), mentre nella tradizione popolare beduina l'urina di cammella è considerata, a livello di cosmesi femminile, una sorta di "acqua di colonia"...!

Pubblicato il 09 luglio 2012 - Commenti (2)
21
giu

Il caso di pornéia

Lucas Cranach il Vecchio (1472-1553), Donna sorpresa in adulterio, 1532. Budapest, Museo di Belle Arti.
Lucas Cranach il Vecchio (1472-1553), Donna sorpresa in adulterio, 1532. Budapest, Museo di Belle Arti.

"Io vi dico: chiunque
ripudia la propria moglie,
se non in caso di
pornéia,
e ne sposa un’altra,
commette adulterio".


(Matteo 19,9)

Eccoci di fronte a un passo che ha suscitato una valanga di interpretazioni e commenti e che ha creato una divaricazione persino all’interno delle stesse Chiese cristiane. Facciamo
subito due premesse. La prima è estrinseca. Il testo ricorre anche in una delle sei “antitesi” che Matteo colloca nel Discorso della Montagna. In esse si illustra non tanto il superamento, ma la pienezza che Cristo vuole far emergere dal dettato biblico. Sul ripudio matrimoniale egli affermava, citando il versetto del Deuteronomio (24,1) sul divorzio: «Fu detto: “Chi ripudia la propria moglie, le dia l’atto di ripudio”. Ma io vi dico: chiunque ripudia la propria moglie – eccetto il caso di pornéia – la espone all’adulterio, e chiunque sposa una ripudiata, commette adulterio» (5,32).

La seconda premessa riguarda il contesto del nostro passo (19,1-9). In esso Gesù, provocato dai suoi interlocutori che lo volevano mettere in contraddizione con la norma sulla liceità
del divorzio «per una qualsiasi mancanza», come si affermava nel Deuteronomio, risale alla Genesi che dichiara l’uomo e la donna destinati a diventare «una sola carne» (2,24). Questo è il progetto divino sulla coppia al quale Cristo si allinea, per cui «l’uomo non deve dividere ciò che Dio ha congiunto» (Matteo 19,6). Quella del Deuteronomio è, dunque, un’eccezione concessa «per la durezza del vostro cuore» (19,8). Gesù, quindi, propone nella sua visione del matrimonio il modello dell’indissolubilità.

Ma a questo punto come spiegare l’inciso – da noi lasciato con il termine greco pornéia – che presenta un’eccezione? È probabile che qui si sia di fronte a un elemento redazionale introdotto da Matteo per giustificare una prassi in vigore nella comunità giudeo-cristiana delle origini. Sarebbe, quindi, una sorta di norma ecclesiale locale che veniva incontro alla domanda rabbinica sull’interpretazione della clausola del Deuteronomio concernente il caso del divorzio «per una qualsiasi mancanza». Nell’ebraismo si confrontavano due scuole teologiche, l’una più “liberale”, incline a concedere un largo raggio di casi di divorzio (rabbí Hillel), un’altra più restrittiva e orientata ad ammettere solo l’adulterio come giustificazione per il divorzio.

Quale sarebbe, allora, l’eccezione riconosciuta dalla Chiesa giudeo-cristiana ed espressa con il vocabolo greco pornéia? Non può essere, come si traduceva in passato, il “concubinato” non essendo esso un matrimonio in senso autentico, né una generica “fornicazione”, cioè l’adulterio, perché in questo caso si sarebbe usato il termine proprio moichéia. Tra l’altro, è interessante notare che alcune opere dei primi tempi
cristiani – come Il pastore di Erma (IV,1,4-8) – e autori come Clemente di Alessandria (Stromata 2,23) dichiarano che il marito che lascia la sposa adultera non può risposarsi perché permane il precedente legame matrimoniale.

