20 mar
Parabola dell’amministratore disonesto di Marinus van Reymerswaele (ca. 1493-1567). Vienna, Kunsthistorisches Museum.
"Il padrone lodò
quell'amministratore disonesto
perchè aveva agito
con scaltrezza"
(Luca 16,8)
Parabola un po’ ardua e sconcertante
quella che Luca propone nel capitolo
16 del suo Vangelo. Di scena è uno dei
tanti personaggi corrotti e furbi che popolano anche le cronache dei nostri giorni. Si tratta di un amministratore che aveva mal gestito il patrimonio di un’azienda e che viene alla fine scoperto, rischiando il licenziamento.
Di fronte all’incubo di perdere lo
status
sociale acquisito, egli ricorre a un meccanismo finanziario che lo penalizza temporaneamente, ma che gli permette di sanare i bilanci e
di mantenere l’incarico.
ll dispositivo adottato è un po’ complesso
da spiegare perché è legato all’economia e alla società di allora.
Gli amministratori non
erano direttamente retribuiti, ma si ritagliavano un compenso sulle transazioni che
compivano.
Così, se ad esempio dovevano
vendere cinquanta barili d’olio (18 ettolitri),
per compensare anche sé stessi ne facevano
figurare persino il doppio (36 ettolitri, pro-
dotti da circa 140 ulivi); su ottanta “misure”
di grano ne fatturavano cento (550 quintali
circa, derivanti da 42 ettari di terreno), così
da assicurarsi una lauta retribuzione.
Ebbene, per mettere i conti in ordine ed evitare
contestazioni da parte del padrone insoddisfatto dell’operato del suo dipendente, a causa del carico fin usurario che egli aveva imposto ai clienti, l’amministratore ritorna alla vera quantità elargita e, quindi, sulle ricevute
segna solo cinquanta barili e ottanta misure.
Rinuncia, così, al proprio guadagno pur di
salvare il posto e non retrocedere a mero
bracciante o, peggio, ridursi sul lastrico.
Vedendo la mossa del suo intendente,
il padrone resta ammirato della prontezza con
cui ha sanato la situazione.
Ed è proprio qui
che scatta l’applicazione fatta da Gesù. È indubbio che quell’amministratore è un mascalzone – e questo non può certo essere oggetto di imitazione –, ma egli rivela che, quando si è in una situazione estrema e grave, si
deve afferrare l’unica tavola di salvezza, anche a costo di una penalizzazione dei propri
interessi. Ecco, allora, l’amara conclusione di
Cristo: «I figli di questo mondo verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce» (16,8).
Purtroppo – fa capire Gesù – “i figli della luce”, cioè
le persone normali e oneste, sono
spesso più lenti e meno pronti a compiere il
bene
e soprattutto a cogliere le occasioni che
Dio presenta sulla loro strada. Cristo in particolare pensa al fatto di tanti suoi uditori che non
capiscono l’urgenza di una decisione netta e
forte nel seguire la sua parola. Anche l’omissione e l’inerzia sono un peccato: «Peccare», scriveva Pier Paolo Pasolini, «non è solo non fare il
male, ma anche non fare il bene».
Pubblicato il 20 marzo 2013 - Commenti (3)
12 mar
Gesù appare ai discepoli , vetrata, St. Mildred, Tenterden (Kent).
"Se uno viene a me
e non odia suo padre, sua
madre...e persino
la propria vita,
non può essere
mio discepolo"
(Luca 14,26)
Ma è mai possibile che quel Gesù, «mi-
te e umile di cuore» che invitava a
porgere l’altra guancia, al perdono
senza riserve, all’amore come legge fonda-
mentale e primo Comandamento, ci esorti
– per essere suoi discepoli – a “odiare” pa-
dre, madre, moglie, figli, fratelli, sorelle e
persino sé stessi? È significativo che l’evan-
gelista Matteo abbia riferito questa frase di
Cristo secondo una modalità ben differente:
«Chi ama padre o madre più di me, non è de-
gno di me; chi ama figlio e figlia più di me,
non è degno di me» (10,37).
La spiegazione di quella affermazione così
sconcertante di Gesù è da cercare nel
sotto-
fondo linguistico che talvolta affiora nel
dettato greco dei Vangeli.
Come è noto, al
di là di qualche ipotesi avanzata riguardo
all’opera di Matteo, è indubbio che la stesura
dei Vangeli – specialmente quello di Luca
che rivela un greco abbastanza raffinato – è
avvenuta in quella lingua che allora domina-
va nell’impero romano, quasi un po’ come
accade ai nostri giorni per l’inglese. Tuttavia,
quegli scritti rivelano spesso in filigrana la
matrice della lingua originaria dei loro autori o almeno riflettono la loro formazione e,
in particolare per le frasi di Gesù, l’originale
aramaico con cui egli si esprimeva.
Ora, in ebraico e aramaico non si ha il comparativo, ma si usano solo le forme assolute. Così,
per dire “amare meno” si adotta
l’estremo opposto all’“amare”, cioè l’“odia-
re”.
