22 dic
L’adorazione dei Magi, lastra marmorea della tomba di Severa (300 ca.) dalle catacombe di Priscilla a Roma. Vaticano, Museo Pio Cristiano.
"Lo vedo,
ma non ora;
lo contemplo,
ma da lontano:
una stella spunta
da Giacobbe,
uno scettro sorge
da Israele".
(Numeri 24,17)
In un mondo in cui la magia raccoglieva sotto il suo manto molteplici espressioni spirituali, culturali e folcloristiche, la figura del mago Balaam – del quale si hanno tracce anche in testimonianze extrabibliche – aveva un rilievo particolare. Assegnato dal racconto del libro dei Numeri ora al popolo degli Aramei, ora a quello degli Ammoniti, Balaam incrocia la vicenda di Israele in marcia verso la terra promessa, dopo aver lasciato alle spalle l’oppressione egiziana. Questa massa di fuorusciti ha ormai raggiunto le steppe di Moab in Transgiordania. Battaglieri e pronti a tutto, accompagnati dalla fama di popolo protetto da un Dio potente, gli Israeliti seminano il panico tra gli indigeni moabiti e ammoniti.
Costoro decidono di ricorrere non tanto alle armi quanto piuttosto alla magia, e il re Balak di Moab interpella appunto Balaam perché, con le sue efficaci maledizioni, riesca ad arrestare questa orda di invasori. Ma ecco la grande sorpresa: con tutta la sua buona volontà, il mago non riesce a emettere se non benedizioni, divenendo paradossalmente un “profeta” di Israele, malgrado sé stesso, il suo desiderio e l’attesa del suo committente, il sovrano moabita. Il racconto dei capitoli 22-24 del libro dei Numeri è vivacissimo e, data la sua arcaicità, rivela anche qualche spunto favolistico, come quello dell’asina parlante la quale si schiera, anch’essa, dalla parte degli Ebrei (22,22-35).
Affidiamo ai nostri lettori l’impegno di seguire integralmente quella narrazione, soffermandosi soprattutto sui quattro oracoli di benedizione che Balaam pronunzia, in luogo delle attese maledizioni (23,7-10; 23,18-24; 24,3-9; 24,15-24). Nell’ultimo oracolo incontriamo il passo che proponiamo ora, un testo divenuto celebre per la rilettura messianica che ha subito nel giudaismo. Lo sguardo del mago-profeta si allunga verso un futuro ancora nebuloso e lontano e là egli intravede due segni, una stella e uno scettro, simboli regali.
La stella mattutina “Lucifero” era lo stemma ideale del re di Babilonia (Isaia 14,12). Ecco che la traduzione antica del nostro frammento ebraico nella lingua più popolare in epoca successiva, cioè l’aramaico, ha questa resa della prima immagine: «Un re spunta da Giacobbe». La stella si è trasformata in un sovrano, il re Messia. Così accadrà per Cristo, svelato ai Magi (ideali colleghi di Balaam) da una stella, e definito nell’Apocalisse «stella radiosa del mattino» (22,16). La luce, simbolo divino, accompagnerà anche il canto messianico di Isaia: «Il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una grande luce; su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse» (9,1).
Più immediato è il valore simbolico dello scettro, segno dell’autorità regale. Ma anche qui l’antica versione aramaica, riflettendo la tradizione giudaica, traduce invece di “scettro”: «Un messia sorge da Israele». Era ciò che balenava già nella benedizione che il patriarca Giacobbe aveva riservato alla tribù di Giuda dalla quale sarebbe nato Davide e, quindi, il re messianico: «Non sarà tolto lo scettro da Giuda né il bastone del comando tra i suoi piedi, finché verrà colui al quale esso appartiene e a cui è dovuta l’obbedienza dei popoli» (Genesi 49,10). Abbiamo, così, nelle parole di quel remoto mago d’Oriente un bagliore che anche i cristiani leggono, come gli Ebrei, quasi fosse il ritratto del Messia. Solo che per i cristiani quella stella e quello scettro rimandano a una persona precisa, Gesù Cristo, figlio di Maria, figlio di Dio.