Nel giudaismo del tempo esisteva un termine, zenût, equivalente alla pornéia matteana (“prostituzione”) che indicava tecnicamente le unioni illegittime come quella tra un uomo e la sua matrigna, condannata già dal libro biblico del Levitico (18,8;20,11) e dallo stesso san Paolo (1Corinzi 5,1). In pratica, anche se non era in uso allora questa fattispecie giuridica, si tratterebbe di una dichiarazione di nullità del matrimonio contratto, linea seguita dalla Chiesa cattolica sui casi di nullità del vincolo matrimoniale precedente. Sappiamo, però, che le Chiese ortodosse e protestanti hanno interpretato l’eccezione della pornéia come adulterio e, perciò, hanno ammesso il divorzio, sia pure limitandolo a questo caso. In realtà, la visione di Cristo sul matrimonio era netta e radicale, nello spirito di una cosciente, piena e indissolubile donazione reciproca.

Pubblicato il 21 giugno 2012 - Commenti (3)
14
giu

Una macina da mulino

Albrecht Altdorfer (1480-1538), Martirio di san Floriano. Firenze, Galleria degli Uffizi.
Albrecht Altdorfer (1480-1538), Martirio di san Floriano. Firenze, Galleria degli Uffizi.

"Chi scandalizzerà
uno solo di questi
piccoli che credono
in me, gli conviene
che gli venga appesa
al collo una macina
da mulino e sia
gettato nel profondo
del mare
".


(Matteo 18,6)

Spesso questa frase è stata addotta per condannare i pedofili e persino per giustificarne la condanna a morte. Come può il “mite” Gesù che insegna il perdono, pur condannando la colpa, giungere a questo punto di crudeltà? Per interpretare correttamente il testo dobbiamo procedere per gradi. Innanzitutto puntiamo al soggetto coinvolto nello “scandalo”, termine che, come è noto, indica letteralmente il far “inciampare” uno e farlo cadere a terra, simbolo anche della tentazione perversa. Nell’originale greco non si parla di “bambini” (paidía), bensì di “piccoli” (mikroí), una categoria non anagrafica ma esistenziale, tant’è vero che subito dopo è specificata con la frase «che credono in me». Ferma restando la condanna che noi dobbiamo assegnare all’infamia della pedofilia, la questione qui trattata da Gesù è differente: di scena sono coloro che sono deboli nella fede, “piccoli” nel credere, che devono ancora crescere e che possono essere facilmente scandalizzati dal nostro cattivo esempio di “maturi” e “adulti” nella fede. Anche san Paolo ammonisce i cristiani di Roma a saper «accogliere chi fra di voi è debole nella fede, senza discuterne le esitazioni» (14,1). Cristo, dunque, condanna con durezza chi mette consapevolmente in crisi il fratello “piccolo” nella fede.

E lo fa ricorrendo a un simbolo di giudizio severissimo, il cosiddetto katapontismós praticato dai Romani, ossia l’esecuzione dei colpevoli per annegamento, attestata dagli storici Svetonio e Giuseppe Flavio. Ora, per tirare le fila sul valore generale di questo passo veemente, è necessario ricordare che il linguaggio semitico, usato anche da Gesù, ama i colori accesi, soprattutto nel caso di maledizioni, cioè di invocazioni del giudizio divino nei confronti delle colpe gravi. Pertanto, quel Gesù – che ha insegnato appunto l’amore e il perdono – non può certo suggerire una simile macabra esecuzione capitale o il suicidio del peccatore. Egli, però, non si astiene dal denunciare il male e ricorre a un’immagine terribile, destinata a far comprendere la gravità della colpa di chi scandalizza il fratello dalla fede fragile. È un modo simbolico e vigoroso, tipico del linguaggio orientale dalle tinte forti, per ricordare il severo giudizio divino riguardo aquel peccato. L’immagine del legare al collo la pesante macina, con un foro destinato a contenere la barra che l’asino avrebbe fatto ruotare, diventa un segno della severa condanna che incombe sullo scandalizzatore, segno che noi potremmo riutilizzare per altri giudizi su colpe gravi, sempre tenendo conto delle premesse interpretative sopra fatte. Come scrive un commentatore dei Vangeli, Simon Légasse, «la terribile sorte dell’annegato con la mola al collo è poca cosa in confronto a ciò che attende nel giudizio ultimo di Dio colui che ha provocato lo scandalo».

