30 mag
"Mentre li benediceva,
si staccò da loro e veniva
portato su in cielo"
(Luca 24, 51)
Ascensione (1250-1260), Salterio. Londra, British Museum.
Nella fantasia degli artisti, ma anche di molti fedeli, la scena
dell’Ascensione di Cristo ha i contorni che un poeta agnostico come il
francese Apollinaire così cantava nella
poesia Zona (1913), immaginando Gesù
come un moderno aviatore (diremmo
noi oggi “astronauta”): «I diavoli dagli
abissi levano il capo per guardarlo... Gli
angeli volteggiano attorno al grazioso
Volteggiatore». Anche sul monte degli
Ulivi, nell’antico tempietto bizantino e
crociato (ora musulmano) dedicato
all’Ascensione, si mostra una roccia sulla quale la tradizione popolare vede impresse le impronte dei piedi del Risorto
nello slancio dell’ascesa!
In realtà, questo evento – che san Luca
pone a suggello del suo Vangelo e in apertura alla sua seconda opera, gli Atti degli
apostoli (1,6-12) – dev’essere compreso
nel suo significato profondo, andando al
di là di concezioni troppo “materialistiche” e “astronautiche”. Sappiamo che
l’area celeste è per eccellenza il segno del
divino e del trascendente rispetto all’orizzonte in cui sono immerse le creature. In
realtà, però, Dio supera e ingloba anche
il cielo, essendo infinito. Ora, Gesù di Nazaret con la risurrezione passa
dall’orizzonte spaziale e storico terreno alla pienezza della sua divinità, con
tutto il suo essere anche corporeo che viene trasfigurato e glorificato.
La “verticalità” dell’ascensione rappresenta, perciò, il mistero che si celava in
Cristo quando era nell’“orizzontalità”
del nostro spazio e del nostro tempo. Si
ricorre, così, alla descrizione biblica della fine dei giusti, come l’arcaico patriarca
Enok e il profeta Elia che furono rapiti in
cielo (Genesi 5,22; 2Re 2): il Risorto ritorna nella città celeste da cui era venuto,
cioè dal mistero della divinità, e con sé
attira l’umanità redenta, strappandola
alla caducità del tempo e del limite, del
male e del peccato (questo è anche il senso dell’assunzione di Maria al cielo). Come diceva sant’Agostino nel suo Sermone per l’ascensione, «la risurrezione del Signore è la nostra speranza, l’ascensione
del Signore è la nostra glorificazione».
È interessante notare che l’evangelista Giovanni a più riprese raffigurerà
la crocifissione e la risurrezione di Cristo proprio come un “innalzamento”,
un’ascensione,una glorificazione: «Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo... Quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me» (3,14;
12,32). Venendo in mezzo a noi, Gesù
è diventato in tutto simile a noi; con
la morte egli conclude la sua parabola
storica.
Con la risurrezione egli è “innalzato” dal nostro orizzonte, “ascendendo” a quel mondo divino a cui appartiene come Figlio di Dio, portando
con sé quell’umanità che egli aveva assunto incarnandosi, così da condurla
alla gloria. Una nota a margine: il
grande Bach ha dedicato all’Himmelfahrt, cioè all’Ascensione di Cristo, un
grandioso oratorio musicale eseguito
nel 1735, concluso da uno stupendo
corale che intreccia il dolore della separazione da Cristo con la gioia della
sua glorificazione.
Pubblicato il 30 maggio 2013 - Commenti (2)
24 mag
"Guardate le mie mani
e i miei piedi: sono proprio io!
Toccatemi e guardate:
un fantasma non ha carne e ossa."
(Luca 24,39)
Caravaggio, Incredulità di Tommaso , 16oo-01. Potsdam-Sans-Souci, Bildergalerie.
Che sia poco felice il termine “apparizioni”, usato per indicare gli incontri del Cristo risorto coi suoi discepoli,
è dovuto alla comune accezione moderna che spesso lega questa parola alla magia o alla parapsicologia e non di rado a
emozioni personali indefinibili e discutibili. In realtà, il linguaggio neotestamentario ricorre al semplice verbo “vedere”:
Gesù “fu visto” dopo la sua morte in tre incontri con singole persone e in cinque
con la comunità dei discepoli.
Uno di questi ultimi incontri, ambientato a Gerusalemme, è descritto da Luca (24,36-42) subito dopo il celebre racconto di Emmaus.
La scena impressiona per la sua “carnalità”: essa contrasta con l’improvvisa
epifania di Cristo («stette in mezzo a loro») – che lo fa scambiare per un fantasma agli occhi dei discepoli – e con l’idea
di un corpo “trasfigurato” che noi colleghiamo al concetto di risurrezione.