Pubblicato il 22 dicembre 2011 - Commenti (2)
15 dic
Presentazione al tempio di Pietro Cavallini (1240 C.-1320 C.), Storie di Maria. Roma, Santa Maria in Trastevere.
"Egli è qui
per la caduta
e la risurrezione
di molti in Israele,
come segno
di contraddizione!
Anche a te
una spada
trapasserà
l'anima".
(Luca 2,34-35)
Un grande romanziere vittoriano inglese, Anthony Trollope (1815-1882), pone sulle labbra di un prete, mister Harding, protagonista dell’opera Il custode, le parole di Simeone, «uomo giusto e timorato di Dio», dopo aver capito che, vecchio e invalido, non potrà più suonare l’amato violoncello. Infatti, ne tocca le corde, ma riesce solo a trarne «un lagno bassissimo, di breve durata, a intervalli». Allora, «con un dolce sorriso» intona quel canto: «Signore, ora lascia che il tuo servo vada in pace!». In realtà, l’inno di Simeone, divenuto il noto Nunc dimittis del latino della liturgia serale della Compieta, non è un addio crepuscolare e malinconico, bensì un saluto festoso all’alba messianica che sta per schiudersi proprio in quel bambino che egli reca tra le braccia.
La scena è negli occhi di tutti, anche attraverso le mille riprese dell’arte nei secoli. Simeone è là, nel tempio di Sion, come una presenza orante. Egli incarna la speranza messianica dell’Israele fedele ed è lo Spirito profetico a muoverlo verso quella modesta famigliola che è salita al santuario per adempiere alla legge biblica del riscatto del primogenito, consacrato al Signore secondo la norma codificata nel capitolo 13 del libro dell’Esodo. Le sue sono innanzitutto parole di lode e di benedizione a Dio per la felicità che gli ha concesso di poter accogliere il Messia: «Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo vada in pace... perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza » (Luca 2,29-30).
Ma subito dopo, sempre nello Spirito dei profeti, la sua voce si fa severa e si proietta verso la distesa della storia futura in un oracolo di giudizio e di salvezza. Quel bambino entrerà nell’umanità come un «segno di contraddizione », una sorta di spada – come dirà lo stesso Gesù (Luca 12,51) – che taglia di netto il flusso degli eventi e genera opposizione e persino il rigetto aggressivo. Anche se enfatica, com’era nel suo stile, è suggestiva la definizione che di Cristo ha formulato lo scrittore Giovanni Papini: «il più grande Rovesciatore, il supremo Paradossista, il Capovolgitore radicale e senza paura». L’umanità non potrà evitarne il confronto, per amarlo o per detestarlo. Ininterrottamente saremo costretti a rispondere a quella sua domanda: «Ma voi chi dite che io sia?» (Matteo 16,15).
L’oracolo di Simeone contiene, però, un altro messaggio indirizzato alla madre di Gesù. L’immagine della spada che trafigge l’anima di Maria è parallela alla lancia che trapassa il costato di suo Figlio crocifisso e darà origine alla popolare iconografia della Vergine addolorata col cuore trafitto da una o sette spade. Ma qual è il significato di quell’annunzio terribile? Anticamente alcuni scrittori cristiani, come Origene, pensavano alla spina della tentazione che si incuneava nella fede pura di Maria, di fronte alla croce: si ripeteva per lei la prova di Satana nei riguardi di Cristo. Altri giungevano al punto di ipotizzare anche per lei il martirio! In realtà, il senso è limpido ed è proprio nella stessa linea dell’annuncio rivolto al suo Bambino.
La madre sarà nel cuore della lotta pro e contro Cristo. Anche lei si troverà al centro di quella “contraddizione” ove si scontreranno i cuori. San Paolo è illuminante quando definisce la croce di Gesù come «scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani; ma anche potenza di Dio e sua sapienza per coloro che sono chiamati, Giudei e Greci» (1Corinzi 1,23-24). Maria sarà accanto al Figlio anche in quel momento supremo in cui, perdendolo nella morte, lo ritroverà nella Chiesa, corpo del Cristo glorioso, di cui diverrà madre.
Pubblicato il 15 dicembre 2011 - Commenti (3)
08 dic
Pentecoste, dal Lezionario del Vangelo e delle Epistole (Lezionario di St. Trond, Belgio), metà del XII secolo. New York, The Pierpont Morgan Library.