Pubblicato il 14 giugno 2012 - Commenti (2)
07
giu

Elia reincarnato?

Il profeta Elia, mosaico absidale. Ravenna, Sant'Apollinare in Classe.
Il profeta Elia, mosaico absidale. Ravenna, Sant'Apollinare in Classe.

"Verrà Elia e ristabilirà
ogni cosa.
Ma io vi dico: Elia è già
 venuto e non l'hanno
riconosciuto.
"


(Matteo 17, 11-12)

Questa frase di Gesù è una risposta a un quesito di Pietro, Giacomo e Giovanni, mentre stanno scendendo dal monte della Trasfigurazione: «Perché gli scribi dicono che prima deve venire Elia?». Per spiegarel’enigma di quel “prima” e di questo ritorno del profeta Elia sulla scena del mondo, dobbiamo risalire alla fonte che aveva generato questa credenza sostenuta dagli scribi giudaici di quel tempo. Essa è da identificare in una frase del profeta Malachia nella quale Dio dichiarava: «Io invierò il profeta Elia prima che giunga il giorno grande e terribile del Signore» (3,23). A sua volta, questa evidente base biblica dell’affermazione degli scribi ha la sua matrice nel racconto della fine di Elia, assunto in cielo per una piena comunione con Dio (2Re 2,1-13).

Era sorta, così, la convinzione che il profeta, vivente per sempre presso Dio dopo la sua ascensione al cielo, sarebbe ritornato ad annunciare al mondo la venuta del Messia e il giudizio finale. Non mancherà nella tradizione successiva ebraica, cristiana e musulmana – di stampo, però, esoterico e fin eterodosso – chi affermasse la sua reincarnazione, dottrina in verità aliena all’antropologia biblica che, invece, proclama la risurrezione. La tesi del ritorno di Elia, vivacemente sostenuta da certi testi apocrifi giudaici come il Libro di Enok, ha lasciato tracce nel rituale ebraico della circoncisione, durante la quale si lascia libera la cosiddetta “sedia di Elia” nella speranza che egli si renda presente.

Nella cena pasquale si ha il “calice di Elia”, tenuto colmo sperando che egli venga a comunicare l’arrivo del Messia attraverso la porta di casa lasciata socchiusa. Si riteneva anche, a livello popolare, che Elia venisse costantemente sulla terra, senza essere riconosciuto, a sostenere i poveri, i malati e i moribondi. Si spiega, così, il fatto che, quando Gesù in croce grida l’avvio del Salmo 22 in aramaico ’Elî, ’Elî, lemâ sabachtanî («Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?»), la folla che assiste confonda quell’’Elî, ’Elî come un’invocazione rivolta al profeta protettore dei moribondi: «Alcuni dei presenti dicevano: “Costui chiama Elia!”... Gli altri dicevano: “Vediamo se viene Elia a salvarlo!”» (Matteo 27,47.49).

Con questi antefatti è facile comprendere la risposta di Gesù ai suoi apostoli: «Elia è già venuto e non l’hanno riconosciuto; anzi, l’hanno trattato come hanno voluto». Cristo si proclama, dunque, come Messia e dichiara che il suo Elia annunziatore fu Giovanni Battista. Ma la gente non lo riconobbe come precursore del Messia Gesù e lo condannò al martirio. L’evangelista Matteo alla fine esplicita questa interpretazione aggiungendo: «Allora i discepoli compresero che egli parlava di Giovanni Battista» (17,13). Già in un’altra occasione, dopo aver tessuto l’elogio del Battista, Gesù aveva ribadito questa identificazione simbolica: «Se lo volete accettare, egli è quell’Elia che deve venire» (11,14).

Pubblicato il 07 giugno 2012 - Commenti (1)
31
mag

«Vade retro!»

San Pietro, mosaico della cupola. Ravenna, Battistero degli Ariani.
San Pietro, mosaico della cupola. Ravenna, Battistero degli Ariani.