Luca
va giù pesante non solo riferendo l’invito a toccare carne e ossa del Risorto, un
po’ come accadrà all’apostolo Tommaso
nel racconto di Giovanni (20,27), ma evocando anche una sorprendente proposta dello stesso Gesù a cui dà seguito in
modo deciso: «Avete qui qualcosa da
mangiare? Gli offrirono una porzione di
pesce arrostito. Egli lo prese e lo mangiò
davanti a loro».
La spiegazione di questo dato un po’
imbarazzante è da cercare nel particolare
stato del Risorto.
Egli è nella gloria della divinità e, quindi, è oltre la fragilità
carnale e la mortalità.
È per questo che
può apparire all’improvviso, persino «a
porte chiuse», come accade nel caso citato
di Tommaso (Giovanni
20,26). È ancora
per questo che può essere scambiato quasi per un fantasma o persino – come accadrà a Maria di Magdala – confuso con
un’altra persona, il custode dell’area cemeteriale (Giovanni
20,15). Questo avviene perché è necessario un ulteriore canale di conoscenza rispetto a quello razionale, una “visione” differente rispetto a
quella oculare fisica: è
il percorso di conoscenza della fede che permette di
intuire il volto di Cristo risorto.
Questo, però, non significa che egli
sia diverso dal Gesù storico. Ecco, allora,
la sottolineatura sulla corporeità.
Ora, è
noto che per il semita il corpo non è solo un agglomerato biologico e fisiologico; è soprattutto il segno della personalità, della presenza, dell’individualità. Il
Risorto è, dunque, la stessa persona, e
l’esperienza pasquale non è una mera
sensazione soggettiva, ma essa è indotta
da una realtà oggettiva, esterna, trascendente ma reale.
Talmente reale ed efficace da mutare
radicalmente la vita di quegli uomini esitanti, timorosi e dubbiosi e persino l’esistenza di un avversario deciso come Paolo di Tarso.
Questa marcata sottolineatura della corporeità del Risorto è tipica sia di Luca sia di Giovanni che devono confrontarsi con lo scetticismo del
mondo greco
riguardo alla risurrezione,
mondo a cui appartenevano i destinatari dei loro Vangeli. Emblematica sarà
l’esperienza dell’apostolo Paolo nel suo
intervento all’Areopago di Atene, ove
egli si scontrerà con una forte reazione
negativa all’annunzio della risurrezione
di Cristo (Atti 17,30-33).
Pubblicato il 24 maggio 2013 - Commenti (2)
17 mag
"Essi narrarono
ciò che era accaduto lunga la via
e come l'avevano riconosciuto
nello spezzare il pane."
(Luca 24,35)
La cena di Emmaus di Diego Velázquez, 1622-23. New York, Metropolitan Museum of Art.
Caravaggio ripropone questa scena in modo emozionante ben
due volte, in tele che sono custodite rispettivamente alla National Gallery di Londra e alla Pinacoteca milanese
di Brera. Certo è che la cosiddetta “Cena
di Emmaus” narrata dall’evangelista Luca (24,13-35) è rimasta non solo nella fede dei credenti, ma anche nell’immaginario di tutti, specialmente attraverso
quell’invocazione finale dei due discepoli: «Rimani con noi perché si fa sera e
il giorno sta ormai declinando!». Come
è noto, questo incontro del Cristo risorto con Cleopa (diminutivo di Cleopatro)
e con un altro seguace anonimo di Gesù è “dipinto” narrativamente
dall’evangelista in due quadri consequenziali.
All’inizio c’è la strada e il cammino di
sessanta stadi (all’incirca undici chilometri) per raggiungere Emmaus, un villaggio la cui identificazione non è certa. È,
questo,
il momento della parola: considerazioni sconsolate dei due, spiegazioni intense e appassionate dell’ignoto viandante.
Ecco, poi, la seconda scena, in un interno, attorno a una mensa
ove basta solo un gesto per far riconoscere in quel compagno di viaggio il Cristo:
«Prese il pane, recitò la benedizione, lo
spezzò e lo diede loro». Perché lo “spezzare il pane” fa aprire gli occhi a quei due?
La risposta è di indole teologica e liturgica. La frase appena citata
echeggia, in-
fatti, i gesti compiuti da Gesù nella
sua ultima cena,
quando appunto egli
«prese il pane, rese grazie, lo spezzò e lo
diede loro» (
Luca
22,19). È, quindi, l’eucaristia l’atto dello svelamento del Cristo risorto agli occhi del credente. Non
basta, per poterlo riconoscere nella sua
realtà più intima, l’esperienza fisica
dell’ascolto. Quest’ultima è importante
perché – come i due discepoli confesseranno – fa “ardere il cuore nel petto”; ma è
necessaria una via superiore di conoscenza, quella della fede, che permette l’incontro pieno sotto il segno del pane spezzato.