Il senso della frase, tanto forte ai nostri
orecchi, in realtà vuole più pacatamente affermare quanto propongono alcune versioni
moderne, come quella della Conferenza episcopale italiana che traduce il nostro versetto in questo modo, sulla scia del parallelo di
Matteo:
«Se uno viene a me e non mi ama
più di quanto ami suo padre..., non può essere mio discepolo». Oppure si potrebbe anche
tradurre: «Se uno viene a me e mi ama meno
di quanto ami suo padre...».
In questa dichiarazione ritroviamo una
componente caratteristica della predicazione
e delle scelte di Gesù: la sua è una chiamata
che esige un impegno forte, un distacco da
tante abitudini, un orientamento radicale ver-
so di lui e il regno di Dio. Per esprimere questa esigenza egli non esita a ricorrere al paradosso: «Chi ama la propria vita, la perde e chi
odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna» (
Giovanni
12,25).
E i
discepoli impareranno che talora questa non
è solo un’espressione intensa di stile orienta-
le, ma è anche
una verità che si attua con la
testimonianza del martirio.
Sempre nella linea del paradosso sarà, invece, quest’altro episodio ricordato da Luca: «A uno Gesù disse: Seguimi! E costui rispose: Signore, permettimi
di andare prima a seppellire mio padre. Gesù
gli replicò: “Lascia che i morti seppelliscano i
loro morti; tu, invece, va’ e annuncia il regno
di Dio”» (9,59-60).
Pubblicato il 12 marzo 2013 - Commenti (3)
05 mar
La Pentecoste, Luis de Morales (1509-1586). Chiesa dell’Assunzione, Caceres, Spagna.
"Sono venuto a
gettare fuoco sulla
terra, e quanto
vorrei che fosse
già acceso"
(Luca 19,49)
Giovanni Battista aveva dichiarato: «Io
vi battezzo con acqua; ma viene colui
che è più forte di me, a cui non sono
degno di slegare i lacci dei sandali. Egli vi battezzerà
in Spirito Santo e fuoco» (Luca 3,16).
Gesù sembra raccogliere quell’annunzio con
la frase che ora proponiamo al nostro approfondimento,
anche perché essa continua così:
«Ho un battesimo nel quale sarò battezzato, e
come sono angosciato finché non sia compiuto!» (12,50). A questo punto vorremmo domandarci:
qual è mai questo «fuoco» che Cristo
vuole spandere sulla terra?
Una prima interpretazione è da cercare proprio
nell’immagine successiva del battesimo,
anticipata in qualche modo anche dal Battista.
Di per sé il termine “battesimo” deriva da
un verbo greco (bápto/baptízein) che letteralmente
significa una “immersione”, solitamente
nell’acqua, come avviene appunto nel rito
battesimale cristiano. Si può, tuttavia, pensare
a un’altra “immersione”, come quella che Gesù
sperimenterà con la sua sepoltura nella terra.
Si ha, così, un rimando alla morte e risurrezione
di Cristo: essa è simile a un’esplosione
di luce e di fuoco che trasforma l’umanità,
liberandola dalle scorie del male e rendendola
pura come in un crogiuolo.
Un’altra lettura di questo detto di Gesù
può essere collegata alle frasi ulteriori che
egli pronuncia, quando dichiara di essere «venuto
non a portare pace sulla terra ma divisione
» (12,51) e, subito dopo, descrive le tensioni
che l’adesione a lui crea nelle famiglie
ove «si divideranno padre contro figlio e figlio
contro padre, madre contro figlia e figlia
contro madre, suocera contro nuora e nuora
contro suocera» (12,53). Il fuoco è, dunque,
quello della sua parola che è simile a una spada
(Matteo 10,34) che lacera la superficie e
produce ferite, scopre segreti, devasta abitudini
consolidate. Sarebbe, quindi, una metafora
della vocazione cristiana che impone
una scelta ardente e radicale.
L’ingresso di Gesù nella storia causa, dunque,
uno stravolgimento perché egli è «un segno
di contraddizione», come aveva annunziato
il vecchio Simeone quando lo stringeva ancor
neonato tra le braccia (Luca 2,34). È come
se egli appiccasse un incendio che si espande
intaccando il «legno secco» (Luca 23,31) del
peccato, del vizio e del male. Ma, a conclusione,
potremmo anche allegare un’ultima interpretazione
che basiamo sulla seconda opera
di Luca, gli Atti degli apostoli.
Là, infatti, si descriveva la Pentecoste con
l’irruzione dello Spirito Santo la cui venuta
era stata a più riprese promessa da Cristo. Ebbene,
l’evangelista così tratteggiava
quell’evento: «Apparvero come lingue di fuoco
che si dividevano e si posarono su ciascuno
di loro [gli apostoli] e tutti furono colmati
di Spirito Santo» (Atti 2,3-4).
Lo Spirito Paraclito
è, dunque, simile a un fuoco, perché
arde nei cuori dei discepoli e li rende testimoni
coraggiosi e impavidi della fede. Sarebbe
questo il fuoco che Cristo starebbe per diffondere
sulla terra.
Pubblicato il 05 marzo 2013 - Commenti (2)
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