"Gesù, voltandosi,
disse a Pietro:
«Va’ dietro a me,
Satana! Tu mi sei
di scandalo...».
".


(Matteo 16,23)

Potrà stupire questa versione del celebre monito che Gesù rivolge a Pietro, dopo avergli assegnato il primato tra gli apostoli attraverso i simboli della pietra, delle chiavi e del potere di “legare e sciogliere” (Matteo 16,13-20). Siamo, infatti, abituati al più forte: «Lungi da me, Satana!». L’apostolo aveva reagito in maniera veemente quando Gesù aveva fatto balenare il destino che lo attendeva a Gerusalemme nell’abisso di dolore e di morte della passione: «Signore, questo non ti deve accadere mai!». E Cristo gli aveva opposto un rifiuto netto.

Sarebbe più logico, perciò, pensare a una sorta di rigetto di Pietro che – dopo la sua “confessione” del «Cristo Figlio del Dio vivente», che gli aveva meritato una beatitudine da parte di Gesù – verrebbe “sconfessato” dal suo Signore e definito uno “scandalo”. Il vocabolo in greco indica la pietra che fa inciampare e, quindi, non più la pietra di fondazione della Chiesa, come Gesù gli aveva prima annunciato. A questa resa più dura condurrebbe anche la frase successiva: «Non pensi secondo Dio ma secondo gli uomini», per non parlare poi del brutale appellativo usato da Gesù, “Satana”, termine di matrice ebraica che significa “avversario, accusatore”, e che rende Pietro non più l’apostolo delegato a rappresentare Cristo nella storia, ma quasi il suo antagonista.

Come si spiega, allora, questa traduzione più edulcorata che troviamo nel nuovo lezionario liturgico? In realtà, essa è fedele all’originale greco hýpaghe opíso mou, “seguimi dietro a me”. È in pratica il tradizionale Vade retro latino che è corretto, ma che noi abbiamo di solito inteso appunto come una reiezione che subentra all’elezione di Pietro. Qual è, invece, il vero significato del monito di Cristo? La risposta è semplice ed è precisata dalla frase successiva di Gesù: «Se qualcuno vuol venire dietro a me (opíso mou elthéin), rinneghi sé stesso, prenda la sua croce e mi segua» (16,24).

Pietro abbandoni, dunque, la sua illusoria concezione di un messianismo fatto solo di gloria e di successo, e si metta umilmente dietro al suo Signore, salendo la strada erta e irta di prove del Golgota. È questo il vero discepolato, altrimenti si è avversari “satanici” di Cristo. La via della croce comincia, perciò, già in quel momento e Pietro è invitato a essere il seguace del suo Maestro, “andando dietro a lui”, pronto anche a «perdere la propria vita per causa mia», come dirà ancora Gesù, così da “trovarla” in un altro modo più alto e intenso.

Questo appello era già stato anticipato da Cristo nel “discorso missionario” rivolto ai suoi discepoli precedentemente: «Chi non prende la propria croce e non mi segue, non è degno di me» (Matteo 10,38). E Pietro testimonierà di aver imparato la lezione della croce, quando si avvierà al martirio che, secondo la tradizione, avvenne per crocifissione. Alcuni pensano che un’allusione a questa meta del discepolato e della stessa vita di Pietro sia nella frase che il Risorto gli rivolge sul lago di Tiberiade, dopo avergli rinnovato la missione di “pascere le pecore” del gregge di Cristo: «Quando sarai vecchio stenderai le tue mani...»; e l’evangelista Giovanni commenta: «Questo disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio» (21,18-19).

Pubblicato il 31 maggio 2012 - Commenti (2)
24
mag

Il lievito

L’ultima cena, vetrata. St. Mary’s Church, Norfolk (Inghilterra).
L’ultima cena, vetrata. St. Mary’s Church, Norfolk (Inghilterra).

"Fate attenzione: guardatevi dal

lievito dei farisei e dei sadducei!
".