"Effonderò su ogni persona il mio Spirito:
diverranno profeti i vostri figli e figlie,
i vostri anziani faranno sogni,
i vostri giovani avranno visioni,
su schiavi e schiave effonderò
il mio Spirito".
(Gioele 3,1-2)
Potremmo idealmente appendere questo testo al centro di un filo che ha due estremi. Il primo è retto da un picchetto piantato nel deserto del Sinai e reca questa dichiarazione- auspicio di Mosè: «Fossero tutti profeti nel popolo del Signore e volesse il Signore porre su di loro il suo spirito!» (Numeri 11,29). Era la reazione della grande guida di Israele all’impulsiva richiesta del giovane Giosuè, il suo futuro successore, che esigeva una censura nei confronti di due ebrei che non erano nella lista dei settanta anziani, il senato costituito da Mosè e investito dallo spirito profetico: anche su quei due, però, «si era posato lo spirito del Signore» (11,26).
L’altro estremo è, invece, legato a Gerusalemme. È il giorno di Pentecoste e l’apostolo Pietro ha davanti a sé la folla che l’ascolta e che è attraversata dallo Spirito Santo, capace di unire tutti nella stessa fede nonostante la diversità delle origini e la differenza delle lingue. Pietro inizia un discorso e spontaneamente applica subito all’evento l’antico oracolo di Gioele (Atti 2,14-21). Di questo profeta si conosce ben poco e la sua collocazione cronologica per la maggior parte degli studiosi è nel periodo successivo all’esilio babilonese, forse nel V secolo a. C. Il suo libretto è nettamente diviso in due quadri, così da diventare un dittico.
La prima scena è occupata da un’invasione di cavallette, simile a un esercito assalitore, flagello endemico dell’agricoltura del Vicino Oriente, presagio di carestia a causa della loro famelica voracità nei confronti delle coltivazioni. Il popolo si affida, allora, al Signore perché, come Sovrano del creato, fermi questa piaga (capitoli 1-2). Il secondo quadro, che occupa i capitoli 3-4, è invece dipinto con colori apocalittici e con lo sguardo puntato verso il «giorno del Signore», il tempo del giudizio finale sul male e sull’iniquità, ma anche aurora di una nuova èra. Sull’umanità, allora, si stenderà lo Spirito divino quasi come un nuovo soffio vitale che attraverserà l’intero popolo, raffigurato in tutte le sue articolazioni generazionali (padri e figli) e sociali (anziani, giovani e schiavi). È una trasfigurazione radicale della comunità che diventa un popolo di profeti, cioè di testimoni della parola di Dio al mondo. È ciò che si proclama anche per i battezzati cristiani nella celebrazione del sacramento che li consacra re, sacerdoti e profeti. È quella trasformazione interiore che aveva cantato il profeta Ezechiele: «Darò loro un cuore nuovo, uno spirito nuovo metterò dentro di loro. Toglierò dal loro petto il cuore di pietra, darò loro un cuore di carne» (11,19)
Un’ultima annotazione. Per descrivere lo spirito profetico Gioele usa due segni per noi forse sorprendenti e passibili di equivoco: «i sogni e le visioni». Ora, questo è un simbolo per indicare un tipo di conoscenza – quello appunto mistico, della profezia e della fede – differente dalla nostra logica puramente razionale, un po’ come accade in sogno. Era stato Dio stesso a dichiarare: «Se ci sarà tra voi un profeta, io, il Signore, in visione a lui mi rivelerò, in sogno parlerò a lui» (Numeri 12,6). Per questo il profeta era chiamato anche «Veggente », perché il suo occhio spirituale penetrava nel mistero divino con uno sguardo nuovo e diverso rispetto alla semplice contemplazione della realtà esteriore.
Pubblicato il 08 dicembre 2011 - Commenti (2)
01 dic
Giudizio Universale, angelo con tromba, scuola cassinese. Capua, Sant’Angelo in Formis
" Il Signore,
alla voce
dell'arcangelo
e al suono della
tromba di Dio,
discenderà
dal cielo.