È per questo che
la formula “spezzare il pane” (in greco
klásis tou ártou)
diverrà quasi “tecnica” per indicare
l’eucaristia.
Lo stesso evangelista Luca,
quando delinea negli Atti degli apostoli
le quattro colonne ideali che reggono la
comunità cristiana di Gerusalemme, non
esita a collocarvi anche questo rito fondamentale della Chiesa: «Erano perseveranti nell’insegnamento degli apostoli, nella
comunione fraterna, nello spezzare il pane (klásis tou ártou) e nelle preghiere»
(2,42).
Poche righe dopo (2,46), si ricorda
che questa celebrazione avveniva all’interno delle abitazioni ove si radunavano
i primi cristiani: «Erano perseveranti insieme nel tempio e spezzavano il pane
nelle case», e ciò aveva luogo all’interno
di un banchetto comunitario («prendevano cibo con letizia e semplicità di cuore»).
Questo atto è rievocato altrove nel secondo scritto di Luca. Ad esempio, a
Troade, alla presenza di san Paolo e dello stesso Luca, si nota: «Il primo giorno
della settimana ci eravamo riuniti a
spezzare il pane» (20,7). Similmente, dopo una terribile tempesta nel Mediterraneo e prima di approdare a Malta, Paolo sulla nave «prese un pane, rese grazie a Dio davanti a tutti e lo spezzò cominciando a mangiarlo» (27,35). Era stato lo stesso Apostolo, scrivendo ai fedeli di Corinto, a dare
indicazioni severe
per una retta celebrazione della cena
del Signore
nel contesto del banchetto
comunitario (1
Corinzi
11,17-34).
Pubblicato il 17 maggio 2013 - Commenti (2)
10 mag
"Se si tratta così
il legno verde, che avverrà
del legno secco?
(Luca 22,31)
Le Marie al calvario di Domenico Morelli (1826-1901). Napoli, Museo di San Martino.
Gesù avanza, già sfinito, lungo la
via che lo conduce al Calvario.
Nella folla incuriosita, come sempre,
delle sventure altrui (si pensi ai turisti dell’orrore che accorrono nei luoghi
ove si sono consumati delitti o tragedie),
solo l’evangelista Luca segnala la presenza di
una sorta di confraternita femminile votata all’assistenza dei condannati a morte
ai quali – stando al
Talmud, la grande raccolta antica di tradizioni giudaiche – offrivano bevande anestetiche. A loro Gesù indirizza un messaggio forte, per certi versi minaccioso.
In altri termini dichiara loro: più che
compatire me, dovreste preoccuparvi di
voi stesse e del vostro popolo.
Inizia, infatti, con questo monito: «Figlie di Gerusalemme, non piangete su
di me, ma piangete su voi stesse e sui
vostri figli!» (23,28). E subito dopo calca
la sua affermazione con una serie di frasi cariche di simboli e di colori apocalittici.
La prima contiene una sorta di profezia: «Ecco, verranno giorni nei quali si
dirà: beate le sterili, i grembi che non
hanno generato e i seni che non hanno
allattato!» (23,29).
Lo sguardo di Gesù
sembra allungarsi fino alla tragedia
che colpirà Gerusalemme nel 70,
quando sarà demolita dai Romani. In realtà,
egli risale nella memoria di un altro
evento drammatico, quello del 586 a.C.
quando furono i Babilonesi a distruggere la Città santa.
In quel giorno – cantavano le Lamentazioni bibliche – «la lingua del lattante
si era attaccata al palato per la sete; i
bambini chiedevano il pane e non c’era
chi lo spezzasse loro» (4,4).
Perciò, fortunate le donne sterili che, non avendo figli, non vedevano morire tra le braccia i
loro bambini. È ciò che Gesù aveva già
detto nel suo discorso “escatologico”, ossia sulla meta ultima di Gerusalemme e
della storia umana, una fine destinata a
essere accompagnata da
un tempo di
grande sventura prima di aprirsi alla
luce della redenzione e della salvezza:
«In quei giorni guai alle donne incinte e
a quelle che allattano perché vi sarà
grande calamità nel paese e ira contro
questo popolo» (Luca
21,23).