(Matteo 16,6.12)

Gesù è in barca sul lago di Tiberiade con i suoi discepoli ed essi s’accorgono di non avere pane a bordo. Cristo dissolve la loro preoccupazione ricordando le due precedenti moltiplicazioni dei pani (16,5-12), ma sposta il discorso dalla dimensione materiale a quella più spirituale, ricorrendo al simbolo del lievito. La frase è polemica nei confronti dei due tradizionali gruppi religiosi e politici del giudaismo. Da un lato, i farisei, in aramaico “i separati” o forse anche “i separatori”, cioè coloro che sapevano distinguere i precetti della Legge biblica secondo il loro maggiore o minore rilievo. Di per sé essi incarnavano un’ideologia aperta, spirituale e “laica”. I Vangeli polemizzano con loro più per l’ipocrisia e l’incoerenza dei loro atteggiamenti che non per i contenuti della loro dottrina che era abbastanza vicina almeno ad alcuni insegnamenti di Gesù.

Gesù è in barca sul lago di Tiberiade con i suoi discepoli ed essi s’accorgono di non avere pane a bordo. Cristo dissolve la loro preoccupazione ricordando le due precedenti moltiplicazioni dei pani (16,5-12), ma sposta il discorso dalla dimensione materiale a quella più spirituale, ricorrendo al simbolo del lievito. La frase è polemica nei confronti dei due tradizionali gruppi religiosi e politici del giudaismo. Da un lato, i farisei, in aramaico “i separati” o forse anche “i separatori”, cioè coloro che sapevano distinguere i precetti della Legge biblica secondo il loro maggiore o minore rilievo. Di per sé essi incarnavano un’ideologia aperta, spirituale e “laica”. I Vangeli polemizzano con loro più per l’ipocrisia e l’incoerenza dei loro atteggiamenti che non per i contenuti della loro dottrina che era abbastanza vicina almeno ad alcuni insegnamenti di Gesù.

Dominante, però, è l’accezione negativa perché il lievito, facendo fermentare la massa, ne induce anche la corruzione, tant’è vero che per la celebrazione della pasqua ebraica era di rigore il pane “azzimo”, termine di origine greca che significa “non lievitato” (in ebraico mazzôt). L’origine era da cercare nell’uso nomadico di cuocere il pane su lastre di pietra riscaldate: non per nulla la pasqua aveva una genesi di tipo pastorale-nomadico. Ma l’aspetto pratico si era trasformato in una componente rituale: nel seder pasquale giudaico, cioè nell’ordine dei riti della cena, c’è anche la ricerca e l’eliminazione di ogni frammento di pane lievitato presente in casa, perché non contamini la purezza incorruttibile del pane azzimo. A questa prassi si è adattata la liturgia eucaristica con l’uso dell’ostia azzima.

È facile, allora, comprendere il significato delle parole di Gesù: l’insegnamento e il comportamento dei farisei e dei sadducei sono principio di perversione della comunità che li segue e i discepoli devono vigilare per evitarne la contaminazione. Fuor di metafora, Gesù aveva già ammonito: «Lasciateli stare! Sono ciechi e guide di ciechi. E quando un cieco guida un altro cieco, tutti e due cadranno in un fosso!» (Matteo 15,14). San Paolo, evocando proprio la celebrazione pasquale, espliciterà a livello morale ed esistenziale generale il simbolismo: «Non sapete che un po’ di lievito fa fermentare tutta la pasta? Togliete via il lievito vecchio per essere pasta nuova, poiché siete azzimi. Infatti Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato! Celebriamo, dunque, la festa non con il lievito vecchio, né con lievito di malizia e perversione, ma con azzimi di sincerità e verità» (1Corinzi 5,6-8).

Pubblicato il 24 maggio 2012 - Commenti (2)
17
mag

I cagnolini

Alessandro Allori detto il Bronzino (1535-1607), Cristo e la cananea. Firenze, San Giovannino degli Scolopi.
Alessandro Allori detto il Bronzino (1535-1607), Cristo e la cananea. Firenze, San Giovannino degli Scolopi.