E prima
risorgeranno
i morti in Cristo
e quindi noi,
ancora vivi,
saremo rapiti
con loro..."
(1 Tessalonicesi 4,16-17)
Ora è la seconda città della Grecia, importante
nodo stradale e commerciale,
ricca di monumenti bizantini. Allora
era la capitale della Macedonia e san Paolo
ricordava con piacere l’accoglienza fraterna
che gli avevano riservato i pagani, ma con
amarezza anche la dura reazione degli Ebrei
là residenti, che avevano contro di lui ordito
una sommossa popolare costringendolo a
una fuga indecorosa (Atti 17,1-10). Il fedele
discepolo Timoteo aveva poi recato all’Apostolo,
che si trovava a Corinto, notizie della
neonata Chiesa tessalonicese e dei suoi primi
problemi. Paolo aveva deciso, allora, di inviare
un messaggio a quella comunità, «da leggersi
a tutti i fratelli».
È l’anno 51: è questo il primo scritto paolino
a noi giunto e quasi certamente il primo
testo (cronologicamente parlando) del Nuovo
Testamento. A chi vorrà leggerlo integralmente
verranno incontro tonalità differenti.
C’è il registro autobiografico dei ricordi, segnato
dalla nostalgia, aperto però alla speranza
di un nuovo incontro. C’è il filone teologico
che si sviluppa attorno a tre temi:
l’amore fraterno, il mistero pasquale di Cristo
e la sua parousía o ritorno finale a suggello
della storia. C’è, poi, anche il tema morale
e pastorale: l’Apostolo, in 5,12-28, esorta la
comunità a vivere un’esistenza cristiana perfetta
e pura e lo fa attraverso una sequenza
di quattordici imperativi.
Il nostro frammento testuale si innesta
nel filone teologico, affrontando il tema del
ritorno di Cristo alla fine della storia. Lo scenario
che san Paolo tratteggia è, però, modulato
sul linguaggio apocalittico a quel
tempo dominante che ricorreva a immagini,
metafore e simboli. Così, stando sul vago,
cerca di risolvere un quesito che rodeva l’anima
dei cristiani tessalonicesi, convinti che
quell’ultimo evento fosse imminente. Essi
domandavano: in quell’istante supremo in
cui risorgeranno coloro che sono morti in pace
e in comunione con Cristo, i cristiani ancora
vivi quale sorte avranno?
L’Apostolo ricalca l’apparato delle visioni
epifaniche apocalittiche: cori celesti, trombe
divine, vortici, nubi, cieli squarciati. Non è,
quindi, una descrizione puntuale, ma una
rappresentazione simbolica di quel passaggio
dal tempo all’eterno, dallo spazio terreno
all’infinito di Dio. I morti e gli ancora viventi
entreranno nell’orizzonte trascendente:
ai Corinzi, poi, dirà che «non tutti dovremo
morire [in quel momento estremo], tutti
però saremo trasformati» (1Corinzi 15,51).
Soddisfatta questa curiosità dei Tessalonicesi,
ciò che a Paolo preme è ribadire che il destino
di tutti i fedeli è quello di «andare incontro
al Signore... e così essere per sempre
con lui» (4,17).
Per completezza dobbiamo, però, aggiungere
una nota conclusiva. Contro l’eccitazione
di coloro che, convinti dell’imminenza di
quel momento ultimo, abbandonavano le loro
responsabilità e i quotidiani impegni terreni,
Paolo raccomanda di «fare tutto il possibile
per vivere in pace, occupandosi delle
proprie cose e lavorando con le proprie mani,
come vi abbiamo ordinato, conducendo
una vita decorosa di fronte agli estranei [i
non credenti], senza aver bisogno di nessuno
» (4,11-12). In passato abbiamo già avuto
occasione di registrare come questo appello
sia andato a vuoto, perché – nella Seconda
Lettera che egli indirizzerà ai cristiani di Tessalonica
– l’Apostolo sarà costretto a rivolgere
loro una tirata d’orecchi ricordando che
«chi non vuole lavorare, neppure mangi!» (si
legga 2Tessalonicesi 3,6-15).
Pubblicato il 01 dicembre 2011 - Commenti (2)
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