La seconda frase, sempre cupa, che
Gesù indirizza a quelle donne è, invece,
una citazione del profeta Osea (10,8):
«Allora cominceranno a dire ai monti:
cadete su di noi! E alle colline: copriteci!» (23,30). È l’esclamazione potente di
chi, trovandosi in una sventura insopportabile, implora la morte attraverso
una catastrofe cosmica. Siamo sempre
nella linea della cosiddetta “apocalittica”, che vuole scuotere Israele perché tema il giudizio finale di Dio.
Giungiamo, così, all’ultima dichiarazione di Cristo che mette in relazione il
legno verde e quello stagionato e arido
(23,31). L’immagine, variamente precisata dagli studiosi, è comunque abbastanza nitida e netta: se ora si brucia il
legno verde, cioè intatto e vivo, simbolo di Gesù il giusto, cosa accadrà quando saranno sottoposti al giudizio i veri
colpevoli, ossia il legno secco?
Anche
nel libro del profeta Ezechiele giusto e
peccatore sono rappresentati sotto questo stesso duplice segno: «Io accenderò
in te – dice il Signore – un fuoco che divorerà ogni albero verde e secco»
(21,3). Gesù, perciò, invita a considerare
la vera tragedia che è quella del giudizio divino su chi lo sta ora uccidendo,
e quindi la condanna di Dio nei
confronti del male, della violenza e
dell’ingiustizia (il legno secco, facilmente combustibile).
Pubblicato il 10 maggio 2013 - Commenti (1)
03 mag
"Chi non ha una spada
venda il mantello
e ne compri una!"
(Luca 22,36)
Il bacio di Giuda del Beato Angelico. Firenze, Museo di San Marco.
È
sorprendente questa frase che Cristo rivolge nel cenacolo agli apostoli. Essa,
nella sua forma completa, evoca un mo-
mento del passato quando Gesù aveva invitato i discepoli ad andare in missione senza sacca da viaggio, denaro, abiti di ricambio, sandali di scorta (
Matteo
10,9-10). Infatti, dichiara:
«Ora, chi ha una borsa da viaggio la prenda e
così chi ha una sacca, e chi non ha una spada,
venda il mantello e ne compri una!».
E gli apostoli, senza imbarazzo, tirano fuori subito due
spade che erano in loro possesso.
Stupisce il fatto che essi girassero armati.
In realtà, lo storico ebreo Giuseppe Flavio,
di non molto posteriore a Gesù, ricorda
la
consuetudine di portare armi persino di sabato e a Pasqua per legittima difesa personale,
anche perché spesso le strade erano infestate da briganti (si pensi alla parabola
del Buon Samaritano). Ugualmente il
Talmud
– che raccoglie le antiche tradizioni giudaiche – ammette il possesso di una spada
come tutela nei territori a rischio, soprattutto di confine.
Gesù, però, parla in senso metaforico, come aveva già fatto in un’altra occasione
quando aveva dichiarato: «Non sono venuto
a portare la pace, ma una spada» (Matteo
10,34). Con queste parole egli intendeva affermare che era ormai giunto il tempo della
lotta contro il potere delle tenebre. Si era ormai compiuta la divisione, netta come il taglio di una spada, tra bene e male, tra Cristo
e il passato, tra il Salvatore e Satana.
La spada, quindi, era un’arma spirituale e non militare,
più o meno come dirà san Paolo quando raffigurerà «l’armatura di Dio perché pos-
siate resistere nel giorno malvagio e restare
in piedi dopo aver superato tutte le prove» (si
legga il passo di
Efesini
6,13-17).
Di fronte al fraintendimento delle sue parole, Gesù replica con uno sconsolato e rasse-
gnato «Basta!», che non riguarda il numero
delle spade ma l’ottusità dei suoi amici. Secondo il Vangelo di Luca, la scena si ripeterà
nello stesso Getsemani al momento dell’arresto. «I discepoli, vedendo ciò che stava per accadere, dissero: Signore, dobbiamo colpire
con la spada?». E senza attendere la risposta
da Cristo, ecco il fendente che essi menano
su un servo del sommo sacerdote. Gesù ancora una volta, con tristezza, ripete la stessa frase: «Lasciate, basta così!» (
Luca
22,49-51).
È un fraintendimento che non di rado ha
colpito il messaggio di Gesù
allora e nei secoli e che nasce da una lettura letteralista – se
si
vuole, fondamentalista – delle sue parole,
assunte così come suonano superficialmente senza lo sforzo di comprenderne il senso
autentico intimo. Anche se la frase paolina
ha una portata più ampia, può essere appli-
cata a queste degenerazioni nella compren-
sione del genuino messaggio cristiano: «La
lettera uccide, lo Spirito invece dà vita»
(2
Corinzi
3,6).
Pubblicato il 03 maggio 2013 - Commenti (0)
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