"Non è bene prendere il pane
dei figli e gettarlo ai cagnolini!
".


(Matteo 15,26)

Scena piuttosto inattesa, questa, descritta solo da Matteo (15,21-28) e Marco (7,24-30): essa presenta un Gesù molto duro, ai limiti dell’insensibilità, a tal punto che gli stessi discepoli devono intervenire, almeno per placare la donna che li sta seguendo e che reca con sé il suo dramma. Cristo si trova nel territorio di frontiera con l’attuale Libano e un’indigena cananea (o siro-fenicia) si aggrappa a lui, sulla base della sua fama di guaritore, implorando un suo intervento per la figlia malata.

Gesù all’inizio la ignora semplicemente («non le rivolse neppure una parola»). All’intercessione dei discepoli che vogliono liberarsi di questa presenza importuna, reagisce con un gelido “no”: «Non sono stato mandato se non alle pecore perdute della casa di Israele», ribadendo il primato dell’orizzonte ebraico nella sua missione, sulla scia dell’elezione di Israele. Ma la sua freddezza, sia pure motivata, non scoraggia la donna che gli urla: «Signore, aiutami!». E qui il nostro sconcerto raggiunge l’apice, sentendo Gesù replicarle in modo sferzante con un probabile proverbio quasi “razzista”: ai cani non si dà il pane destinato agli esseri umani!

È vero che nella frase si adotta il diminutivo più attenuato, kynária, “cagnolini”, ma è evidente l’appellativo spregiativo di “cani” riservato agli infedeli, cioè ai pagani, a causa della loro impurità religiosa e rituale, tipica di questi animali che già nell’Antico Testamento venivano usati come appellativo offensivo (“cani”) nei confronti dei prostituti maschi, presenti nei culti idolatrici. Ma quando il cuore di una madre soffre per la sua creatura, non conosce offese o limiti, e la sua replica è umile e coraggiosa al tempo stesso: «Eppure i cagnolini mangiano le briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni».

A questo punto Gesù è, per così dire, trasformato dall’esempio della donna straniera; potremmo quasi dire che riceve da lei una lezione di fede che egli esplicita, prima di concederle il dono tanto sospirato: «Donna, grande è la tua fede!». La confessione e la lode rivolte a questa madre pagana aprono idealmente le frontiere della salvezza oltre il popolo ebraico. L’unico requisito decisivo non è più l’etnia o la cultura ma la fede, come era accaduto anche nel caso del centurione romano che implorava a Gesù la guarigione di un suo servo: «In verità vi dico, in Israele non ho trovato nessuno con una fede così grande!» (Matteo 8,10).

Naturalmente questo comportamento di Gesù, da un lato, marca la sua reale umanità legata a una mentalità, a un linguaggio, a una sensibilità, a un’appartenenza. D’altro lato, però, esso dev’esser letto nella traiettoria della storia della salvezza che ha in Israele il punto di partenza. Dio entra in dialogo con l’umanità attraverso un popolo a cui consegna il suo messaggio e l’incarico di essere testimone nel mondo della sua salvezza.

È questo il tema dell’elezione, della promessa, dell’alleanza che lo stesso san Paolo, apostolo dei pagani, riconosce ed esalta (Romani cc. 9-11), criticando con i profeti la riduzione di questa missione da parte degli ebrei solo a privilegio o a motivo di orgoglio nazionalistico. In questa luce il nostro brano dev’essere interpretato riprendendo tra le mani un testo già da noi commentato, quando Gesù si era rivolto ai Dodici invitandoli inizialmente a «non andare fra i pagani... e a rivolgersi piuttosto alle pecore perdute della casa di Israele» (Matteo 10,5-6), ma infine esortandoli a «fare discepoli tutti i popoli» (28,19).

Pubblicato il 17 maggio 2012 - Commenti (2)
10
mag

«È un fantasma!»

Gustave Doré (1832-1883), Gesù cammina sulle acque, incisione.
Gustave Doré (1832-1883), Gesù cammina sulle acque, incisione.

