Francesco Traini (secolo XIV), Giudizio finale, particolare con angelo e beato. Pisa, Camposanto.
"Amico, come mai
sei entrato qui senza
l’abito nuziale?...
Legatelo mani e piedi
e gettatelo fuori
nelle tenebre!"
(Matteo 16,23)
Le varie parabole di Gesù attingono
sempre alla vita sociale di un popolo.
Nel caso del banchetto nuziale
regale (Matteo 22,1-14) si fa riferimento
a un evento che, anche ai nostri giorni,
stimola l’interesse della comunicazione
e la curiosità della gente. Gesù, elaborando
un simile avvenimento, lo colora
di allusioni allegoriche modulate anche
sulla tradizione biblica: il re evoca
Dio, mentre suo figlio si trasfigura nel
Messia e il banchetto nuziale diventa
la grande celebrazione della festosa
era messianica (si legga Isaia 25,6-10);
nei servi inviati a convocare gli invitati
sono riconoscibili i profeti e gli apostoli;
gli invitati della prima cernita che si
comportano in modo così altezzoso e
fin aggressivo incarnano l’Israele peccatore
e i Giudei che rigettano Cristo; i
chiamati raccolti per le strade rimandano
ai pagani lieti di essere ammessi in
quel banchetto privilegiato, mentre la
città dei ribelli data alle fiamme è l’anticipazione
della rovina di Gerusalemme
del 70 dopo Cristo.
Rimane, però, un’altra scena piuttosto
sconcertante, introdotta solo da Matteo.
Alcuni studiosi pensano persino
che si tratti di un’altra parabola “incollata”
a quella del banchetto nuziale che è
nota anche a Luca (14,16-24). La prospettiva
sembra diversa e più universale:
siamo di fronte al giudizio finale ove
si consumerà una divisione netta, simile
a quella tra grano e zizzania di un’altra
nota parabola matteana (13,24-30).
È da questa seconda parte del racconto
che noi abbiamo desunto l’elemento
centrale piuttosto sconcertante, che vede
come protagonista un uomo senza
l’abito da cerimonia.
La perplessità che proviamo è spontanea:
una condanna così aspra è giustificata
da una semplice mancanza di etichetta?
Evidentemente no. Bisogna risalire
al simbolismo, diffuso in tutte le
culture, della veste. Essa non ha solo
funzioni concrete nei confronti del clima
o di decenza riguardo al pubblico,
ma rivela anche un aspetto emblematico,
estetico e sociale (si pensi solo alla
funzione fin esasperata della moda ai
nostri giorni). Anzi, l’abito da cerimonia
è spesso indizio di una dignità civile
o religiosa: è ciò che accade per i paramenti
sacerdotali, la corona e lo scettro
reale, la fascia del sindaco e così
via, tant’è vero che per indicare l’accesso
a una carica pubblica parliamo di
“investitura”.
È chiaro, allora, che l’assenza di abito
nuziale nel protagonista di questo secondo
racconto è indizio ben più grave di
una semplice carenza di educazione. È la
privazione di quelle opere e qualità
morali che possono ammettere al Regno
di Dio e al suo banchetto. Non è
sufficiente la vocazione a un compito (“i
chiamati”), bisogna anche adempierlo
con fedeltà e impegno così da diventare
“eletti”, cioè ammessi alla festa finale.
Fede e opere di giustizia devono unirsi
nell’esistenza, perché «non chiunque
dice: “Signore, Signore!” entrerà nel regno
dei cieli, ma colui che fa la volontà
del Padre che è nei cieli» (Matteo 7,21).
Altrimenti si è votati alle tenebre della
condanna infernale, lontani dal banchetto
del Regno di Dio. Là si avrà «pianto e
stridore di denti», un’immagine quest’ultima
non solo di freddo, come si ha nel
mondo classico e come suppone l’oscurità
con l’assenza del sole, ma anche di terrore
e di disperazione.
Pubblicato il 19 luglio 2012 - Commenti (2)