"Sul finire della notte egli andò verso di loro camminando sul mare… I discepoli, sconvolti, urlarono: «È un fantasma!»".

(Matteo 14,25-26)

La celebre scena di Gesù che avanza sulle acque agitate del lago di Tiberiade (detto “mare” secondo il linguaggio biblico) crea un certo imbarazzo nel lettore moderno, anche credente. Sappiamo, infatti, che Cristo evita intenzionalmente i prodigi taumaturgici, rifugge dalle magie spettacolari, teme che lo si scambi per una “star” degli eventi miracolosi, tant’è vero che spesso egli compie le guarigioni in disparte dalla folla, imponendo il silenzio ai beneficiari. E allora, come spiegare questo atto così clamoroso, peraltro riferito non solo da Marco (6,45-52), la fonte primaria di Matteo, ma anche dal più tardo Vangelo di Giovanni (6,16-21)?

La scena si svolge – se stiamo all’originale greco del Vangelo – «alla quarta veglia» della notte, cioè nell’ultima delle quattro fasi in cui essa era divisa, ossia fra le tre e le sei. Abbiamo, quindi, ancora il segno della tenebra, che è nella Bibbia un simbolo negativo. Analogo è il valore del “mare” che, come è noto, nella Sacra Scrittura incarna il caos, il nulla, il male, tant’è vero che il Giovanni dell’Apocalisse, quando s’affaccerà sulla nuova creazione, scoprirà che «il mare non c’era più» (21,1). Similmente il vento tempestoso è emblema di terrore e di distruzione. Tutta la scena è, quindi, all’insegna della negatività.

Gesù si leva solenne su questo orizzonte, che è agli antipodi della terra, della luce, della quiete, quasi come il Creatore agli inizi stessi dell’atto creativo descritto dalla Genesi. Egli, perciò, compie nei confronti dei discepoli una sorta di azione simbolica simile a quelle che i profeti – soprattutto Geremia ed Ezechiele – manifestavano al loro uditorio, accompagnandole con una spiegazione religiosa. Facile è l’equivoco di chi interpreta la scena come un evento magico o preternaturale. È ciò che accade ai discepoli terrorizzati che urlano: «È un fantasma!».

È per questo che, subito dopo, Gesù spazza via la loro sensazione attraverso due frasi illuminanti che decifrano l’atto nel suo significato teologico e non magico o spettacolare. La prima è da scoprire nell’originale e non nella versione che suona così: «Coraggio, sono io, non abbiate paura!» (14,27). In realtà, in greco si ha: egó eimi, «Io sono!». Ora, questa è la versione del nome che Dio rivela a Mosè al Sinai: «Io sono colui che sono!» (Esodo 3,14), nome abbreviato già in quell’occasione in «Io sono ». L’espressione, variamente interpretata, ci ricorda comunque che Dio è una persona (“Io”) la quale esiste e opera (il verbo “essere”).

Ebbene, in quel momento Cristo svela ai discepoli con questo atto eccezionale la sua realtà intima, nascosta dal velo della sua umanità. È un po’ quello che accadrà sul monte della Trasfigurazione: egli ora si presenta in una teofania, cioè in un segno rivelatore della sua divinità di Signore del cosmo e della storia. L’altra frase esplicativa è quella rivolta in finale a Pietro: «Uomo di poca fede, perché hai dubitato?» (14,31). Per comprendere l’evento del cammino sulle acque – come anche gli stessi miracoli – è necessario un canale di conoscenza ulteriore rispetto a quello dei sensi e della pura e semplice ragione, ossia la via della fede e dell’adesione al mistero divino.

Pubblicato il 10 maggio 2012 - Commenti (2)


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Autore del blog

Gianfranco Ravasi

Gianfranco Ravasi

Gianfranco Ravasi è un cardinale, arcivescovo cattolico e biblista italiano, teologo, ebraista ed archeologo.
Dal 2007 è presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, della Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa e presidente della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra.

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